Basato su dati ufficiali forniti da oltre 197 paesi e territori, il rapporto offre una panoramica dettagliata sull'estensione, la condizione, la gestione e gli usi delle foreste, contribuendo al monitoraggio di obiettivi globali come gli SDGs, l'Accordo di Parigi e il Piano Strategico delle Nazioni Unite per le Foreste.
Il bergamotto (Citrus bergamia Risso & Poiteau) rappresenta una delle espressioni più peculiari e identitarie della frutticoltura mediterranea. Con il 95% delle superfici coltivate concentrate lungo la fascia costiera ionica della Calabria, il bergamotto rappresenta infatti un raro esempio di monopolio colturale. La coltivazione in altri aerali italiani o in altri paesi non ha garantito produzioni sufficienti dal punto di vista quantitativo e qualitativo, ad oggi altri paesi produttori sono la Costa d’Avorio, la Guinea ed il Brasile. L’olio essenziale, ricavato dalla scorza del frutto, è da secoli un prodotto di pregio impiegato nella profumeria, nella cosmetica e, più recentemente, anche nei settori alimentare e nutraceutico. Negli ultimi anni si assiste inoltre alla parallela commercializzazione del frutto fresco alla luce del suo elevato valore nutraceutico. Tuttavia, la ristrettezza dell’areale di coltivazione, l’elevata specializzazione produttiva e la vulnerabilità a fattori biotici e abiotici pongono interrogativi cruciali sulla sostenibilità e la competitività futura della filiera. In questo contesto, le moderne tecnologie genomiche offrono strumenti di conoscenza e di innovazione che possono incidere profondamente sulle strategie di miglioramento genetico del bergamotto.
La genomica, intesa come studio sistematico della struttura, funzione ed evoluzione del patrimonio genetico, ha rivoluzionato la ricerca agraria negli ultimi vent’anni. La decodifica dei genomi di numerose specie di agrumi ha consentito di individuare geni e regioni cromosomiche associati a caratteri agronomici di interesse, aprendo la strada alla selezione assistita da marcatori molecolari.
Nel caso del bergamotto, le conoscenze genetiche disponibili sono limitate rispetto agli agrumi di più larga coltivazione, ma in rapida evoluzione. L’origine di questa specie è tuttora oggetto di discussione: si ritiene che derivi da un ibrido tra arancio amaro (C. x aurantium L.) e cedro (C. medica L.), o tra altre specie affini, configurandosi quindi come un genoma complesso e, al pari delle altre specie di agrumi, altamente eterozigote.
Pagliai – Caro Edoardo, da decenni ormai la degradazione del suolo è una delle emergenze a livello globale ma, nonostante questo, da una parte a questa risorsa preziosa non è mai stata riservata l’attenzione che meriterebbe e dall’altra aumenta l’aggressività delle azioni antropiche; infatti, ad esempio, è uscito in questi giorni il rapporto annuale dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) sul consumo di suolo dove si certifica il continuo incessante aumento arrivando a un tasso record di 2,7 metri quadrati al secondo di tale consumo! In questo contesto, la direttiva, approvata dal Parlamento Europeo il 23 ottobre 2025, sembra quanto mai opportuna.
Tale direttiva riconosce il suolo come una risorsa vitale, limitata e non rinnovabile su scala umana, fondamentale per l’economia, l’ambiente e la società. Suoli sani sono essenziali per la produzione di alimenti sicuri e nutrienti, la biomassa, la regolazione dell’acqua, il ciclo dei nutrienti, lo stoccaggio del carbonio e la biodiversità. Attualmente si stima che il 60-70% dei suoli dell’Unione sia deteriorato e continui a peggiorare, con costi economici enormi e rischi per la sicurezza alimentare e la salute umana.
Tu hai avuto modo di seguire l’iter di questa direttiva anche grazie al tuo ruolo in seno all’International Union of Soil Sciences e, soprattutto, con le tue interazioni con le Istituzioni Europee, qual è la tua valutazione su questo documento?
Costantini – La direttiva si inserisce nel quadro delle strategie UE (Green Deal, Strategia per la Biodiversità 2030, PAC, ecc.) e degli impegni internazionali (Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, Convenzione sulla desertificazione, Convenzione sui cambiamenti climatici), con l’obiettivo di raggiungere suoli sani in tutta l’Unione entro il 2050, attraverso un sistema armonizzato di monitoraggio dei suoli e una valutazione e gestione dei rischi per i siti contaminati.
L’impostazione è chiaramente tecnico-attuativa: non introduce nuovi obblighi diretti per gli agricoltori o i silvicoltori, ma obbliga gli Stati membri a organizzare un sistema solido di monitoraggio, valutazione, individuazione delle criticità e sostegno mirato alle pratiche migliorative. La logica è quella di rendere quello della salute e gestione del suolo un tema strutturato, tracciabile e sorvegliato al pari dell’acqua e dell’aria, coerente con PAC, direttiva nitrati, biodiversità, cambiamenti climatici e piani di adattamento.
