Il Consiglio dell'Ue, su impulso della Commissione Europea, ha adottato la decisione di presentare, a nome dell'Unione europea, una proposta di modifica del livello di protezione del lupo previsto dalla Convenzione internazionale sulla Conservazione della Vita Selvatica e degli Habitat naturali in Europa, adottata a Berna nel 1979 e giuridicamente vincolante. Nello specifico, si prospetta di abbassare la tutela del lupo declassandolo da “specie faunistica rigorosamente protetta” a “specie faunistica protetta”. La proposta sarà presentata alla 44esima riunione del Comitato permanente della Convenzione di Berna, responsabile della valutazione dello stato di conservazione delle specie, che si terrà a dicembre 2024 (Fonte AGI).
Percorriamo brevemente le principali tappe che hanno portato all’attuale stato protettivo del lupo.
Il Green Deal è disastroso, lo cambieremo, dice Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria. Il tema è l’automotive, l’industria, le tecnologie ma il segnale è inequivocabile. Praticamente nelle stesse ore la neo-vicepresidente esecutiva della Commissione UE, la spagnola Teresa Ribera, parlando con l’Ansa, si è detta “certamente” convinta della volontà di portare avanti – e forse anche intensificare – gli sforzi per realizzare il criticato Green Deal, sia pure nella nuova versione (coniata da Ursula von der Leyen) di “clean industrial plan”.
Oltre alla peste suina, c’è un’altra malattia che preoccupa molto gli allevatori: la Blue Tongue o Lingua blu o febbre catarrale dei ruminanti. Ne abbiamo parlato con Giovanni Savini, Head of Public Health Department, Director of the European Reference Laboratory for RVF, WOAH and National Reference Laboratory for Bluetongue dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e Molise.
Che cos’è la lingua blu o la bluetongue?
La Bluetongue è una malattia virale che colpisce i ruminanti ed è, per lo più, trasmessa da moscerini appartenenti a specie del genere Culicoides. Il virus della Bluetongue include oltre 35 diversi sierotipi, tra cui i più importanti da un punto di vista clinico e normativo sono quelli da 1 a 24. Ogni sierotipo è immunologicamente distinto dagli altri e all'interno di ciascun sierotipo possono esserci più ceppi o stipiti virali. La distinzione tra i sierotipi è fondamentale, poiché un vaccino prodotto contro un determinato sierotipo generalmente è efficace per tutti i ceppi virali appartenenti a quel sierotipo.
Qual è la situazione in Europa e nel nostro Paese?
La situazione in Italia e in Europa è piuttosto complessa. Ci troviamo a fronteggiare sierotipi diversi e ceppi virali altamente virulenti. Attualmente, il ceppo virale prevalente nel centro-nord Europa appartiene al sierotipo 3. Introdotto nei Paesi Bassi nel settembre dello scorso anno, questo virus si è rapidamente diffuso, causando gravi danni alla zootecnia in diverse nazioni europee. Dal territorio olandese, infatti, il virus si è propagato in Belgio, Germania, Inghilterra, Francia, Lussemburgo, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Svezia, Austria e Portogallo. Si tratta di un ceppo estremamente virulento, capace di determinare seri quadri clinici ed elevata mortalità, soprattutto tra le pecore. Sono stati inoltre segnalati sintomi e cali di produzione anche nei bovini, in particolare in Francia. La nuova emergenza europea ha spinto diverse aziende farmaceutiche a sviluppare vaccini contro questo sierotipo. Vari prodotti sono stati sviluppati e introdotti sul mercato, e alcuni sono già in uso in diverse nazioni europee dove ne è autorizzato l'impiego. Un altro ceppo che sta interessando in modo significativo l'Europa appartiene al sierotipo 8; presenta caratteristiche genomiche che lo differenziano da altri ceppi dello stesso sierotipo che precedentemente erano circolati in Europa e in Francia. Anche questo ceppo ha mostrato spiccate caratteristiche di virulenza. In Francia, i primi focolai clinici causati da questo ceppo virale sono stati osservati nell'agosto del 2023 nella regione meridionale del Massiccio Centrale. Da lì, il virus si è diffuso in Corsica e, successivamente, in Sardegna (ottobre 2023). Con l'arrivo della nuova stagione vettoriale 2024, il virus si è propagato anche in Spagna, nelle Isole Baleari, in Andorra e in Svizzera. Anche per questo sierotipo sono disponibili vaccini sul mercato.
Pochi giorni fa sono finito per caso su una pagina di un social dove ho letto i commenti riguardo all’abbattimento di un platano in cui si arrivava addirittura a minacciare “il responsabile” di tale abbattimento, insieme a offese di vario genere. Ora, conoscendo proprio quella situazione e la motivazione della scelta fatta, legata al limitare il progredire del cancro colorato del platano, la cui lotta è obbligatoria per legge e la cui omissione è un reato penalmente perseguibile, vorrei fare qualche riflessione sulla questione della gestione degli alberi in città e della necessità, che talvolta sorge, di doverli abbattere e sostituire.
L’abbattimento degli alberi in contesti urbani è diventato uno dei temi più dibattuti e, purtroppo, spesso affrontato con superficialità. Quello che dovrebbe essere un dibattito pubblico maturo e consapevole sulla gestione del verde urbano si trasforma sempre più spesso in una caccia al colpevole, un’escalation di accuse e aggressioni che mina la possibilità di un dialogo costruttivo. La cultura dominante sembra essere quella della condanna immediata, in cui non solo si ignorano le ragioni tecniche e scientifiche dietro certe scelte, ma si attacca violentemente chi lavora per la salvaguardia del territorio, in particolare gli operatori e i tecnici incaricati della gestione degli alberi che, mi preme sottolinearlo, si assumono anche responsabilità importanti.
