Sembra che ogni stagione politica porti con sé la stessa pioggia di proclami: “pianteremo milioni di alberi”, “copriremo di verde le città”, “trasformeremo i deserti urbani in foreste metropolitane”. Numeri tondi, slogan accattivanti, promesse facili da titolare e ancor più facili da dimenticare. La politica italiana – ma non solo – sembra aver trovato nell’albero l’icona perfetta della retorica ambientale: evocativa, incontestabile, buona per tutte le stagioni.
Peccato che, al di là dei comunicati stampa, la terra davvero smossa sia davvero poca, le piante davvero messe a dimora ancora meno, e la cura quasi inesistente. Ci si riempie la bocca di milioni di alberi, ma non si affrontano i problemi concreti: vivai insufficienti, scarsità di personale tecnico specializzato, mancanza di pianificazione, soprattutto assenza di una strategia gestionale che impedisce a quelle poche piante di arrivare alla maturità.
Come cantava Elvis Presley: “A little less conversation, a little more action”. Perché di parole ne abbiamo sentite fin troppe (anche dal sottoscritto), mentre le azioni concrete si contano sulle dita di una mano.
Il paradosso è che i numeri sparati dai politici finiscono inevitabilmente sulle prime pagine dei giornali, che li rilanciano senza il minimo spirito critico. È il regno del titolismo: “Un miliardo di alberi!”, “Foresta urbana per ogni città!”, “Un albero per ogni abitante!”. Tutto fa spettacolo. Nessuno che si fermi a chiedere: dove verranno piantati? Con quali specie? Chi se ne occuperà dopo i primi due anni? Quanto dureranno?
I quotidiani sembrano più interessati a cavalcare l’”onda verde” che a scavare davvero nella sostanza. Un articolo ben documentato, con riferimenti a studi scientifici o a casi internazionali di successo (o fallimento), evidentemente vende meno di un titolone roboante. Così il lettore rimane con l’impressione che il problema sia risolto con un annuncio, quando invece la distanza tra proclami e realtà è siderale.
La verità che non si dice è che gli alberi non si piantano con i tweet né con le conferenze stampa.
Servono:
• piani pluriennali che integrino verde, infrastrutture e servizi;
• risorse economiche reali, non solo “stanziamenti” teorici;
• tecnici specializzati (arboricoltori, agronomi, forestali, vivaisti, gestori);
• monitoraggio e cura costante: perché un albero piantato male o abbandonato dopo due anni non è un successo, ma un fallimento costoso.
Frusciante: Lo studio delle sequenze genomiche rappresenta uno strumento fondamentale per comprendere la biologia delle piante e le loro caratteristiche ereditarie. Analizzarle permette di ottenere informazioni dettagliate sui geni e sui meccanismi che regolano caratteri agronomici importanti, fornendo una base solida per sviluppare strategie innovative in ricerca e agricoltura. La conoscenza approfondita di queste sequenze consente di supportare interventi mirati, migliorare la selezione varietale e accelerare lo sviluppo di nuove cultivar più resilienti e produttive, oltre a facilitare l’applicazione delle tecnologie di evoluzione assistita (TEA).
D’Agostino: La conoscenza dell’intera sequenza di DNA (genoma) di una pianta coltivata permette di identificare con precisione i geni responsabili di caratteri agronomici chiave, come la resistenza agli stress ambientali, la qualità, la produttività e la shelf-life, e di pianificare interventi mirati. Inoltre, permette di progettare guide specifiche per strumenti come CRISPR/Cas, che funzionano come un navigatore satellitare capace di accompagnare con precisione le “forbici molecolari” (Cas) fino al punto esatto del DNA da tagliare, riducendo al minimo gli effetti off-target, cioè tagli indesiderati in regioni diverse da quelle bersaglio ma caratterizzate da una sequenza simile. Un’applicazione consolidata di questa tecnologia è il knockout genico, una tecnica che permette di inibire permanentemente l'espressione di un determinato gene. Ad esempio, il gene MLO è responsabile della suscettibilità delle piante all’oidio, che causa la muffa invernale. Eliminando questo gene con CRISPR/Cas, piante come il frumento e il pomodoro diventano più resistenti al patogeno, riducendo così le perdite di raccolto.
Le risorse genomiche offrono la possibilità di individuare varianti naturali vantaggiose all’interno di popolazioni coltivate, varietà locali o specie selvatiche affini. Queste varianti rappresentano bersagli privilegiati per interventi di base editing, una tecnica che permette la sostituzione diretta di singole basi azotate senza introdurre tagli nel DNA, funzionando in modo simile al comando ‘trova e sostituisci’ di un editor di testo come Word. L’identificazione di tali varianti consente di riprodurre in maniera mirata mutazioni già presenti in natura, riducendo significativamente i tempi rispetto ai metodi tradizionali di miglioramento genetico. Inoltre, la disponibilità di un ampio repertorio di varianti offre agli studiosi la possibilità di valutare e selezionare le combinazioni genetiche più adatte a specifici contesti agronomici o climatici, favorendo così lo sviluppo di cultivar più resilienti, produttive e sostenibili.