Gli insetti abitano un universo prevalentemente “olfattivo” nel quale molte importanti funzioni vitali sono mediate da sostanze odorose da essi percepite attraverso complessi ed efficientissimi apparati sensoriali. Tali sostanze, conosciute come semiochimici, possono essere implicate nella comunicazione interspecifica, gli allelochimici, o regolare le relazioni comportamentali tra individui di una stessa specie, i feromoni.
Sebbene negli ultimi anni sia progressivamente aumentato l’interesse dei ricercatori per gli allelochimici, solo i feromoni, e in particolare quelli “sessuali” hanno trovato un crescente utilizzo nella protezione delle colture nell’ultimo cinquantennio.
Nei 66 anni trascorsi dalla prima identificazione di un feromone sessuale, quello prodotto dalle femmine del baco da seta, Bombix mori (Karlson & Luscher 1959), la ricerca ha via via posto le basi perché tali sostanze potessero essere oggi utilizzate come specifici attrattivi e mezzi di monitoraggio dei maschi adulti e soprattutto come inibitori degli accoppiamenti ai fini della conseguente riduzione delle uova e della progenie per centinaia di specie di insetti anfigonici di interesse agrario e forestale.
Nei lepidotteri, i feromoni sessuali sono prodotti dalle femmine a livello di ghiandole esocrine addominali ed esercitano una forte attrazione nei confronti dei maschi conspecifici sessualmente maturi. Da un punto di vista chimico sono costituiti da catene lineari insature idrocarburiche, solitamente con un numero pari di atomi di carbonio e con un gruppo terminale alcolico, aldeidico o acetato, le quali per loro natura sono altamente volatili e rapidamente degradabili.
Mentre nel caso dei lepidotteri la struttura chimica del feromone sessuale è oggi nota per centinaia di specie, in altri ordini di insetti lo studio di tali sostanze e, di conseguenza, il loro impiego, è molto meno progredito. Nelle cocciniglie, ad esempio, è stata finora descritta la struttura chimica delle miscele feromoniche - rappresentate perlopiù da esteri carbossilici di alcoli monoterpenici, emiterpenici o sesquiterpenici - di solo una trentina di specie appartenenti alle famiglie Diaspididae, Margarodidae, Matsucoccidae e Pseudococcidae.
Per il monitoraggio delle popolazioni adulte si utilizzano prevalentemente trappole con fondo collato innescate con erogatori impregnati con un analogo sintetico del feromone sessuale, che comprende uno o più componenti della miscela feromonica naturale. Queste trappole “a feromoni” vengono impiegate da decenni per stimare, attraverso la cattura di maschi, le cosiddette “curve di volo”, ovvero la dinamica dell’intera popolazione adulta e si configurano come uno strumento prezioso sia per valutare in termini relativi la consistenza demografica della specie, sia per prevedere, unitamente ai modelli previsionali, i periodi di ovideposizione e di sviluppo dei primi stadi preimmaginali, utili a definire i momenti ottimali per l’applicazione di misure di controllo ovo-larvicide.
Negli ultimi mesi non sono mancate le informazioni di stampa riferite a situazioni di criticità per il comparto del nocciolo, lamentate sia dai tecnici che dagli agricoltori delle zone corilicole più affermate del nostro Paese. A tal proposito è opportuno distinguere tra i risultati più che appaganti riscontrati nei nuovi noccioleti realizzati con criteri moderni che rispecchiano i più recenti risultati dell’innovazione, in attinenza con quanto già da tempo applicato nella moderna frutticoltura, rispetto alla scarsa produttività lamentata in gran parte delle aree legate alle coltivazioni tradizionali del passato. Infatti, nel 2025 la redditività del nocciolo ha presentato scenari netti e differenziati a seconda del contesto produttivo e delle tecniche di coltivazione impiegate, evidenziando come gli agricoltori operanti nelle zone della corilicoltura storica si siano trovati sotto pressione a causa delle mutevoli condizioni climatiche e fitosanitarie, spesso aggiuntesi alle difficoltà organizzative e gestionali già note da tempo.
In tali comprensori tradizionali l’annata è stata caratterizzata da abbondante cascola non sempre attribuibile a una singola causa. Il fenomeno si è rivelato particolarmente preoccupante per i noccioleti situati in media collina e condotti con metodi classici, condizioni tipiche in tante delle aree di coltivazione che spesso vengono indicate come “vocate”. In questi contesti alcune criticità ben note sono state amplificate dagli effetti negativi derivanti dall’andamento climatico. All’origine della cascola, la cui massima evidenza si è manifestata in giugno, devono essere anche compresi alcuni fattori abiotici, come le piogge concomitanti con il momento della diffusione del polline, spesso sommatisi agli attacchi di specifici patogeni e al successivo ruolo svolto da diverse specie di cimici.