Questa cultura della colpa a tutti i costi è un sintomo di una tendenza preoccupante: la mancanza di volontà di comprendere. Siamo ormai così intrappolati in un meccanismo di indignazione che la prima reazione è accusare, senza fermarsi a chiedere il "perché". È un atteggiamento che rispecchia un allarmante distacco dalla realtà dei fatti, dove l’emotività prevale sul ragionamento critico. Gli alberi sono visti come simboli di un’innocenza violata, e ogni loro rimozione è interpretata come un crimine contro la natura, senza tener conto delle possibili motivazioni che possono rendere necessario l’abbattimento. Malattie, pericolo di crolli e rischio spesso connesso in ambito antropizzato, interferenze con infrastrutture e piani di rigenerazione urbana sono solo alcune delle ragioni che spesso giustificano interventi, certo dolorosi, ma necessari.
Roma è una città che presenta criticità ambientali legate all’inquinamento e al traffico veicolare lungo la rete stradale, ma al contempo possiede un significativo capitale “naturale” costituito dai parchi delle ville storiche, dalle aree naturali protette, dalle vaste aree archeologiche che creano porosità verdi all’interno del tessuto urbano. A Roma, inoltre, le alberature stradali contribuiscono alla identità paesaggistica: le “olmate” di memoria papale, i platani dell’epoca umbertina, i cipressi delle passeggiate archeologiche, i lecci del quartiere Prati e i pini domestici hanno contribuito a creare l’immagine paesaggistica della città.
La possibilità di realizzare missioni spaziali estese, con lunghi periodi di permanenza a bordo di piattaforme spaziali orbitanti o in colonie spaziali sulla Luna o su Marte, è legata alla capacità di creare un sistema biorigenerativo di supporto alla vita e, tra tutti gli organismi studiati per questa funzione, a oggi le piante rappresentano i rigeneratori più promettenti. È qui che entra in gioco l’agricoltura spaziale, la pratica di coltivare piante per sostenere la vita in un ambiente extraterrestre. Stefania De Pascale, pioniera assoluta a livello internazionale in questo campo, spiega quali sono le sfide biologiche e tecnologiche che abbiamo di fronte e come potremmo fare per superarle nel suo ultimo libro: “Piantare patate su Marte. Il lungo viaggio dell'agricoltura” (Ed. Aboca).
Con la partecipazione di capitali privati, la corsa allo spazio ha subito un’enorme accelerazione: Elon Musk ha recentemente dichiarato che i primi voli con equipaggio su Marte avverranno tra 4 anni e che il numero dei voli crescerà esponenzialmente, con l’obiettivo di costruire una città autosufficiente in circa 20 anni. Questo, dunque, significherà praticare agricoltura nello spazio ... ma COME?
La visione di Elon Musk per la colonizzazione di Marte è certamente ambiziosa perché ci sono ancora molte sfide da superare. Secondo i piani di Musk, la prima città su Marte dovrebbe essere costruita in circa 20 anni. Per rendere questa città autosufficiente nello spazio, sarà fondamentale sviluppare sistemi di supporto alla vita biorigenerativi (BLSS), veri e propri ecosistemi artificiali in grado di rigenerare aria, acqua e cibo in modo continuo direttamente su Marte, per ridurre la dipendenza dai rifornimenti dalla Terra. Si tratta di ecosistemi artificiali basati sulle interazioni tra esseri umani (consumatori), batteri e altri organismi decompositori, alghe, piante e batteri fotosintetizzanti (produttori), alloggiati in relativi compartimenti, in cui ciascun componente utilizza i prodotti di scarto dell’altro come risorsa, in un ideale ciclo chiuso.
Pagliai – Le produzioni di nicchia rappresentano, in molti casi, una vera eccellenza nel panorama delle produzioni agricole e forestali che, per la verità, non stanno attraversando un periodo particolarmente florido, sia da un punto di vista ambientale, sia, soprattutto, da un punto di vista economico. Fra queste produzioni di nicchia vi è sicuramente il tartufo a cui, negli ultimi decenni, si sono intensificati gli studi proprio per conoscerne le condizioni di crescita nel tentativo di migliorarne la produzione. A parte le piante micorizzate, quali sono le condizioni ottimali del suolo per la produzione dei vari tipi di tartufo?
Bragato – Premettendo che i veri tartufi, i corpi fruttiferi dei funghi Ascomiceti del genere Tuber spp., le caratteristiche che influiscono sull’ambiente suolo che colonizzato sono separabili in due gruppi. Da una parte le caratteristiche chimiche dei suoli ricchi in Calcio: presenza di carbonato di Ca e/o complesso di scambio dominato dal Ca, con valori di pH superiori a 6,5 e molto spesso maggiori di 7,2. Dall’altra aspetti fisici determinati da una struttura del suolo molto porosa e permeabile.
La componente chimica è stata verosimilmente un fattore di speciazione del genere Tuber. Con l’emersione di rocce e sedimenti calcarei, l’adattamento delle specie tartufigene ad ambienti chimicamente preclusi a gran parte dei funghi micorrizici ha aperto grandi spazi in cui diffondersi quasi in assenza di concorrenza. La componente fisico-strutturale consente invece un facile accesso all’ossigeno atmosferico (i funghi micorrizici sono organismi aerobi obbligati) e favorisce lo sviluppo dimensionale dei tanto apprezzati tartufi.
Le due componenti hanno anche un diverso peso in rapporto alla distribuzione geografica degli habitat tartufigeni. Secondo i criteri chimici, più di metà del territorio italiano sarebbe idoneo ai tartufi, ma quelli fisico-strutturali riducono drasticamente le aree vocate. Non esistono stime in questo senso, ma la mia esperienza sul tartufo bianco pregiato (T. magnatum) mi fa propendere per valori inferiori all’1% dei suoli a carbonati/ricchi in Ca scambiabile.