Il territorio della Toscana settentrionale presenta un’elevata frammentazione ecologica dovuta alla forte pressione infrastrutturale e insediativa. Le autostrade, l’Aurelia, la ferrovia insieme alle opere connesse, costituiscono vere e proprie barriere fisiche che interrompono la continuità della piana costiera e le relazioni con i sistemi territoriali adiacenti.
Il prossimo 9 ottobre, presso la sede dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali a Firenze, verranno presentate due raccolte di saggi di particolare rilievo, dedicate all’analisi dell’intersezione tra scienze forestali, gestione del territorio, prospettiva storica e dimensione giuridica. Si tratta dei volumi Foreste e territorio in Italia. Riflessioni a cento anni dal R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267 (a cura di Federico Roggero, edito da Giappichelli, 2025) e Gestione del rischio idrogeologico e proprietà privata: i diversi modelli di intervento dall’antichità ad oggi (a cura di Lauretta Maganzani, Elisabetta Fiocchi Malaspina e Simona Tarozzi, edito da Jovene, 2025).
I boschi hanno sempre intercettato l'interesse dei legislatori, sia per le utilità economiche che hanno offerto, sia per i benefici di carattere protettivo, ambientale e paesaggistico che hanno garantito alle comunità. I temi dell’intervento pubblico sul territorio erano attuali un tempo e lo sono ancora. Oggi come nel passato, le ricadute socioeconomiche della legislazione di vincolo cercano un bilanciamento con le esigenze di conservazione delle utilità di interesse generale offerte dai boschi. Le politiche più recenti sono connotate, sotto questo profilo, dal criterio della sostenibilità, quale parametro per valutare l’impatto antropico sugli ecosistemi.
Non però soltanto i boschi, bensì più in generale l’idea complessiva di territorio che attraverso i secoli ha ispirato, ed ispira ancora oggi, il livello politico-legislativo, passando per la regimazione delle acque, le sistemazioni idrogeologiche dei bacini montani, le bonifiche, le aree naturali protette, il paesaggio: le foreste vengono colte, nei volumi che si presentano, quali elementi di un approccio alla cura e conservazione del suolo che coinvolge diverse tipologie di beni e di amministrazioni pubbliche, ma anche private o collettive; in un intreccio che, sul piano giuridico, tocca specialmente lo statuto della proprietà privata ed i limiti del potere pubblico riguardo ad essa, nel passato come nell’attuale contesto specialmente attento alla protezione dell’ambiente.
Le categorie concettuali attraverso cui il potere pubblico interviene sui beni privati si sono delineate fin dalle origini del dibattito, già nell’Ottocento, e costituiscono ancora oggi l’ossatura degli strumenti legislativi e regolamentari che compongono il quadro normativo in materia di governo del territorio. In questo contesto l’analisi puntuale degli strumenti normativi vigenti in materia forestale, sia a livello italiano che eurounitario e internazionale, si completa, perciò, nei due volumi, con indagini storico giuridiche e storico economiche che pongono in luce, ad un tempo, l’attualità dei temi affrontati e loro lunga durata, come pure la loro proiezione nelle strategie delineate per il futuro. Gli autori dei contributi sono studiosi appartenenti a diverse discipline: la storia del diritto, il diritto amministrativo, il diritto agrario, l'economia, la storia politica ed economico-agraria.
I volumi collettanei in questione attestano altresì la necessità di una cooperazione, nel passato come anche oggi, tra le varie scienze che ruotano intorno al bosco. Bene “multifunzionale”, il bosco richiede infatti un approccio necessariamente sinergico, ed un vero dialogo, tra diversi rami del sapere. Le scienze naturali, idrogeologiche, ma anche quelle economiche, statistiche, ecc., sono al servizio della politica e della legislazione, ed a sua volta il legislatore deve arricchire il suo sapere volgendo la sua attenzione a quelle scienze che, sole, possono sostenerne la costruzione di un disegno normativo coerente e funzionale agli obiettivi di conservazione delle utilità ecosistemiche, come anche dei valori economici della appartenenza privata dei beni.
Ranalli: Sempre più spesso, nei mass-media (salotti televisivi, radio, giornali, canali social), si sente discettare sui cibi ultra-processati e della possibile azione negativa sulla salute. La querelle appassiona molto ed ha suscitato un vivace dibattito nella comunità scientifica e nel pubblico.
A me sembra che, sebbene non ci sia ancora un consenso unanime su tutti gli aspetti, le evidenze scientifiche a supporto dei potenziali effetti negativi di un elevato consumo di questi alimenti siano sempre più numerose e consistenti. Risulta opportuno, quindi, scendere nel concreto e chiarire cosa sono questi cibi, come si ottengono, le caratteristiche nutritive e il loro appeal presso i consumatori.
Franchi: I cibi ultra-processati sono prodotti alimentari industriali che subiscono trasformazioni non riproducibili in ambiente domestico e contengono ingredienti, come additivi chimici, coloranti, emulsionanti, aromi artificiali e dolcificanti, utilizzati allo scopo di esaltarne la palatabilità, aumentarne il consumo e prolungarne i tempi di conservazione. Alcuni esempi sono le merendine confezionate, snack dolci o salati, i wurstel, bibite zuccherate e gassate. Rientrano in questa categoria anche prodotti come fette biscottate e cereali da colazione zuccherati. Sono spesso prodotti ad alta densità energetica, e a bassa qualità nutrizionale, perché ricchi in zuccheri, grassi saturi e sale, ma scarsi in proteine, fibre, minerali e vitamine. Nonostante questo sono molto consumati per la loro praticità e iperpalatabilità.