Per mettere a fuoco le difficoltà delle coltivazioni tradizionali appena dette è necessario evidenziare almeno le più importanti condizioni avverse, come elencate di seguito, che quest’anno sono affiorate con particolare evidenza, soprattutto nei contesti riferiti ad attività marginali che quasi mai si avvicinano ai connotati tipici dell’attuale frutticoltura.
La questione della bonifica delle discariche abusive presenti sul territorio nazionale e oggetto della Sentenza dell’Unione Europea del 2 dicembre 2014 ha origine negli anni ‘80 ed è una vicenda di tutela e sostenibilità ambientale che l’Italia nel suo complesso ha avviato a soluzione con l’apporto della Commissione Europea. Nel periodo di anni ’70-‘90 nel nostro Paese si rendono evidenti i problemi connessi alla sovra utilizzazione delle risorse ambientali e territoriali, analogamente a quanto verificatosi in Europa ma anche nelle altre Aree mondiali a più intensa produzione economica.
Il corretto ed efficace smaltimento e gestione dei rifiuti intesi come “ciclo vita” e come “valore” e non come “rifiuto” è la cartina di tornasole della nostra sostenibilità.
L’Italia avviò, già nel 1986, attraverso, i Carabinieri Forestali, così riorganizzati dal 1° gennaio 2017, il “1° Censimento delle cave abbandonate e delle discariche abusive” ripetuto poi negli anni successivi per altre quattro volte (1996, 2002, 2008 e 2016) perché si era compreso che accanto alle questioni delle piogge acide, degli incendi boschivi e delle costruzioni abusive, il bosco, i territori montani e rurali, la natura, il paesaggio, il territorio nel suo complesso erano seriamente minacciati anche dall’eccessivo numero di discariche abusive e di cave abbandonate attivate e gestite in modo incontrollato. Dai circa 5.000 siti iniziali, per successive approssimazioni di controlli e di applicazione della norma, fu individuato in 200 siti dichiarati non conformi alle Direttive UE 75/442 e 91/689 per le quali si è reso necessario avviare le opportune operazioni di bonifica per corrispondere all’apertura della Procedura di Infrazione e alla Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C.G.U.E.) dell’anno 2003.
Oggi l’impegno continua attraverso una figura specifica di impulso e coordinamento delle attività, quale il Commissario Unico per la realizzazione degli interventi necessari all’adeguamento alla normativa vigente delle discariche abusive presenti sul territorio nazionale che si avvale di un Ufficio altamente specializzato composto oggi da diciotto militari dell’Arma e dieci esperti, e dipendente per gli aspetti logistico amministrativi dal Comando Generale dell’Arma e dalla Legione Lazio e dal Comando Unità Tutela Forestale Ambientale e Agroalimentare di Roma (CUFAA) per i necessari rapporti di collaborazione funzionale.
Ferrucci: La politica ambientale internazionale, unionale e nazionale, sulle orme della Scienza, ha da tempo maturato la consapevolezza della duplice importanza della biodiversità, letta, sempre attraverso la lente dell’antropocentrismo, da un lato, in relazione alla gamma di servizi ecosistemici che la stessa fornisce all’uomo, dall’altro al gioco sinergico che la stessa gioca sulla scacchiera della One Health, nella reciproca interconnessione, positiva e negativa, con il climate change. I cultori del Diritto Ambientale hanno attribuito alla creazione degli organismi internazionali, ONU e a cascata, l’UNESCO, e al loro proficuo operare, il primato nelle diverse tappe nelle quali si è snodata la tutela dell’ambiente e della sua componente, la biodiversità. Ho pensato a Te, per la posizione che rivesti all’intero della Rete delle Cattedre UNESCO Italiane e nei contesti Internazionali e per il Tuo prezioso bagaglio di conoscenza della sua attività che lo stesso ha svolto e continua a svolgere per dialogare sui punti salienti del suo operare per la tutela della natura.