La grande selettività della componente fisico-strutturale è attribuibile alla presenza di molti pori con diametro maggiore di 30 µm che, oltre a facilitare i movimenti dell’aria, determinano una elevata capacità drenante del suolo, rendendo potenzialmente aridi i suoli da tartufo. Di conseguenza, gli habitat tartufigeni si restringono alle aree in cui vengono limitate le perdite d’acqua per evaporazione e/o garantiscono agli alberi simbionti l’accesso a riserve idriche sotto superficiali anche profonde.
Da un punto di vista biologico la combinazione elevato drenaggio/adeguata idratazione determina la prevalente maturazione dei tartufi in autunno-inverno. Grazie a specifici adattamenti biologici, solo due specie maturano in periodi diversi. Il tartufo bianchetto o marzuolo (T. borchii), prediligendo suoli tendenzialmente sabbiosi, matura a marzo-aprile, quando le sabbie inumidite dalle piogge primaverili raggiungono la massima sofficità e offrono la minima resistenza allo sviluppo dimensionale dei corpi fruttiferi. Il tartufo estivo (T. aestivum), invece, sfrutta l’ispessimento del peridio del corpo fruttifero (da cui il nome alternativo di “tartufo scorzone”) come difesa dal disseccamento. Con questa modifica anatomica, lo sviluppo dimensionale viene disgiunto dalla fase di maturazione: le piogge primaverili consentono l’ingrossamento dei tartufi, segue una fase di stasi fino alle poche piogge estive che attivano la fase di maturazione nel periodo più secco dell’anno.
Mentre per la Sardegna l'Unione europea ha finalmente deciso di abrogare le ultime misure restrittive ancora in vigore per la Peste suina africana, il virus continua ancora a far tremare gli allevatori in numerose regioni italiane, in Europa e in molte altre aree del mondo. Abbiamo approfondito l’argomento con il Prof. Giovanni Ballarini.
Prof. Ballarini, cosa pensa dell’attuale epizoozia di Peste Suina Africana in Italia?
Non è la prima volta che questa malattia sbarca in Italia e ricordo che nel 1967 arriva negli allevamenti di maiali per un improvvido uso di un vaccino di origine clandestina. Un avvenimento che circa cinquanta anni fa vivo in prima linea come giovane professore di Medicina Veterinaria con allevamenti di maiali colpiti nella Pianura Padana. In quella occasione subito, nel giorno più lungo si può dire, si interviene con una battaglia intelligentemente comandata da Luigino Bellani, con a fianco Giuseppe Caporale e un esercito di cento Veterinari Provinciali dotati di pieni poteri, come si addice a una guerra che è così rapidamente vinta. Purtroppo allora l’infezione in Sardegna passa ai cinghiali dove è poi vinta con una guerriglia durata ben cinquanta anni. Ora la Peste Suina Africana è di nuovo sbarcata in Italia, non è fermata nel giorno più lungo e non costituisce solo una testa di ponte, ma conquista i cinghiali di un vasto territorio che comprende più regioni dell’Italia Settentrionale e necessita non di singoli interventi, spesso sparsi, ma una adeguata strategia.
Gentile Professore, cosa è questo suo parlare di giorno più lungo, testa di ponte, guerriglia, strategia? Parliamo di una malattia, non di una guerra.
Qui si sbaglia, perché le epizoozie animali e le epidemie umane per essere vinte devono essere affrontate non in modo settoriale e scoordinato ma con un piano globale come una guerra contro un agente patogeno, soprattutto se invadente in una popolazione e in un territorio, tenendo presente le caratteristiche di questi ultimi, sia per un nemico di primo arrivo che già insediato, come è l’attuale situazione italiana della Peste Suina Africana. Come avvenuto per lo sbarco in Normandia, uso ancora un linguaggio bellico, anche per combattere la Peste Suina Africana è necessario un comando unico con pieni poteri esecutivi, che alle attuali condizioni non credo possa esistere.
Quali condizioni?
Tre Ministeri (Salute, Agricoltura, Commercio), venti regioni, interessi diversi anche contrapposti tra differenti categorie sociali (allevatori, cacciatori, animalisti, ambientalisti) e chi più ne ha più ne metta, rendono non solo difficile, ma soprattutto tardivo e lento ogni intervento, che è invece necessario in una guerra lampo (Blitzkrieg) come l’attuale epizoozia di Peste Suina Africana. A questo riguardo ricordo che la guerra del 1967 fu guidata e vinta dal centro con telegrammi inviati ai cento Prefetti e che i cento Veterinari Provinciali resero immediatamente operativi senza lentezze, intermediari o interferenze di qualsiasi genere.
Lasciamo stare il passato e guardiamo all’oggi. Quali le sue previsioni?
Quando gli Alleati nel 1944 conquistano la Normandia è chiaro che è solo possibile una strategia di contenimento. Lo stesso è per la Peste Suina Africana che ora coinvolge quattro regioni (Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte). Con un giudizio non pessimista ma realista, considerando l’esperienza italiana della Sardegna e quella attuale dei paesi dell’Europa Orientale, la malattia insediata in Italia Settentrionale qui rimarrà molto a lungo, per molti decenni se non forse per sempre, almeno nei limiti della nostra, attuale esperienza umana.
La recente morte in Sicilia di un carabiniere cinquantenne, attribuita alle conseguenze del morso del cosiddetto Ragno violino, ha destato notevoli preoccupazioni e ha sollecitato la curiosità su questa specie di Aracnide che è stata descritta da Doufour nel 1820 ed è attualmente nota come Loxosceles rufescens, afferente alla famiglia Sicariidae il cui nome deriva dal latino Sicarius con il quale gli antichi romani indicavano i terroristi Zeloti che uccidevano per terrorismo, o su commissione, usando una corta spada ricurva detta "sica".
Il 2024 sarà sicuramente ricordato, almeno al Centro e Sud Italia, come la peggiore annata per l’agricoltura. Purtroppo, in molte situazioni, agricoltori e tecnici si sono ritrovati impreparati ad affrontare situazioni e risvolti non facilmente gestibili con un complesso di nozioni teorico-pratiche classiche che, generalmente, sono focalizzate quasi esclusivamente alla gestione fitopatologica delle tipiche avversità biotiche delle colture negli ambienti mediterranei.