Pagliai – Dalle colonne di questo notiziario abbiamo più volte sostenuto che l’abbandono delle aree marginali collinari e montante e il conseguente abbandono di quelle pazienti e faticose opere di manutenzione del territorio e di regimazione delle acque e la crisi climatica in corso sono le cause scatenanti delle catastrofiche alluvioni, ormai non più eccezionali ma drammaticamente continue e diffuse su tutto il territorio nazionale. Abbiamo più volte ribadito che l’agricoltura è l’ultimo baluardo per il presidio del territorio. Anche la tua regione, caro Gilmo, l’Emilia Romagna ne è stata duramente colpita e ha veramente messo in ginocchio gli agricoltori, già vittime della crisi del settore, tanto che non si riesce a rimarginare le ferite prodotte da quelle inondazioni di fango. Proprio per questo credo sia opportuno capire le dinamiche di questi processi erosivi che si innescano dalla montagna e dalla collina con peculiari caratteristiche pedologiche e litologiche. So che tu sei molto attivo su queste tematiche, puoi illustrarci queste dinamiche strettamente legate al suolo, o meglio, ai tipi di suolo?
Vianello – In concomitanza degli eventi degli ultimi anni, oltre alle città gravemente danneggiate, numerose frane sono avvenute nei terreni collinari e gli allagamenti hanno colpito enormi distese di terreni agricoli, aumentando le preoccupazioni degli agricoltori, ormai soggetti sia alla siccità che alle alluvioni, con rilevantissime perdite di produzioni. Per spiegare tali fenomeni vengono spesso utilizzati termini non appropriati del tipo “cambiamenti climatici” ed “eventi eccezionali”; in realtà, a meno di cataclismi geotettonici, il clima non “cambia”, bensì “varia” nel tempo regolato dai cicli terrestri. Oggi, come già avvenuto nei precedenti intervalli interglaciali pleistocenici, le temperature stanno aumentando e non si è in grado di prevederne i picchi temporali, ma tale incremento, concatenato all’Effetto Serra e al riscaldamento di aria e oceani, sta modificando il regime delle piogge. Questo porta, dunque, al ripetersi di fenomeni avvenuti anche in tempi relativamente recenti: tra i più disastrosi le inondazioni del 1917 in Lombardia e i dissesti del 1939 che colpirono molte zone della Romagna e delle Marche, l’alluvione del 1951 causata dalle acque del fiume Po che interessò i due terzi della provincia di Rovigo e quella di Firenze nel 1966 per la tracimazione dell’Arno; gli eventi che si sono verificati nel 2023 e nel 2024 vanno considerato devastanti, ma non eccezionali. In Italia, dal dopoguerra a oggi, la popolazione è cresciuta e con essa l’esigenza di insediamenti residenziali e produttivi, il che ha incautamente portato ad occupare luoghi a rischio idrogeologico, a ridurre la sezione degli alvei fluviali, nella errata convinzione che gli argini fossero in grado di contenere le piene dei corsi d’acqua, riducendone la manutenzione. Oggi le soluzioni idrauliche proposte puntano al consolidamento degli argini e alla realizzazione di nuove opere di laminazione, tuttavia, viene tenuto in scarso conto il fatto che i depositi legnosi che ingombrano gli alvei dei corsi d’acqua, di cui si fa divieto di asporto durante i periodi di secca, vengono riversati a valle nei momenti di piena creando spesso delle vere e proprie dighe, per lo più in corrispondenza delle arcate dei ponti, tali da modificare il regolare deflusso delle acque con il risultato di provocare tracimazioni e rottura delle arginature. Dunque, la forte antropizzazione e il consumo di suolo avvenuti in Italia, si sono andati ad unire alla fragilità di molte zone, in particolare della Pianura Padana (storicamente alluvionale), che hanno fatto collassare le opere di salvaguardia del territorio ormai inadeguate su tutto il territorio nazionale.
Il 15 luglio 2025 la Commissione europea ha pubblicato il suo primo parere ai sensi dell’art. 210 bis, par. 6 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 (c.d. OCM unica), in merito alla conformità alla legislazione europea di un accordo di sostenibilità destinato ad entrare in vigore tra un gruppo di produttori di vini della regione francese dell’Occitania.
Quando questo immenso patrimonio di ville, fattorie, giardini con l’estinzione della casata medicea e la morte di Giangastone passò ai Lorena e poi, dopo la Reggenza nel 1765, al figlio più giovane di Maria Teresa imperatrice d’Austria, Pietro Leopoldo, la questione di queste ville, non sempre ben amministrate, fu posta all’ordine del giorno.