Rondinella: Sono onorata per questo invito, Nicoletta, e Ti ringrazio per l’attenzione verso il ruolo dell’UNESCO nella tutela della biodiversità. È importante ricordare che, pur non essendo un’agenzia ambientale in senso stretto, l’UNESCO ha svolto un ruolo pionieristico nel definire i principi e la cultura internazionale della sostenibilità, anticipando di decenni il dibattito globale sui rapporti tra ambiente, società e sviluppo. Già negli anni Settanta, con il Programma “Man and the Biosphere” (MAB), avviato nel 1971, e la creazione della Rete Mondiale delle Riserve della Biosfera, l’UNESCO introdusse un approccio innovativo fondato sull’integrazione tra conservazione della natura e sviluppo umano sostenibile. Un anno dopo, la Convenzione sul Patrimonio Mondiale Culturale e Naturale (1972) sancì a livello giuridico l’importanza della protezione dei beni naturali di eccezionale valore universale, ponendo le basi di quella che possiamo considerare la prima architettura globale della conservazione. Successivamente, la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale (2003) ha ulteriormente ampliato questa visione, riconoscendo che la tutela della biodiversità passa anche attraverso la salvaguardia dei saperi tradizionali, delle pratiche agricole e delle tecniche artigianali che mantengono vivo il legame tra comunità e ambiente. Un esempio emblematico è proprio la vite ad alberello di Pantelleria, iscritta nella Lista del Patrimonio Immateriale dell’Umanità nel 2014, simbolo di un sapere agricolo modellato sull’armonia con la natura.
Questo percorso si è poi consolidato attraverso strumenti successivi, come la 41 C/Resolution 30 (2021) della Conferenza Generale, che ha riconosciuto il contributo dell’UNESCO all’attuazione del Post-2020 Global Biodiversity Framework adottato a Montreal, e con la Strategia a Medio Termine 2022–2029 (41 C/4), che colloca la biodiversità tra le priorità globali dell’Organizzazione insieme alla transizione ecologica, alla scienza aperta e all’educazione per lo sviluppo sostenibile.
Sembra che ogni stagione politica porti con sé la stessa pioggia di proclami: “pianteremo milioni di alberi”, “copriremo di verde le città”, “trasformeremo i deserti urbani in foreste metropolitane”. Numeri tondi, slogan accattivanti, promesse facili da titolare e ancor più facili da dimenticare. La politica italiana – ma non solo – sembra aver trovato nell’albero l’icona perfetta della retorica ambientale: evocativa, incontestabile, buona per tutte le stagioni.
Peccato che, al di là dei comunicati stampa, la terra davvero smossa sia davvero poca, le piante davvero messe a dimora ancora meno, e la cura quasi inesistente. Ci si riempie la bocca di milioni di alberi, ma non si affrontano i problemi concreti: vivai insufficienti, scarsità di personale tecnico specializzato, mancanza di pianificazione, soprattutto assenza di una strategia gestionale che impedisce a quelle poche piante di arrivare alla maturità.
Come cantava Elvis Presley: “A little less conversation, a little more action”. Perché di parole ne abbiamo sentite fin troppe (anche dal sottoscritto), mentre le azioni concrete si contano sulle dita di una mano.
Il paradosso è che i numeri sparati dai politici finiscono inevitabilmente sulle prime pagine dei giornali, che li rilanciano senza il minimo spirito critico. È il regno del titolismo: “Un miliardo di alberi!”, “Foresta urbana per ogni città!”, “Un albero per ogni abitante!”. Tutto fa spettacolo. Nessuno che si fermi a chiedere: dove verranno piantati? Con quali specie? Chi se ne occuperà dopo i primi due anni? Quanto dureranno?
I quotidiani sembrano più interessati a cavalcare l’”onda verde” che a scavare davvero nella sostanza. Un articolo ben documentato, con riferimenti a studi scientifici o a casi internazionali di successo (o fallimento), evidentemente vende meno di un titolone roboante. Così il lettore rimane con l’impressione che il problema sia risolto con un annuncio, quando invece la distanza tra proclami e realtà è siderale.
La verità che non si dice è che gli alberi non si piantano con i tweet né con le conferenze stampa.
Servono:
• piani pluriennali che integrino verde, infrastrutture e servizi;
• risorse economiche reali, non solo “stanziamenti” teorici;
• tecnici specializzati (arboricoltori, agronomi, forestali, vivaisti, gestori);
• monitoraggio e cura costante: perché un albero piantato male o abbandonato dopo due anni non è un successo, ma un fallimento costoso.
Frusciante: Lo studio delle sequenze genomiche rappresenta uno strumento fondamentale per comprendere la biologia delle piante e le loro caratteristiche ereditarie. Analizzarle permette di ottenere informazioni dettagliate sui geni e sui meccanismi che regolano caratteri agronomici importanti, fornendo una base solida per sviluppare strategie innovative in ricerca e agricoltura. La conoscenza approfondita di queste sequenze consente di supportare interventi mirati, migliorare la selezione varietale e accelerare lo sviluppo di nuove cultivar più resilienti e produttive, oltre a facilitare l’applicazione delle tecnologie di evoluzione assistita (TEA).