Il discorso siccità andrebbe affrontato in un’ottica molto più ampia rispetto alla classica carenza di acqua, considerando anche gli eccessi di temperature e di radiazione e le pratiche agro-colturali messe in atto dagli stessi agricoltori nei diversi agroecosistemi. In definitiva la siccità, per le piante, è uno stress multiplo causato dall’interazione di deficit idrico, alte temperature e alte intensità luminose (Medrano et al., 2002, Ann. Bot.).
Una siccità come quella del 2024 non si era mai vista e, come accade in queste situazioni, ci si è trovati impreparati nell’adottare anche le più semplici azioni di limitazione dei danni.
La viticoltura, in questo contesto climatico bizzarro, si è ritrovata a subire le maggiori conseguenze negative, sia per l’elevata superficie della coltura a livello nazionale e sia perché, almeno a livello di alcune località e situazioni, non è stata capace, negli anni, di “rinnovarsi” pienamente e giustamente per adottare nuove pratiche mitigatrici degli eventi climatici avversi ed estremi.
Il mercato dei prodotti vitivinicoli, abbastanza favorevole degli ultimi anni, ha favorito velocemente l’impianto di nuovi vigneti in zone e situazioni non sicuramente eccellenti dal punto di vista pedoclimatico o, se si vuole, del terroir. Spesso sono state effettuate valutazioni affrettate nella scelta dei portinnesti, cultivar, cloni, lavorazioni di base e gestione successiva della chioma.
Poca importanza è stata data alla corretta scelta del sito di impianto, alla correzione di eventuali “difetti” del terreno, alla carenza “cronica” di sostanza organica, alla gestione di eventuali sorgenti idriche, alle forme di allevamento “resilienti”, ecc.
Ma i cambiamenti climatici, volendo o non volendo, sono pronti a “erodere” silenziosamente tutto quello che, non gestito correttamente dall’uomo, risulta esposto alla furia di una natura divenuta ormai incontrollabile.
Frusciante - Il miglioramento genetico delle piante agrarie ha sempre fatto uso di metodologie innovative, che, nel contesto storico in cui sono state introdotte, sono spesso apparse all'opinione pubblica come interventi "contro natura". Un esempio significativo è rappresentato da Nazzareno Strampelli, che circa un secolo fa venne allontanato dall'associazione da lui stesso fondata. Gli associati, infatti, consideravano le nuove varietà di grano da lui sviluppate come una minaccia per il "Rieti originario".
Pezzotti - La genetica e il miglioramento genetico sono scienze che l'umanità ha inconsapevolmente utilizzato per oltre diecimila anni per domesticare e migliorare piante e animali in base alle esigenze alimentari. Solo con la formulazione delle leggi di Mendel, però, queste pratiche sono diventate scienze applicate, migliorando qualitativamente e quantitativamente le specie agrarie. Le piante che oggi nutrono l'umanità sono il risultato di un processo scientifico in continua evoluzione, sviluppato grazie alla genetica, biologia e fisiologia delle piante coltivate. La genetica moderna non deve essere vista come antagonista della tradizione, ma come uno strumento rigoroso e innovativo per preservare e valorizzare specie produttivamente obsolete o a rischio di estinzione. Un esempio significativo è proprio Strampelli, che, pur non avendo una completa conoscenza delle leggi di Mendel, ottenne progressi straordinari nel miglioramento dei frumenti attraverso incroci intra e interspecifici, pratica fortemente criticata all'inizio del XX secolo. I risultati ottenuti da Strampelli dimostrarono la validità della sua visione, smentendo i critici che non riuscivano a vedere oltre le conoscenze scientifiche del tempo.
Frusciante - Dagli incroci alla mutagenesi degli anni Ottanta (accompagnata dalle aspre critiche alla cultivar Creso) e agli OGM, oggi le Tecnologie di Evoluzione Assistita promettono di rivoluzionare il miglioramento genetico delle piante. Potrebbero essere decisive per affrontare cambiamenti climatici e sicurezza alimentare. Tuttavia, mi sorge un dubbio: non stiamo forse riponendo troppe aspettative in queste tecnologie?
Il giornalista brasiliano freelance Daniel Azevedo ci informa dalle pagine della rivista di informazione zootecnica “Dairy Global” del 7 agosto scorso che la multinazionale JBS Foods, conosciuta come la più grande azienda per la lavorazione delle carni nel mondo, sta utilizzando gli scarti di lavorazione delle carni per produrre biocarburanti per aerei. Le strutture industriali di trasformazione si trovano negli Stati Uniti, Canada e Australia.
Il vino – per cui l’export è strategico quasi quanto per l’ortofrutta - batte la strada dell’innovazione nei prodotti, nell’attenzione al mercato e nelle strategie di marketing. L’ortofrutta al momento piange molto su se stessa, anche se c’è chi sta lavorando per il futuro e non mancano progetti innovativi.
Non bastavano gli incendi: ora è in atto il deperimento dei boschi naturali. Nuovi ingenti danni alle risorse forestali della Sardegna si manifestano con appassimento delle foglie e successivo e completo disseccamento delle chiome degli alberi. Già evidenti a partire dal mese di questo luglio sono proseguiti con intensità crescente durante tutto il mese di agosto assumendo carattere di grave eccezionalità. Particolarmente intensi in vari comuni dell’area orientale dell’Isola, dal Sarrabus Gerrei al sud, passando per l’Ogliastra e per la Baronia al centro fino in Gallura al nord. L’eccezionale siccità, presente con una diminuzione delle precipitazioni medie negli ultimi anni che lungo la costa orientale dell’Isola sfiora il 50%, unita all’aumento delle temperature medie estive, con massimi superiori a 45°C negli ultimi 10 anni ormai ricorrenti e per periodi temporali prolungati, sta colpendo in particolare le formazioni naturali di sughera (Quercus suber L.) e di leccio (Quercus ilex L.), ma anche le superfici occupate da macchia mediterranea. In tutta l’Isola le prime stime indicano decine di migliaia di ettari le superfici complessivamente colpite.
