Dal letame all’oro nero: il vermicompost bufalino come risorsa sostenibile

di Petronia Carillo, Fulvio Trasacco, Biagio Morrone
  • 21 May 2025

La Campania presenta la maggiore densità di allevamenti bufalini d’Europa: oltre 300.000 capi generano grandi quantità di letame, la cui gestione è resa sempre più complessa dai limiti imposti dalla Direttiva Nitrati (91/676/CEE). Tuttavia, da questa criticità può nascere un’opportunità. Uno studio interuniversitario, condotto nell’ambito di un progetto finanziato dalla Regione Campania  ha dimostrato che il letame di bufala può essere trasformato in un fertilizzante organico di alta qualità attraverso il vermicompostaggio: un processo naturale in cui lombrichi del genere Eisenia degradano la sostanza organica, producendo un ammendante stabile, inodore e ricco di nutrienti.
Il prodotto finale, conforme al D.Lgs. 75/2010, presenta un’elevata umificazione della sostanza organica e un buon equilibrio nutrizionale. Per testarne l’efficacia agronomica, è stato utilizzato nella coltivazione del cavolfiore (Brassica oleracea var. botrytis), specie ad alti fabbisogni di azoto, fosforo e potassio, quindi ideale per valutare fertilizzanti alternativi. Su suoli limosi e argillosi, il vermicompost ha aumentato le rese rispetto al controllo non fertilizzato (+160% nel suolo limoso), migliorato la qualità biochimica dei tessuti vegetali (soprattutto in termini di amminoacidi funzionali e antiossidanti) e arricchito il suolo di sostanza organica, senza in alcun modo aumentare la lisciviazione dei nitrati. Sebbene la resa sia risultata inferiore a quella ottenuta con fertilizzante minerale, i vantaggi ambientali sono significativi. Nelle zone vulnerabili ai nitrati, dove già oggi si applica il limite di 170 kg di azoto per ettaro all’anno da effluenti zootecnici, come previsto dalla Direttiva Nitrati 91/676/CEE, e dove in futuro l’accesso a eventuali deroghe regionali potrebbe non essere più garantito, l’adozione di fertilizzanti organici stabili come il vermicompost può diventare una condizione necessaria per la sostenibilità aziendale. Lo studio sottolinea che le aziende con scarsa disponibilità di terreni o localizzate in aree classificate come vulnerabili ai nitrati saranno sempre più obbligate a ridurre il carico di azoto e a dotarsi di piani di utilizzazione agronomica, sistemi di stoccaggio adeguati e soluzioni tecniche innovative.
Il vermicompostaggio, in questo contesto, rappresenta un’alternativa praticabile e strategica: consente di trattare localmente il letame, riducendo i costi di gestione e l’impatto ambientale derivante dallo smaltimento degli effluenti zootecnici. Al tempo stesso, favorisce l’economia circolare trasformando un sottoprodotto potenzialmente critico in una risorsa utile per il suolo. Il vermicompost ottenuto, infatti, migliora la salute complessiva del terreno: restituisce sostanza organica stabile, favorisce la biodiversità microbica, migliora la struttura e contribuisce alla rigenerazione dei terreni degradati. Questi effetti benefici sono coerenti con gli obiettivi ambientali e climatici dell’agricoltura europea, ma perché diventino una realtà diffusa è necessario superare ostacoli normativi e burocratici ancora rilevanti. In Italia, la qualifica di sottoprodotto o di “fine rifiuto” è spesso affidata a valutazione caso per caso da parte delle autorità locali, come le ARPA, creando incertezza e scoraggiando molte aziende dall’investire in impianti di trasformazione o nella commercializzazione del prodotto. È quindi fondamentale un intervento normativo che semplifichi e uniformi il riconoscimento del vermicompost come ammendante sicuro e legittimo, agevolando la diffusione di tecnologie di valorizzazione direttamente in azienda, anche grazie al sostegno della Politica Agricola Comune.
Anche dalla zootecnia intensiva possono nascere pratiche agricole più sostenibili e responsabili, a patto che gli scarti vengano riconosciuti come risorsa e che le norme sappiano accompagnare il cambiamento. Il “letame”, trasformato in vermicompost, può davvero tornare ad essere un “oro nero” per i nostri suoli, contribuendo al ripristino della fertilità e alla riduzione dell’impatto ambientale degli allevamenti.
Promuovendo tecnologie semplici ma efficaci come la lombricoltura, si apre la strada a un modello di agricoltura circolare e rigenerativa, capace di generare valore ecologico ed economico a partire da ciò che prima era considerato un problema.
È in questa prospettiva che si inserisce anche il concetto di blue economy per l’agricoltura, una visione che unisce sostenibilità, innovazione e valorizzazione delle risorse locali, con il coinvolgimento attivo di istituzioni, mondo della ricerca e imprese agricole.