I terreni agricoli sostenuti da muri di pietra a secco sono l’impronta più diffusa e persistente della secolare coltivazione dei versanti montuosi in Liguria. Terra a scarsa vocazione agricola per l’accidentata morfologia, la Liguria ha obbligato la popolazione a ottenere dal mare il guadagno e dal gradonamento dei versanti disboscati le superfici piane, assenti in natura, dove potere coltivare ulivo, vite ed ortaggi. Quando tempo e manodopera erano risorse a basso costo e comunemente disponibili, scavare e riportare la terra, sollevare e giustapporre i sassi, raggiungere a piedi per coltivare manualmente il terreno consentivano un reddito integrativo ai ricavi della pesca e del trasporto marittimo, tale da valorizzare la proprietà agricola, per quanto piccola fosse. Dopo l’ultimo conflitto mondiale, il processo di abbandono delle zone più svantaggiate e meno produttive è stato tanto rapido quanto diffuso, tale da motivare iniziative, tra cui la valorizzazione delle produzioni locali e del paesaggio storico rurale, per limitare le conseguenze dello spopolamento e del dissesto idrogeologico: leggi forestali regionali sul vincolo per scopi idrogeologici facilitano dal 1984 la ricostruzione dei muri a secco e la rimessa a coltura, i programmi di sviluppo rurale contengono misure dedicate alla manutenzione dei muri a secco e di incentivazione dell’agricoltura tradizionale, l’istituzione del Parco nazionale delle Cinque terre è finalizzata anche alla conservazione del paesaggio agricolo terrazzato, il Registro nazionale dei paesaggi rurali storici ne promuove mantenimento e recupero.
Valutazioni dirette e studi scientifici hanno evidenziato la funzionalità dei sistemi di drenaggio e di sostegno propria dei muri di pietra a secco per garantire la stabilità dei terreni terrazzati e come la mancata o scarsa manutenzione favorisca i fenomeni gravitativi e l’erosione del suolo, soprattutto nelle prime fasi di abbandono e durante gli eventi meteorici intensi.
Sebbene la coltivazione del caffè sia un fattore di impatto primario, l'imballaggio, specialmente quello dei formati monodose, contribuisce in modo sproporzionato all'onere ambientale complessivo nella fase di utilizzo da parte del consumatore.
Nel luglio scorso, Lamberto Frescobaldi, accademico dei Georgofili, è stato confermato all’unanimità presidente di Unione italiana vini per il prossimo triennio. Fiorentino, rappresenta la trentesima generazione di viticoltori della famiglia; laureato in viticoltura all’Università di Davis, California, guida la Marchesi Frescobaldi, azienda di circa 1.500 ettari vitati suddivisi nelle varie Tenute in Toscana e in Friuli. Ha anche sviluppato la collaborazione con l’Istituto di Pena dell’Isola della Gorgona (Livorno) per la produzione di vini all’interno del carcere.
Qual è lo scenario di mercato attuale per il vino italiano?
Dopo anni di crescita trainata dall’export, il vino italiano mostra segni di rallentamento. Nel 2023 i ricavi sono scesi del 4%, mentre il rimbalzo del 2024 (+3,3% a volume, +5,5% a valore) è stato gonfiato da fattori congiunturali come la corsa alle scorte degli importatori americani prima dei dazi e l’exploit russo. Questa dinamica, che si è protratta anche nei primi mesi del 2025, ha invertito il segno alla prova dell’effettiva entrata in vigore delle tariffe statunitensi, che hanno determinato non solo un significativo calo dei volumi, ma anche un crollo dei prezzi medi nel primo mercato di riferimento (-13,5%). Ma il vero nodo cruciale è il consumo: Italia, USA, Germania e Regno Unito, che valgono complessivamente il 73% delle vendite, registrano cali costanti. A fronte di una domanda interna e globale in contrazione, sollecitata da nuovi profili di consumatori che il comparto vino ha solo iniziato a conoscere e intercettare, non possiamo restare ancorati ai paradigmi del passato. Dobbiamo pensare ad una nuova architettura dell’offerta made in Italy.
Come organizzare e su che cosa basare una nuova campagna di comunicazione antitetica a quella di demonizzazione?
Credo che la comunicazione debba aderire allo stesso stile che predica per il vino: evitare gli eccessi. Il vino è un prodotto meraviglioso ma l’unico modo per coglierne a pieno le sfumature è consumarlo con moderazione, e questo è quello che, come settore, sosteniamo e comunichiamo con fermezza da sempre. A questo impegno si affianca l’attenzione a livello internazionale per monitorare, intercettare e reagire alle iniziative, come gli health warning, che - oltre a demonizzare il prodotto – rischiano di rappresentare uno svantaggio competitivo e ulteriori ostacoli al commercio dei nostri prodotti. Per quanto riguarda la promozione delle etichette made in Italy, infine, dobbiamo puntare sui tratti distintivi dei nostri prodotti: Il nostro vino deve esprimere fascino, essere simbolo di italianità e, quindi, di qualità della vita.
Vorrei infine sottolineare un aspetto troppo spesso dato per scontato: il vino non è solo un prodotto da consumare. Le nostre vigne generano ricchezza, valorizzano territori altrimenti abbandonati o incolti, preservano paesaggi e portano un contributo sul valore aggiunto pari all’1,1% del Pil nazionale. Forse, prima di cercare di colpire un settore, dovremmo considerare anche questo.