Il glifosate è, oggi, il prodotto più utilizzato a livello globale per la gestione della vegetazione indesiderata nelle aree agricole ed extra-agricole. Il grande successo dell’erbicida è essenzialmente da porre in relazione ad un ampio spettro di azione, ad un costo non elevato, unitamente ad un buon profilo tossicologico e ambientale. In molti paesi, alla diffusione dell’erbicida ha fortemente contribuito la possibilità di impiego in modo selettivo nelle colture geneticamente modificate di mais, soia, cotone e colza.
Il glifosate è un erbicida sistemico ad azione totale nei confronti delle piante annuali e poliennali, erbacee e legnose. Assorbito dai tessuti verdi, circola in modo sistemico in tutte le parti delle piante, comprese quelle sotterranee ed inibisce la sintesi degli aminoacidi, bloccando l’azione dell’ESPS, un enzima unicamente presente nei vegetali.
A partire dal 2019 il prodotto è stato sottoposto, come previsto dalle normative europee sui prodotti fitosanitari, ad un nuovo processo di revisione da parte delle Autorità e Agenzie competenti (EFSA, IARC, ECHA, OMS, FAO) basato sull‘esame di oltre 2.400 nuovi studi da cui non è emersa. Non essendo emerse significative criticità sanitarie e ambientali, il 28 novembre 2023 la Commissione Europea ha approvato la proroga dell’autorizzazione dell’erbicida fino al 15.12.2033 (Reg. 2660/2023).
Il rinnovo è stato accompagnato da alcune limitazioni alle dosi massime di impiego, oltre che da nuove misure legate alla protezione dell’ambiente e da una riduzione della presenza di alcune impurezze nella sostanza attiva. La dose massima è stata stabilita, per gli usi agricoli a 1,44 kg s.a./ha/anno (innalzabile a 1, 80 kg s.a./ha anno nel caso di specie invasive) e per gli usi extra-agricoli a 3,60 kg s.a./ha anno. Nel nostro Paese il mantenimento delle autorizzazioni esistenti è stato subordinato alla richiesta di rinnovo, entro il 15.03.2024, al Ministero della Salute da parte dei titolari, con adeguamento delle condizioni di impiego alle limitazioni stabilite. Data la numerosità di formulati da esaminare (oltre 70), è prevedibile che il processo di riesame nazionale di tutti i prodotti richieda alcuni anni per il suo completamento. Nel frattempo i formulati per i quali è stata presentata la richiesta di rinnovo continueranno a mantenere le dosi e le modalità di impiego in precedenza autorizzate.
Nei sistemi colturali erbacei il quantitativo massimo utilizzabile di 1,44 kg s.a./ha/anno (corrispondente a 4 L/ha/anno di un formulato con una concentrazione di 360g/L di glifosate) fornisce, in generale, una soddisfacente efficacia delle malerbe annuali e di alcune poliennali, sia in assenza delle colture (falsa semina, post-semina/pre-emergenza), sia in presenza delle colture con attrezzature in grado di impedire il contatto con le colture (ugelli schermati barre lambenti, ecc.). Per una più completa azione nei confronti delle specie poliennali o difficili è prevedibile che si rendano necessari interventi integrativi meccanici (sfalci, lavorazioni del terreno) o chimici (es. con 2,4 D, dicamba, limitatamente alle specie a foglia larga). Data la frequente presenza di specie poliennali di difficile controllo, più critica potrebbe risultare la gestione delle malerbe nei sistemi conservativi, dove la semina delle colture viene eseguita su terreno sodo, una pratica fortemente sostenuta dagli indirizzi politici comunitari e nazionali per le favorevoli ricadute agronomiche e ambientali. In queste condizioni, le alternative all’impiego del glifosate, con risultati non sempre soddisfacenti, sono essenzialmente limitate all’applicazione di pochi prodotti integrativi a specifica azione nei confronti di malerbe graminacee o a foglia larga e alla semina di colture di copertura gelive, in grado di completare il ciclo prima dell’inverno (es. rafano americano, trifoglio incarnato) o da terminare con interventi meccanici.
Presente secondo una leggenda nella valle dell’Eden, l’asparago (Asparagus officinalis) con le sue numerose cultivar è coltivato e utilizzato nel Mediterraneo dagli Egizi e in Asia Minore duemila anni prima della nostra era e poi dai Romani che ne descrivono la coltivazione e la cucina tanto che pare abbiano costruito navi apposite per commerciarli, ma più probabilmente così denominate per la forma allungata come un turione di asparago.
Le proposte europee del cosiddetto “Green Deal” sono, anche troppo spesso, argomento di discussione sui mezzi di informazione. Altrettanto spesso assistiamo, specialmente in televisione, ad interventi da parte di personaggi che, non si sa quanto in buona fede, sparano false informazioni senza vergogna. Per quanto riguarda il settore agricolo, ad esempio, non è difficile sentire affermare che le attività legate agli allevamenti bovini contribuiscono all’inquinamento da gas serra più di tutti i trasporti per terra, per mare e per aria, messi insieme.
La conservazione significa sviluppo tanto quanto significa protezione. Il 31 agosto 1910, il presidente Theodore Roosevelt nel Kansas, riconobbe “il diritto e il dovere di questa generazione di sviluppare e utilizzare le risorse naturali della nostra terra; ma non riconosco il diritto di sprecarle, né di derubare, tramite un uso sconsiderato, le generazioni che verranno dopo di noi”.