D’Agostino: La conoscenza dell’intera sequenza di DNA (genoma) di una pianta coltivata permette di identificare con precisione i geni responsabili di caratteri agronomici chiave, come la resistenza agli stress ambientali, la qualità, la produttività e la shelf-life, e di pianificare interventi mirati. Inoltre, permette di progettare guide specifiche per strumenti come CRISPR/Cas, che funzionano come un navigatore satellitare capace di accompagnare con precisione le “forbici molecolari” (Cas) fino al punto esatto del DNA da tagliare, riducendo al minimo gli effetti off-target, cioè tagli indesiderati in regioni diverse da quelle bersaglio ma caratterizzate da una sequenza simile. Un’applicazione consolidata di questa tecnologia è il knockout genico, una tecnica che permette di inibire permanentemente l'espressione di un determinato gene. Ad esempio, il gene MLO è responsabile della suscettibilità delle piante all’oidio, che causa la muffa invernale. Eliminando questo gene con CRISPR/Cas, piante come il frumento e il pomodoro diventano più resistenti al patogeno, riducendo così le perdite di raccolto.
Le risorse genomiche offrono la possibilità di individuare varianti naturali vantaggiose all’interno di popolazioni coltivate, varietà locali o specie selvatiche affini. Queste varianti rappresentano bersagli privilegiati per interventi di base editing, una tecnica che permette la sostituzione diretta di singole basi azotate senza introdurre tagli nel DNA, funzionando in modo simile al comando ‘trova e sostituisci’ di un editor di testo come Word. L’identificazione di tali varianti consente di riprodurre in maniera mirata mutazioni già presenti in natura, riducendo significativamente i tempi rispetto ai metodi tradizionali di miglioramento genetico. Inoltre, la disponibilità di un ampio repertorio di varianti offre agli studiosi la possibilità di valutare e selezionare le combinazioni genetiche più adatte a specifici contesti agronomici o climatici, favorendo così lo sviluppo di cultivar più resilienti, produttive e sostenibili.
Il territorio della Toscana settentrionale presenta un’elevata frammentazione ecologica dovuta alla forte pressione infrastrutturale e insediativa. Le autostrade, l’Aurelia, la ferrovia insieme alle opere connesse, costituiscono vere e proprie barriere fisiche che interrompono la continuità della piana costiera e le relazioni con i sistemi territoriali adiacenti.
Il prossimo 9 ottobre, presso la sede dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali a Firenze, verranno presentate due raccolte di saggi di particolare rilievo, dedicate all’analisi dell’intersezione tra scienze forestali, gestione del territorio, prospettiva storica e dimensione giuridica. Si tratta dei volumi Foreste e territorio in Italia. Riflessioni a cento anni dal R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267 (a cura di Federico Roggero, edito da Giappichelli, 2025) e Gestione del rischio idrogeologico e proprietà privata: i diversi modelli di intervento dall’antichità ad oggi (a cura di Lauretta Maganzani, Elisabetta Fiocchi Malaspina e Simona Tarozzi, edito da Jovene, 2025).
I boschi hanno sempre intercettato l'interesse dei legislatori, sia per le utilità economiche che hanno offerto, sia per i benefici di carattere protettivo, ambientale e paesaggistico che hanno garantito alle comunità. I temi dell’intervento pubblico sul territorio erano attuali un tempo e lo sono ancora. Oggi come nel passato, le ricadute socioeconomiche della legislazione di vincolo cercano un bilanciamento con le esigenze di conservazione delle utilità di interesse generale offerte dai boschi. Le politiche più recenti sono connotate, sotto questo profilo, dal criterio della sostenibilità, quale parametro per valutare l’impatto antropico sugli ecosistemi.
Non però soltanto i boschi, bensì più in generale l’idea complessiva di territorio che attraverso i secoli ha ispirato, ed ispira ancora oggi, il livello politico-legislativo, passando per la regimazione delle acque, le sistemazioni idrogeologiche dei bacini montani, le bonifiche, le aree naturali protette, il paesaggio: le foreste vengono colte, nei volumi che si presentano, quali elementi di un approccio alla cura e conservazione del suolo che coinvolge diverse tipologie di beni e di amministrazioni pubbliche, ma anche private o collettive; in un intreccio che, sul piano giuridico, tocca specialmente lo statuto della proprietà privata ed i limiti del potere pubblico riguardo ad essa, nel passato come nell’attuale contesto specialmente attento alla protezione dell’ambiente.
Le categorie concettuali attraverso cui il potere pubblico interviene sui beni privati si sono delineate fin dalle origini del dibattito, già nell’Ottocento, e costituiscono ancora oggi l’ossatura degli strumenti legislativi e regolamentari che compongono il quadro normativo in materia di governo del territorio. In questo contesto l’analisi puntuale degli strumenti normativi vigenti in materia forestale, sia a livello italiano che eurounitario e internazionale, si completa, perciò, nei due volumi, con indagini storico giuridiche e storico economiche che pongono in luce, ad un tempo, l’attualità dei temi affrontati e loro lunga durata, come pure la loro proiezione nelle strategie delineate per il futuro. Gli autori dei contributi sono studiosi appartenenti a diverse discipline: la storia del diritto, il diritto amministrativo, il diritto agrario, l'economia, la storia politica ed economico-agraria.