Ferrucci: Nella recente politica climatico-ambientale internazionale e dell’Unione Europea si registra una forte sollecitazione diretta anche a chi opera nel settore del verde, ad operare scelte gestionali funzionali al risparmio delle risorse idriche. Il Dry garden potrebbe fungere da modello da seguire in questa direzione?
Zanarotti: È ormai nella coscienza di tutti quanto l’acqua sia un bene prezioso, da utilizzare con parsimonia e rispetto. Questo ha portato a una maggiore consapevolezza anche nell’ambito della progettazione del verde, dal giardino privato alle sistemazioni paesaggistiche su più larga scala, evitando spreco e dispendio idrico. Il concetto di base è quello di ottimizzare le risorse idriche disponibili, partendo già in fase progettuale, evitando di prevedere l’utilizzo di specie che richiedano un eccessivo apporto idrico rispetto alla zona geografica in cui andranno piantate e utilizzando tutte le pratiche agronomiche idonee al risparmio idrico. Questo assunto iniziale non è però sufficiente, in special modo in un paese come il nostro in cui le variazioni climatiche e pedologiche variano anche in territori posti a breve distanza geografica l’uno dall’altro, se non addirittura all’interno dello stesso areale: è sufficiente un cambio di esposizione di versante, o una pendenza più o meno accentuata per modificare sostanzialmente la situazione per lo sviluppo delle stesse specie.
Ferrucci: Il termine Dry garden si presta, nel comune sentire, a letture fuorvianti. Ma qual è la sua accezione corretta?
L’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta (ENCC), istituito nel 1935, rappresenta uno dei più significativi esempi di gruppo d’impresa pubblica nel panorama agro-industriale italiano del XX secolo. Questo articolo analizza le direttrici evolutive dell’ENCC, la sua trasformazione in gruppo d’impresa e il ruolo strategico delle sue società controllate (SAF, SIVA, RESS e Nuramare) nello sviluppo agricolo, forestale e cartario nazionale.
Negli ultimi anni, il crescente interesse per la birra artigianale ha alimentato in Italia un rinnovato fermento attorno alla coltivazione del luppolo (Humulus lupulus L.), pianta storicamente diffusa in forma spontanea lungo tutto il territorio nazionale ma mai valorizzata, fino a tempi recenti, come coltura specializzata.
Il problema
In questo articolo, affronteremo un aspetto dell'etica umana, quello che riguarda i nostri obblighi nei confronti degli animali.
Alla radice del problema dei nostri rapporti con gli animali c'è il problema della coscienza. In che misura un animale è consapevole di sé? Un animale sa di essere nato e di dover morire?
Le risposte a queste domande sono importanti per le conseguenze che ne derivano. Ad esempio, se un animale non è effettivamente consapevole del suo futuro, non ha aspettative e non ha un progetto di vita nello stesso senso in cui potrebbe averlo un essere umano; quindi, tenerlo rinchiuso non è grave quanto rinchiudere un essere umano e, d'altra parte, togliergli la vita non è nulla di grave (quest'ultimo punto è sostenuto anche da attivisti per i diritti degli animali come Peter Singer). D'altra parte, se consideriamo che le differenze sono solo di grado, esistono anche differenze di grado all'interno degli esseri umani: alcune persone con disabilità intellettive potrebbero, in alcuni casi, essere meno intelligenti di certe scimmie superiori, o meno dotate di alcune delle caratteristiche che ci rendono umani.
Utilitarismo
Il filosofo Peter Singer, professore alla Princeton University, ha applicato la teoria utilitaristica agli animali. Gli utilitaristi sostengono che ciò che dovremmo o non dovremmo fare dipende dalle conseguenze delle nostre azioni. L'obiettivo delle nostre azioni dovrebbe essere massimizzare il piacere e minimizzare la sofferenza; ma soffrono gli animali? Soffrono gli insetti? Soffrono le aragoste quando vengono cucinate vive? Soffrono i tori nell'arena? Soffrono gli scimpanzé quando vengono sottoposti a esperimenti? Le risposte a molte di queste domande devono essere fornite dalla scienza, non dalla mera riflessione. Esperimenti ben condotti possono far luce sui metaboliti prodotti durante la sofferenza, sulle reazioni neurologiche, ecc. Esiste un'evidente gradazione dai molluschi ai mammiferi, con la sofferenza di questi ultimi più sviluppata e simile alla nostra. Molti animali vengono utilizzati per condurre esperimenti sul dolore umano; se non fossero correlati, questi esperimenti sarebbero inutili. L'etica utilitaristica ne tiene conto e non considera la quantità di sofferenza la stessa in tutti i casi.
La teoria è difficile da applicare, poiché non spiega bene come risolvere il conflitto di interessi, oltre a presentare evidenti problemi con le unità di misura del piacere e della sofferenza. Ad esempio, un toro allevato allo stato brado per quattro anni soffrirà per quindici minuti in una corrida e combatterà senza sapere che morirà: il toro non ha mai partecipato a una corrida prima. Quei quattro anni di libertà e di ben nutrimento non valgono forse i quindici minuti di lotta nella corrida?