Dopo oltre 100 anni in un'epoca in cui il progresso tecnologico e industriale avanza a passi da gigante, è fondamentale ricordare che ogni risorsa naturale che utilizziamo è un patrimonio non solo per noi, ma anche per i nostri figli e nipoti. Le foreste, i fiumi, i minerali e le terre fertili sono doni che la natura ci ha concesso con generosità, e il nostro compito è di utilizzarli con saggezza e rispetto.
Parliamo molto di sviluppo, ma questo non deve avvenire a scapito delle risorse naturali e dell’ambiente, ma deve rispettare il principio DNSH (Do No Significant Harm) un concetto chiave nella legislazione ambientale europea, introdotto nel contesto del Green Deal Europeo e reso centrale nel piano Next Generation EU. Questo principio stabilisce che qualsiasi attività economica o finanziaria non dovrebbe causare danni significativi a nessuno degli obiettivi ambientali definiti dall'Unione Europea.
L'applicazione del principio DNSH richiede un'analisi dettagliata degli impatti ambientali potenziali delle attività economiche, con l'obiettivo di garantire che queste contribuiscano positivamente alla transizione ecologica senza causare danni significativi agli obiettivi ambientali esistenti.
Questo principio è fondamentale per assicurare che le azioni intraprese nel contesto del Green Deal e dei piani di ripresa economica siano davvero sostenibili e compatibili con una crescita “verde”, favorendo uno sviluppo che non comprometta le risorse naturali e l'ecosistema globale.
Sviluppare deve significare dunque pianificare, progettare un futuro in cui l'uso delle risorse sia sostenibile, in cui l'energia rinnovabile e le tecniche di coltivazione ecologiche diventino la norma, in cui le città, il luogo dove il 70% della popolazione mondiale, siano veramente “verdi”, cioè non solo un insieme di infrastrutture ecologiche, ma anche una comunità che abbraccia uno stile di vita sostenibile e che si impegna per il benessere presente e futuro dei suoi cittadini e dell'ambiente.
Pagliai – Nelle azioni atte a ridurre le emissioni di gas serra anche l’agricoltura è chiamata a dare il proprio contributo e, talvolta, se ne parla a sproposito anche se dobbiamo ammette come sia ormai evidente che l’intensificazione colturale ha sovente superato la soglia di sostenibilità ambientale. Ad esempio, nel circuito internet circolano miriadi di dati e anche riguardo alle emissioni di anidride carbonica è necessario prendere atto che una lavorazione profonda del terreno porta alla perdita di circa 250 kg ha−1 di CO2, che equivalgono alle emissioni di un'auto Euro5 che viaggia per 1700 km. Ma a quanto ammontano le reali emissioni dei gas serra e, quindi non solo di CO2, da parte del settore agricolo?
Lagomarsino – Innanzitutto, va chiarito che le emissioni di gas serra dal suolo sono un processo naturale e necessario: un suolo è vivo e sano proprio perché produce CO2 con i processi respiratori sia delle radici delle piante sia dei microrganismi come batteri e funghi, che vivono nel suolo e decompongono la sostanza organica rendendo disponibili i nutrienti essenziali per la crescita delle piante, che a loro volta assimilano la CO2 atmosferica e la fissano in carbonio organico. È quindi un ciclo, o più cicli, essenziali per la vita sul nostro pianeta. Anche gli altri gas serra prodotti dal settore agricolo, il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O), fanno parte di cicli naturali essenziali, come la respirazione in assenza di ossigeno (anaerobica) nei ruminanti e nelle risaie per il CH4 e le trasformazioni dell’azoto nei suoli per il N2O.
Le attività agricole possono alterare fortemente questi cicli naturali, aumentando fortemente le emissioni, ad esempio con gli allevamenti intensivi e una scorretta gestione del letame, con lavorazioni eccessive del suolo o con l’uso eccessivo di fertilizzanti. In particolare, in Italia il settore agricolo è responsabile del 65% delle emissioni di CH4 e del 34% delle emissioni di N2O.
Tuttavia, l’applicazione di gestioni sostenibili che favoriscano l’accumulo del carbonio nel suolo (e quindi la sottrazione di CO2 dall’atmosfera) e un uso efficiente della fertilizzazione possono fortemente ridurre le emissioni di questi gas.
Pagliai – Siamo nel bel mezzo di una crisi climatica caratterizzata da eventi piovosi estremi concentrati in un brevissimo periodo e da lunghi e frequenti periodi di siccità con forti ripercussioni sulla produzione agricola e sull’ambiente comprese, ovviamente, le emissioni dei gas serra. In questa situazione critica i processi di adattamento e mitigazione, nel breve periodo, non sembrano in grado di contrastare questa crisi.
Negli ultimi anni, i consumatori europei hanno concentrato il loro consumo su poche specie ittiche, caratterizzate da un elevato valore commerciale. Purtroppo, la pressione esercitata dalla pesca intensiva su poche specie può produrre un’eccessiva quantità di pesci scartati, esacerbare i problemi di sovra sfruttamento delle risorse e mettere a rischio la stabilità degli ecosistemi marini. Pertanto, sarebbe importante rivitalizzare la domanda delle specie ittiche considerate di minor valore commerciale, il cosiddetto “pesce povero”, al fine di favorire un consumo responsabile, sostenibile e diversificato. Tuttavia, preparare pietanze a base di pesce povero richiede tempo, pazienza ed abilità culinarie.
Da tempo la Politica Agricola Comune (PAC) è chiamata a confrontarsi con le imprescindibili esigenze di tutela ambientale: se è vero che tra gli obiettivi della PAC (di cui, ora, all’art. 39 TFUE), non compare alcun riferimento alla tutela dell’ambiente, non è men vero che a far tempo dall’Atto Unico europeo, risalente al 1987, l’azione della Comunità (ora Unione europea) nel campo ambientale ha acquisito piena legittimazione. Con il Trattato di Amsterdam (entrato in vigore il 1° maggio 1999) è stato altresì inserito nel trattato l’art. 3C – divenuto ora art. 11 TFUE - secondo cui le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed azioni dell’UE: in questo modo, agli obiettivi della PAC come indicati nell’art. 39 del trattato, si è aggiunta la finalità, trasversale, della tutela ambientale.