I volumi collettanei in questione attestano altresì la necessità di una cooperazione, nel passato come anche oggi, tra le varie scienze che ruotano intorno al bosco. Bene “multifunzionale”, il bosco richiede infatti un approccio necessariamente sinergico, ed un vero dialogo, tra diversi rami del sapere. Le scienze naturali, idrogeologiche, ma anche quelle economiche, statistiche, ecc., sono al servizio della politica e della legislazione, ed a sua volta il legislatore deve arricchire il suo sapere volgendo la sua attenzione a quelle scienze che, sole, possono sostenerne la costruzione di un disegno normativo coerente e funzionale agli obiettivi di conservazione delle utilità ecosistemiche, come anche dei valori economici della appartenenza privata dei beni.
Ranalli: Sempre più spesso, nei mass-media (salotti televisivi, radio, giornali, canali social), si sente discettare sui cibi ultra-processati e della possibile azione negativa sulla salute. La querelle appassiona molto ed ha suscitato un vivace dibattito nella comunità scientifica e nel pubblico.
A me sembra che, sebbene non ci sia ancora un consenso unanime su tutti gli aspetti, le evidenze scientifiche a supporto dei potenziali effetti negativi di un elevato consumo di questi alimenti siano sempre più numerose e consistenti. Risulta opportuno, quindi, scendere nel concreto e chiarire cosa sono questi cibi, come si ottengono, le caratteristiche nutritive e il loro appeal presso i consumatori.
Franchi: I cibi ultra-processati sono prodotti alimentari industriali che subiscono trasformazioni non riproducibili in ambiente domestico e contengono ingredienti, come additivi chimici, coloranti, emulsionanti, aromi artificiali e dolcificanti, utilizzati allo scopo di esaltarne la palatabilità, aumentarne il consumo e prolungarne i tempi di conservazione. Alcuni esempi sono le merendine confezionate, snack dolci o salati, i wurstel, bibite zuccherate e gassate. Rientrano in questa categoria anche prodotti come fette biscottate e cereali da colazione zuccherati. Sono spesso prodotti ad alta densità energetica, e a bassa qualità nutrizionale, perché ricchi in zuccheri, grassi saturi e sale, ma scarsi in proteine, fibre, minerali e vitamine. Nonostante questo sono molto consumati per la loro praticità e iperpalatabilità.
Pagliai – Dalle colonne di questo notiziario abbiamo più volte sostenuto che l’abbandono delle aree marginali collinari e montante e il conseguente abbandono di quelle pazienti e faticose opere di manutenzione del territorio e di regimazione delle acque e la crisi climatica in corso sono le cause scatenanti delle catastrofiche alluvioni, ormai non più eccezionali ma drammaticamente continue e diffuse su tutto il territorio nazionale. Abbiamo più volte ribadito che l’agricoltura è l’ultimo baluardo per il presidio del territorio. Anche la tua regione, caro Gilmo, l’Emilia Romagna ne è stata duramente colpita e ha veramente messo in ginocchio gli agricoltori, già vittime della crisi del settore, tanto che non si riesce a rimarginare le ferite prodotte da quelle inondazioni di fango. Proprio per questo credo sia opportuno capire le dinamiche di questi processi erosivi che si innescano dalla montagna e dalla collina con peculiari caratteristiche pedologiche e litologiche. So che tu sei molto attivo su queste tematiche, puoi illustrarci queste dinamiche strettamente legate al suolo, o meglio, ai tipi di suolo?