Evitare la sofferenza e migliorare il benessere degli animali da cui beneficiamo è considerato parte dei nostri doveri nei loro confronti. L'utilitarismo non promuove il vegetarianismo, né cerca di porre fine alla sperimentazione animale, ma cerca di limitare le pratiche dolorose sugli animali.
Frusciante: La patata è la principale coltura alimentare non cerealicola al mondo. La sua storia di domesticazione risale a oltre undicimila anni fa sugli altopiani andini del Sud America. Durante questo lungo processo, sono state selezionate diverse specie di patate, principalmente diploidi, adattate a condizioni diurne brevi e a latitudini vicine all’equatore. Tra queste, Solanum tuberosum, una specie poliploide polisomica, è l'unica che si è diffusa in aree situate lontano dalla fascia equatoriale.
D'Amelia: Il successo di S. tuberosum si deve soprattutto alla sua straordinaria adattabilità a climi diversi, probabilmente legata all’elevata variabilità genetica degli ecotipi diploidi da cui ha avuto origine. Prima della comparsa dei gameti non ridotti, che portarono alla formazione del gruppo tetraploide Andigena e poi del Chilotanum, la specie aveva già accumulato tratti adattativi importanti. Evidenze genetiche recenti indicano un’unica domesticazione nelle Ande peruviane, seguita da incroci con specie selvatiche durante la diffusione verso sud. In Cile e Argentina, la patata acquisì l’adattamento al fotoperiodo lungo, decisivo per la tuberizzazione in latitudini elevate e per il suo successo in Europa e Nord America.
Sembrerebbe che il tubero sia arrivato sulle coste spagnole nel XVI secolo, adottato inizialmente come alimento di riserva per le lunghe traversate oceaniche. Introdotto nella valle del Po trovò un punto di partenza per diffondersi lungo “Strada Spagnola” — il corridoio militare che collegava le province spagnole dell’Italia settentrionale ai Paesi Bassi. Seguendo questo percorso, la patata mise radici nei villaggi dell’Europa centro-settentrionale, dove si rivelò una risorsa preziosa: lasciata sottoterra, sfuggiva alle razzie durante i conflitti e garantiva sopravvivenza anche nei periodi di carestia.
La patata ha sostenuto la crescita demografica ed è stata protagonista di eventi epocali, come la diaspora irlandese dovuta alla devastazione dei raccolti provocata dagli attacchi di peronospora. Così, da alimento fondamentale dell’impero Inca, la patata è diventata un motore di trasformazioni sociali ed economiche profonde tra Europa e Americhe.
Oggi la produzione globale si basa quasi esclusivamente su varietà autotetraploidi, propagate tramite tuberi-seme, caratterizzate da elevata eterozigosità ma anche da una limitata diversità genetica, frutto della selezione di pochi genotipi sviluppati nel XIX secolo.
L’apomissia consente a una pianta di generare semi vitali senza passare attraverso la meiosi e la fecondazione. Il risultato è un embrione clonato, identico alla pianta madre.
L’articolo “Unlocking the Black Box of Plant Biostimulants” ha sintetizzato i principali progressi scientifici e le sfide ancora aperte, offrendo una visione aggiornata e condivisa su questo tema complesso.
Quando un albero cade, in un parco o lungo una strada, il primo riflesso sociale, mediatico e talvolta istituzionale è spesso quello della ricerca immediata del colpevole. Chi non ha fatto il controllo? Chi ha firmato la perizia? Chi doveva intervenire e non l’ha fatto? Questo approccio, che possiamo definire come “cultura del colpevole”, tende a focalizzarsi sull’individuazione di una figura responsabile a prescindere, spesso con l’obiettivo implicito di chiudere rapidamente il caso, placare l’indignazione pubblica e ristabilire un senso (illusorio) di controllo.
Questa cultura è profondamente radicata, perché risponde a un bisogno umano di ordine e giustizia. Tuttavia, nella gestione di sistemi complessi – e gli alberi in città ne sono un esempio emblematico – tale approccio risulta non solo limitato, ma anche dannoso. Incolpare qualcuno senza comprendere il contesto in cui è maturato l’evento significa sottrarsi all’analisi reale delle cause, e dunque, impedire un apprendimento collettivo che potrebbe prevenire casi futuri.
Al contrario, un approccio più maturo e costruttivo è quello che si fonda sulla “cultura dell’errore”. Questo paradigma, adottato da anni in settori come la medicina d’urgenza o la sicurezza industriale, parte dal presupposto che gli incidenti non sono quasi mai il frutto di una singola colpa, ma piuttosto il risultato di catene di eventi, decisioni, omissioni o condizioni sistemiche che interagiscono fra loro.
Applicata al caso della caduta di un albero, la cultura dell’errore chiede prima di tutto:
• cosa è successo esattamente e in quali condizioni?
• quali segnali erano presenti e sono stati trascurati o sottovalutati?
• quali strumenti, risorse, competenze o comunicazioni sono mancati?
Solo in un secondo momento, eventualmente, si può valutare se e in quale misura ci siano responsabilità individuali o organizzative. Ma la colpa non è il punto di partenza: è, semmai, un elemento che emerge dopo aver ricostruito il quadro completo.