La valutazione della sostenibilità dei prodotti di origine animale è orientata all’analisi delle componenti economiche, sociali e ambientali lungo la catena alimentare che va dalla produzione primaria, alla trasformazione, alla commercializzazione e al consumo. Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione nei confronti di aspetti della sostenibilità sociale che riguardano l’accettabilità delle pratiche agricole e zootecniche, la multifunzionalità (es. erogazione di servizi ecosistemici), la qualità e salubrità dei prodotti. La sostenibilità ambientale delle produzioni animali è fortemente influenzata dall’adozione di buone pratiche aziendali, rispettose del benessere animale e in grado di garantire una piena efficienza produttiva. I dati relativi al contesto nazionale indicano chiaramente un deciso miglioramento dell’impronta ambientale dei sistemi zootecnici negli ultimi decenni, con notevole riduzione delle emissioni di gas serra e di altre sostanze considerate problematiche per l’ambiente. Nella valutazione delle emissioni di metano da parte dei ruminanti occorre considerare correttamente i tempi di permanenza in atmosfera delle forme di natura biogenica, di gran lunga inferiori rispetto a forme di diversa natura e con un potere di riscaldamento globale negativo, cioè non dannoso per il clima. L’aumento della produttività individuale ha influito positivamente sul miglioramento della efficienza delle produzioni zootecniche. I risultati conseguiti sono principalmente dovuti al miglioramento genetico degli animali allevati (fenomica, genomica, crossbreeding, ecc.), nutrizione (precision feeding, unifeed, formulazione mangimi, controllo qualità), benessere animale (prevenzione delle malattie, controllo ambientale, densità di allevamento, ecc.), management (precision farming, sensoristica, formazione del personale, ecc.).
Tra le tecnologie disponibili per migliorare l’impronta ambientale degli allevamenti, il miglioramento genetico rappresenta una strategia di medio-lungo termine, capace di apportare modifiche permanenti e cumulabili. Punti essenziali per lo sviluppo di un piano di selezione finalizzato alla riduzione delle emissioni di gas serra, ed in particolare di metano enterico, sono la definizione di fenotipi che possano essere utilizzati qual obiettivi di selezione, la comprensione della loro architettura genetica, con particolare riferimento alle relazioni con i caratteri produttivi e funzionali e le possibilità offerte dalla selezione genomica. Tale strumento ha avuto un grande impatto sui programmi di miglioramento genetico, in particolare dei bovini da latte, determinando aumenti del progresso genetico dovuti alla riduzione degli intervalli di generazione e all’aumento dell’accuratezza delle valutazioni dei giovani animali e delle femmine. La selezione genomica è efficace, in termini di aumento di accuratezza della valutazione genetica, soprattutto nei caratteri a bassa ereditabilità, quali appunto l’emissione del metano. I progressi del miglioramento genetico dovranno essere accompagnati da un contemporaneo e efficace progresso nell’alimentazione animale.
Il Working Group of the UEAA sulla Politica Agricola Comunitaria ha prodotto il documento: “Input to the Strategic Dialogue on the future of EU agriculture” che propone delle linee guida per la prossima PAC. Nel gruppo è in corso una significativa discussione sul futuro della PAC e in particolare sui vari tradeoffs esistenti fra i 9 obiettivi alla base dell’attuale politica europea, ad esempio fra sicurezza nell’approvvigionamento alimentare e sostenibilità ambientale; fra competitività delle aziende e difesa delle attività nelle aree marginali; fra semplificazione amministrativa e compensazione dei servizi non di mercato prodotti dall’agricoltura.
Anche i vari punti costituenti il documento sono il risultato di questo dibattito e in questo senso devono essere considerati come indicazioni di massima, che per una loro esatta definizione richiedono la collocazione in un quadro complessivo che ne permetta l’integrazione e valutazione sistemica, una volta effettuate le scelte fondamentali proprio sulle priorità dei vari obiettivi.
Su questa premessa i principali punti costituenti il contributo sul futuro della PAC possono essere individuati nei seguenti.
Eliminare gradualmente le sovvenzioni che supportano l'uso di fertilizzanti chimici, pesticidi e combustibili fossili o che incentivano la produzione dei prodotti più intensivi in termini di emissioni di gas serra. Proporre una riallocazione di queste sovvenzioni verso pratiche agricole ambientalmente sostenibili, in linea con gli ambiziosi obiettivi climatici dell'UE.
Introdurre schemi di pagamento innovativi progettati per compensare finanziariamente gli agricoltori che forniscono significativi benefici ambientali, climatici e per il benessere degli animali, oltre ai requisiti standard. Gli incentivi forniti dovrebbero promuovere l'integrazione delle pratiche verdi nei modelli di business principali delle aziende agricole, privilegiando la partecipazione volontaria per favorire un maggiore coinvolgimento e impegno da parte della comunità agricola. Gli schemi dovrebbero mirare specificamente a miglioramenti nella biodiversità, salute del suolo, conservazione dell'acqua, adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici.
Come nasce un nuovo piatto o una nuova tendenza gastronomica? Per il caso e la necessità, come tutte le cose direbbe l’antico filosofo greco Democrito di Abdera (470 a. C. circa – 350 a. C circa). Da qui una serie quasi infinita di leggende e di storie inventate, come quella del pastore che nella regione di Kaffa della lontana Etiopia si accorge che le capre che si nutrono di bacche rosse non dormono ma saltellano ben sveglie e prova anche lui ad assaggiarle, sperimentando il loro effetto eccitante e stimolante, inventando l’uso del caffè.