Vianello – In concomitanza degli eventi degli ultimi anni, oltre alle città gravemente danneggiate, numerose frane sono avvenute nei terreni collinari e gli allagamenti hanno colpito enormi distese di terreni agricoli, aumentando le preoccupazioni degli agricoltori, ormai soggetti sia alla siccità che alle alluvioni, con rilevantissime perdite di produzioni. Per spiegare tali fenomeni vengono spesso utilizzati termini non appropriati del tipo “cambiamenti climatici” ed “eventi eccezionali”; in realtà, a meno di cataclismi geotettonici, il clima non “cambia”, bensì “varia” nel tempo regolato dai cicli terrestri. Oggi, come già avvenuto nei precedenti intervalli interglaciali pleistocenici, le temperature stanno aumentando e non si è in grado di prevederne i picchi temporali, ma tale incremento, concatenato all’Effetto Serra e al riscaldamento di aria e oceani, sta modificando il regime delle piogge. Questo porta, dunque, al ripetersi di fenomeni avvenuti anche in tempi relativamente recenti: tra i più disastrosi le inondazioni del 1917 in Lombardia e i dissesti del 1939 che colpirono molte zone della Romagna e delle Marche, l’alluvione del 1951 causata dalle acque del fiume Po che interessò i due terzi della provincia di Rovigo e quella di Firenze nel 1966 per la tracimazione dell’Arno; gli eventi che si sono verificati nel 2023 e nel 2024 vanno considerato devastanti, ma non eccezionali. In Italia, dal dopoguerra a oggi, la popolazione è cresciuta e con essa l’esigenza di insediamenti residenziali e produttivi, il che ha incautamente portato ad occupare luoghi a rischio idrogeologico, a ridurre la sezione degli alvei fluviali, nella errata convinzione che gli argini fossero in grado di contenere le piene dei corsi d’acqua, riducendone la manutenzione. Oggi le soluzioni idrauliche proposte puntano al consolidamento degli argini e alla realizzazione di nuove opere di laminazione, tuttavia, viene tenuto in scarso conto il fatto che i depositi legnosi che ingombrano gli alvei dei corsi d’acqua, di cui si fa divieto di asporto durante i periodi di secca, vengono riversati a valle nei momenti di piena creando spesso delle vere e proprie dighe, per lo più in corrispondenza delle arcate dei ponti, tali da modificare il regolare deflusso delle acque con il risultato di provocare tracimazioni e rottura delle arginature. Dunque, la forte antropizzazione e il consumo di suolo avvenuti in Italia, si sono andati ad unire alla fragilità di molte zone, in particolare della Pianura Padana (storicamente alluvionale), che hanno fatto collassare le opere di salvaguardia del territorio ormai inadeguate su tutto il territorio nazionale.
Il 15 luglio 2025 la Commissione europea ha pubblicato il suo primo parere ai sensi dell’art. 210 bis, par. 6 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 (c.d. OCM unica), in merito alla conformità alla legislazione europea di un accordo di sostenibilità destinato ad entrare in vigore tra un gruppo di produttori di vini della regione francese dell’Occitania.
Quando questo immenso patrimonio di ville, fattorie, giardini con l’estinzione della casata medicea e la morte di Giangastone passò ai Lorena e poi, dopo la Reggenza nel 1765, al figlio più giovane di Maria Teresa imperatrice d’Austria, Pietro Leopoldo, la questione di queste ville, non sempre ben amministrate, fu posta all’ordine del giorno.
I terreni agricoli sostenuti da muri di pietra a secco sono l’impronta più diffusa e persistente della secolare coltivazione dei versanti montuosi in Liguria. Terra a scarsa vocazione agricola per l’accidentata morfologia, la Liguria ha obbligato la popolazione a ottenere dal mare il guadagno e dal gradonamento dei versanti disboscati le superfici piane, assenti in natura, dove potere coltivare ulivo, vite ed ortaggi. Quando tempo e manodopera erano risorse a basso costo e comunemente disponibili, scavare e riportare la terra, sollevare e giustapporre i sassi, raggiungere a piedi per coltivare manualmente il terreno consentivano un reddito integrativo ai ricavi della pesca e del trasporto marittimo, tale da valorizzare la proprietà agricola, per quanto piccola fosse. Dopo l’ultimo conflitto mondiale, il processo di abbandono delle zone più svantaggiate e meno produttive è stato tanto rapido quanto diffuso, tale da motivare iniziative, tra cui la valorizzazione delle produzioni locali e del paesaggio storico rurale, per limitare le conseguenze dello spopolamento e del dissesto idrogeologico: leggi forestali regionali sul vincolo per scopi idrogeologici facilitano dal 1984 la ricostruzione dei muri a secco e la rimessa a coltura, i programmi di sviluppo rurale contengono misure dedicate alla manutenzione dei muri a secco e di incentivazione dell’agricoltura tradizionale, l’istituzione del Parco nazionale delle Cinque terre è finalizzata anche alla conservazione del paesaggio agricolo terrazzato, il Registro nazionale dei paesaggi rurali storici ne promuove mantenimento e recupero.
Valutazioni dirette e studi scientifici hanno evidenziato la funzionalità dei sistemi di drenaggio e di sostegno propria dei muri di pietra a secco per garantire la stabilità dei terreni terrazzati e come la mancata o scarsa manutenzione favorisca i fenomeni gravitativi e l’erosione del suolo, soprattutto nelle prime fasi di abbandono e durante gli eventi meteorici intensi.
Sebbene la coltivazione del caffè sia un fattore di impatto primario, l'imballaggio, specialmente quello dei formati monodose, contribuisce in modo sproporzionato all'onere ambientale complessivo nella fase di utilizzo da parte del consumatore.