Ranalli - I microrganismi giocano un ruolo fondamentale e multifunzionale nelle colture destinate alla trasformazione industriale. Nell’agroindustria moderna il loro impiego spazia dal miglioramento della salute del suolo e della crescita delle piante, alla protezione delle colture, fino alla trasformazione e conservazione degli alimenti, contribuendo ad una produzione alimentare più sostenibile, efficiente e sicura. In questa sede occupiamoci, più specificamente, del ruolo dei microrganismi nelle tecnologie alimentari, sia come alleati preziosi per la produzione di alimenti tradizionali e innovativi, sia come potenziali minacce da controllare attentamente per garantire la sicurezza e la qualità dei prodotti che arrivano sulle nostre tavole. Le ricerche nel settore hanno consentito di sfruttare al meglio il potenziale dei microrganismi utili e, nello stesso tempo, sviluppare strategie efficaci per contrastare quelli dannosi?
Gobbetti - Preferirei concentrarmi sui microrganismi utili, perché come vedrà hanno anche ripercussioni su quelli dannosi. I microrganismi che promuovono la trasformazione delle materie prime in alimenti sono, per la maggior parte, quelli responsabili delle fermentazioni. Quando parliamo di fermentazioni, ci riferiamo prevalentemente alla fermentazione lattica, promossa dai batteri lattici, ed alla fermentazione alcolica, ad opera dei lieviti. Gli alimenti e le bevande che si ottengono sono, quindi, alimenti e bevande fermentati/e. Eseguendo una mappatura della presenza di alimenti e bevande fermentati/e nei diversi regimi dietetici, è, ad esempio, possibile osservare come il 20-50% degli alimenti e bevande facenti parte alla dieta mediterranea siano fermentati. Tale proporzione raggiunge il 70% nel caso della piramide giapponese, considerato il modello alimentare più virtuoso. Oggi, la fermentazione è la biotecnologia (non è una tecnologia) per produrre alimenti e bevande più sostenibile/naturale (si tratta semplicemente di inoculare microrganismi, è un processo biologico che ha naturalmente luogo in natura), a basso costo, versatile (la si applica a tutte le materie prime) e circolare (nel senso che consente anche il riciclo degli scarti e sottoprodotti). Con particolare riferimento alla fermentazione lattica, essa ha il potenziale di promuovere la trasformazione di materie prime a base di latte (es. formaggi e yogurt), carne (es. insaccati), pesce (es. aringhe fermentate), cereali (es. pane e prodotti dolciari), legumi (es. miscele di legumi e cereali), ortaggi (es. crauti) e frutta (es. smoothies), non dimenticando che il caffè e la cioccolata sono anch’essi il risultato di complesse fermentazioni.
Il regolamento di esecuzione (UE) n. 2025/1422 porta a 29 (su 48) le specie vegetali segnalate in Italia; l’Unione Europea ha preso coscienza degli enormi rischi connessi con le invasioni biologiche. Per un banale principio di precauzione, sarebbe opportuno evitare l’uso di piante alloctone quando non strettamente indispensabile.
Secondo le rilevazioni, l'8,2% della popolazione mondiale, circa 673 milioni di persone, ha sofferto la fame nel 2024, in calo rispetto all'8,5% del 2023 e all'8,7% del 2022.
I progressi non sono stati omogenei ed in particolare la fame ha continuato ad aumentare in Africa e Asia occidentale. Questo progresso globale è stato trainato da miglioramenti in Asia meridionale e sudorientale e in Sud America. Ma questa tendenza maschera profonde disparità regionali preoccupanti.
Un’estate convulsa e tormentata, anche climaticamente, sta per finire e il mondo, confuso, sembra chiedersi se un lungo periodo storico non stia davvero per chiudersi, dopo circa 80 anni di pace relativa e di un considerevole sviluppo economico.
Alcuni avvenimenti sembrano indicare che, al termine di un semestre all’insegna dell’incertezza e, soprattutto, sotto l’influsso di una serie ininterrotta di scossoni di entità incredibile e di portata imprevista, forse alcuni elementi di quello che potrebbe essere il futuro prossimo dell’intero assetto mondiale possano iniziare a prendere consistenza. Questi elementi si riconducono schematicamente ad almeno quattro fatti: 1) l’avvento al potere di Trump per la sua seconda Presidenza, 2) la persistenza, anzi l’espansione, di una crescente serie di conflitti armati con possibili conseguenze devastanti sugli assetti politici del mondo ,3) il formarsi della sensazione del possibile cambiamento degli equilibri di potere nel mondo, 4) la crescente consapevolezza in Europa della necessità che si realizzi e si consolidi una vera Unione politico istituzionale oltre che economica a fronte delle emergenti tendenze alla disgregazione dell’Ue e del legame fra i popoli europei.