Qualche giorno fa la notizia (Dairy Global, 27 giugno 2024): il governo danese, dopo cinque mesi di discussioni, sta introducendo un balzello sugli agricoltori relativo alle emissioni carboniose di gas serra, a partire dal 2030. La tassa prevede il pagamento di 40€ per tonnellata di CO2 prodotta, aumentabili a 100€ a partire dal 2035. Sono previsti sconti per gli agricoltori più “volenterosi”, “climate-efficient” in inglese. Non è chiaro come saranno compilate le pagelle, ma tant’è. Gli esperti prevedono, bontà loro, che, solo nel primo anno di applicazione della carbon tax, possa venir abbattuto il 70% delle emissioni totali di gas serra di origine agricola.
Nei nuovi sistemi agricoli, le leguminose da granella (fagiolo, fava, pisello, cece, lenticchia, cicerchia, lupino, soia) rivestono un ruolo cruciale, poiché forniscono un contributo essenziale alla sostenibilità degli ordinamenti colturali (per la possibilità di fissare nel suolo l’azoto atmosferico e di ridurre l’impiego di concimi di sintesi), al recupero/valorizzazione dei terreni marginali (con indubbi vantaggi sulla tutela di suoli agricoli dall’erosione e sul mantenimento di attività produttive anche in zone svantaggiate) ed all’auto-approvvigionamento di fonti proteiche, vantaggioso sia per gli umani che per il settore zootecnico, soprattutto quello condotto in regime biologico, che prevede l’impiego di mangimi prodotti in azienda.
Le prospettive? Una questione di resa.
Seppure favorite dalla Pac, il futuro di queste colture dipende dalla performance e dalla competitività delle relative filiere. La ricerca e l’innovazione devono impegnarsi a sviluppare varietà più adatte ai diversi impieghi e fornite di resilienza agli stress ambientali.
L’innovazione varietale trova un valido supporto nella ricca biodiversità genetica disponibile e in nuove metodologie di breeding che velocizzano i processi di selezione. In particolare, nella disponibilità di specie modello con genoma sequenziato (Medicago truncatula) che presenta estese sintenie con regioni cromosomiche di altre leguminose. Ciò fornisce l’opportunità di identificare sequenze di DNA associate a caratteri utili (marcatori molecolari) da utilizzare in tecniche di selezione assistita. Ovviamente, lo sviluppo di progetti di ricerca di base e applicata, di ampio respiro, necessita di un sostegno finanziario congruo e continuativo nel tempo.
La produzione mondiale di uva da tavola, negli ultimi anni, ha raggiunto circa 28 milioni di tonnellate, collocandosi al secondo posto tra la frutta fresca temperata dopo le mele (oltre 86 milioni di t) con un incremento del 19,7% dal 2012, superiore a tutte le specie temperate ad eccezione del kiwi (+ 46,4%).
La maggiore produzione è concentrata nel continente asiatico che contribuisce per circa il 65-66%, seguito dal Sud America con il 10 %, dall’Africa con circa il 9%, dall’Europa (8,5 %) e dal Nord America con poco più del 5 %. L’Oceania non raggiunge l’1%. La Cina è, di gran lunga, il maggior paese produttore con oltre 10 milioni di tonnellate, seguita da India (3 Mt), Turchia (2Mt), Iran (1,6-1,8 Mt), Uzbekistan (1,2 Mt). Tra i paesi mediterranei, oltre la Turchia, sono importanti l’Egitto (1,5-1,6 Mt), l’ltalia (1,0 Mt), la Spagna e la Grecia (0,3 Mt ciascuno). Il Sud Africa (0,33 Mt) è il secondo produttore africano. Gli Stati Uniti hanno una produzione simile all’Italia (1,0 Mt). Nell’America del Sud, tre sono i produttori più importanti: Brasile (0,8-0,9 Mt), Cile (0,7-0,8 Mt), Perù (oltre 0,6 Mt).
Le cultivar più diffuse a livello mondiale sono Alphonse Lavallée, Regina, Moscato d’Amburgo, Italia, Moscato d’Alessandria, Red Globe e Victoria tra quelle con seme e Crimson Seedless, Flame Seedless, Sugraone (Superior Seedless) e Sultanina tra le apirene (Fao-Oiv, 2016). Regina (sinonimi sono Mennavacca bianca, Pergolona, Inzolia imperiale, Afuz Ali, Dattier de Beyrouth, Rosaki, …) e Moscato d’Alessandria (sinonimo Zibibbo) hanno origini antichissime e provengono dal Medio Oriente e dal Nord Africa, Alphonse Lavallée e Moscato d’Amburgo sono state selezionate nell’Ottocento, rispettivamente in Francia e Inghilterra, Italia, Red Globe e Victoria sono frutto del miglioramento genetico italiano, statunitense e romeno del Novecento.
Il fatto che due cultivar di oltre duemila anni fa e due selezionate nell’Ottocento siano ancora tra le maggiormente coltivate nel mondo testimonia l’alto livello qualitativo raggiunto dall’uva da tavola da lungo tempo e la difficoltà del miglioramento genetico tradizionale ad apportare innovazioni competitive. Diverso è il caso delle uve apirene, tra le quali solo la Sultanina ha origini molto antiche, mediorientali; le altre sono state ottenute per incrocio intervarietale in California nella seconda metà del secolo scorso. Sultanina è anche la progenitrice di quasi tutte le cultivar apirene attualmente coltivate. Il panorama varietale mondiale sta rapidamente cambiando a favore delle cultivar apirene che negli ultimi venti anni hanno rappresentato il 70% delle nuove introduzioni, quando nel ventennio precedente, 1980-2000, erano solamente il 40% (Fideghelli, 2022); oggi la percentuale di apirene è superiore al 90%. Il miglioramento genetico moderno, oltre che all’apirenia è sempre più attento alla costituzione di varietà resistenti ai parassiti per ridurre drasticamente i trattamenti chimici che attualmente pongono l’uva da tavola al sesto posto tra i 12 prodotti ortofrutticoli maggiormente inquinati (dirty dozen- la sporca dozzina, secondo l’Enironmental Working Group americano).