Nel luglio scorso, Lamberto Frescobaldi, accademico dei Georgofili, è stato confermato all’unanimità presidente di Unione italiana vini per il prossimo triennio. Fiorentino, rappresenta la trentesima generazione di viticoltori della famiglia; laureato in viticoltura all’Università di Davis, California, guida la Marchesi Frescobaldi, azienda di circa 1.500 ettari vitati suddivisi nelle varie Tenute in Toscana e in Friuli. Ha anche sviluppato la collaborazione con l’Istituto di Pena dell’Isola della Gorgona (Livorno) per la produzione di vini all’interno del carcere.
Qual è lo scenario di mercato attuale per il vino italiano?
Dopo anni di crescita trainata dall’export, il vino italiano mostra segni di rallentamento. Nel 2023 i ricavi sono scesi del 4%, mentre il rimbalzo del 2024 (+3,3% a volume, +5,5% a valore) è stato gonfiato da fattori congiunturali come la corsa alle scorte degli importatori americani prima dei dazi e l’exploit russo. Questa dinamica, che si è protratta anche nei primi mesi del 2025, ha invertito il segno alla prova dell’effettiva entrata in vigore delle tariffe statunitensi, che hanno determinato non solo un significativo calo dei volumi, ma anche un crollo dei prezzi medi nel primo mercato di riferimento (-13,5%). Ma il vero nodo cruciale è il consumo: Italia, USA, Germania e Regno Unito, che valgono complessivamente il 73% delle vendite, registrano cali costanti. A fronte di una domanda interna e globale in contrazione, sollecitata da nuovi profili di consumatori che il comparto vino ha solo iniziato a conoscere e intercettare, non possiamo restare ancorati ai paradigmi del passato. Dobbiamo pensare ad una nuova architettura dell’offerta made in Italy.
Come organizzare e su che cosa basare una nuova campagna di comunicazione antitetica a quella di demonizzazione?
Credo che la comunicazione debba aderire allo stesso stile che predica per il vino: evitare gli eccessi. Il vino è un prodotto meraviglioso ma l’unico modo per coglierne a pieno le sfumature è consumarlo con moderazione, e questo è quello che, come settore, sosteniamo e comunichiamo con fermezza da sempre. A questo impegno si affianca l’attenzione a livello internazionale per monitorare, intercettare e reagire alle iniziative, come gli health warning, che - oltre a demonizzare il prodotto – rischiano di rappresentare uno svantaggio competitivo e ulteriori ostacoli al commercio dei nostri prodotti. Per quanto riguarda la promozione delle etichette made in Italy, infine, dobbiamo puntare sui tratti distintivi dei nostri prodotti: Il nostro vino deve esprimere fascino, essere simbolo di italianità e, quindi, di qualità della vita.
Vorrei infine sottolineare un aspetto troppo spesso dato per scontato: il vino non è solo un prodotto da consumare. Le nostre vigne generano ricchezza, valorizzano territori altrimenti abbandonati o incolti, preservano paesaggi e portano un contributo sul valore aggiunto pari all’1,1% del Pil nazionale. Forse, prima di cercare di colpire un settore, dovremmo considerare anche questo.
Ferrucci: Nella recente politica climatico-ambientale internazionale e dell’Unione Europea si registra una forte sollecitazione diretta anche a chi opera nel settore del verde, ad operare scelte gestionali funzionali al risparmio delle risorse idriche. Il Dry garden potrebbe fungere da modello da seguire in questa direzione?
Zanarotti: È ormai nella coscienza di tutti quanto l’acqua sia un bene prezioso, da utilizzare con parsimonia e rispetto. Questo ha portato a una maggiore consapevolezza anche nell’ambito della progettazione del verde, dal giardino privato alle sistemazioni paesaggistiche su più larga scala, evitando spreco e dispendio idrico. Il concetto di base è quello di ottimizzare le risorse idriche disponibili, partendo già in fase progettuale, evitando di prevedere l’utilizzo di specie che richiedano un eccessivo apporto idrico rispetto alla zona geografica in cui andranno piantate e utilizzando tutte le pratiche agronomiche idonee al risparmio idrico. Questo assunto iniziale non è però sufficiente, in special modo in un paese come il nostro in cui le variazioni climatiche e pedologiche variano anche in territori posti a breve distanza geografica l’uno dall’altro, se non addirittura all’interno dello stesso areale: è sufficiente un cambio di esposizione di versante, o una pendenza più o meno accentuata per modificare sostanzialmente la situazione per lo sviluppo delle stesse specie.
Ferrucci: Il termine Dry garden si presta, nel comune sentire, a letture fuorvianti. Ma qual è la sua accezione corretta?