La prima metà dell’anno è stata dominata indiscutibilmente dall’irruzione sullo scenario mondiale di Donald Trump dopo l’intervallo della Presidenza più convenzionale di Biden. Tuttavia, con il trascorrere dei giorni e degli eventi, è chiaro che Trump non è il “messia” del mondo futuro e nemmeno, più modestamente, il riedificatore di quell’ America “di nuovo grande” a cui dichiara di voler tornare. La strategia che sembra guidarlo consiste nel combattere imperiosamente per il potere mondiale a colpi di imposizioni agli altri protagonisti, nel tentativo ogni giorno più confuso e velleitario di sovvertire l’ordine nato alla fine della Seconda guerra mondiale senza una reale alternativa e anzi esacerbando le reliquie della Guerra, ampliando vecchi squilibri. Nel giro di una manciata di giorni cadono le speranze di chiudere “per sempre” conflitti pluridecennali, di ricostituire un’economia mondiale allo sbando in preda a sussulti imprevisti e con conseguenze non valutabili, sostituendo quella della globalizzazione che a sua volta si innestava nello scenario della conclusione della Seconda guerra ed era basata sul consenso e sul rispetto di rapporti multilaterali, costruiti e pattuiti con regole faticosamente condivise.
Pagliai – Caro Paolo, intanto complimenti per la realizzazione di questo prezioso libro dal titolo: “50 grandi idee: l’acqua” edito da Dedalo, Bari 2025, in cui tu affronti l’intera problematica dell’acqua in 50 argomenti, appunto, in maniera chiara e oltremodo completa. Direi un libro unico nel suo genere che cattura l’attenzione e fa riflettere fin dalle prime righe dell’introduzione dove tu, in sostanza, affermi che l’acqua è un bene prezioso ma ci accorgiamo della sua importanza solo quando non c’è! Leggendo quest’opera gli spunti di riflessione sarebbero infiniti e quindi impossibile trattarli in questo dialogo ma mi soffermerei su alcuni punti meno frequenti quando si affronta il problema dell’acqua ma altrettanto suggestivi e importanti. Il primo spunto che mi viene, scorrendo il libro, è quando tu parli di memoria dell’acqua. L’argomento è molto suggestivo e molte volte se ne parla anche a sproposito quindi credo siano opportune le tue riflessioni per fare chiarezza. Prima però mi piacerebbe sapere anche quale è stata la molla che ti ha fatto scattare per gettarti in un’impresa così affascinante ma anche faticosa, immagino.
Ranalli – Caro Marcello, la “molla” che mi ha spinto a impegnarmi in questo lavoro è stata la consapevolezza che l’acqua, per effetto dei cambiamenti climatici, danza tra la vita e la distruzione: si manifesta come una risorsa inestimabile e, allo stesso tempo, come una forza potentemente distruttiva. Sta a noi, come custodi del pianeta, imparare a rispettare la sua potenza, a preservare la sua purezza e a gestirla con saggezza per garantire che rimanga una risorsa preziosa per le generazioni future e non si trasformi in una calamità sempre più frequente. La chiave è nelle nostre mani ed è compendiata nelle “50 idee” descritte nel libro.
Riguardo alla "memoria dell'acqua", l’idea, seppure affascinante, ha suscitato controversie nella comunità scientifica. L'idea di base è che l'acqua possa conservare una sorta di "ricordo" delle sostanze che sono state precedentemente disciolte in essa, anche dopo che queste sostanze sono state diluite a tal punto da non essere più fisicamente presenti. Questa idea è stata originariamente proposta dal chimico francese Jacques Benveniste negli anni ’80, in relazione agli studi sull’omeopatia. Il medico francese cercò di dimostrare che diluizioni molto spinte (omeopatiche) di un antisiero in acqua avevano lo stesso effetto dell’antisiero in condizioni normali. In seguito a controlli, lo studio si rivelò però mendace e la teoria è considerata priva di fondamento scientifico.
Ferrucci: Quando è nata la passione per il vino?
Nannini: Nella casa paterna in quel della Maolina sulle colline di Lucca, una zona declamata per la bontà del suo vino, c’era un piccolo vigneto di circa 3000 mq. Nelle migliori annate si riusciva a tirarne fuori circa 25 damigiane ma mio padre si stancò di spendere soldi e tempo per ottenerne così poco frutto; senza mentire diceva che gli sarebbe costato meno comprarlo il vino e di ottimo piuttosto che farlo. Decise di estirpare allora quell’ antico vigneto ricco di uve le più diverse e sconosciute per sostituirlo con un meno impegnativo oliveto.
Io non avevo alcuna passione per il vino ma l’idea che per un mero calcolo economico si perdesse un prezioso, antico scrigno pieno di testimonianze vive (le viti) di una storia antica e famosa e un pezzetto di paesaggio cambiasse mi riempì di malinconia e di rabbia. Decisi allora che me ne sarei occupato personalmente e che per prima cosa una parte di vigna, la più antica e stentata, che i vecchi contadini che venivano a lavorare mi suggerivano di tirar giù e rifar nuova, scommisi l’avrei salvata. La curai con vangature al calcio e concimazione con pattume di stalla e il vigneto rifiorì. Tutto è nato da lì e oggi di quell’ eco il mio lavoro ancora risuona.
Ecco: l’abbandono della campagna, il vederla trascurata, offesa, malata mi suscita disagio, risentimento e più spesso ormai anche sdegnato sgomento.