Indulgendo, ancora una volta, ai ricordi personali, non riesco a dimenticarmi della mia prima esperienza di ricerca fatta per conseguire la laurea in Agraria, presso l'Università di Pisa, sotto la direzione di Franco Scaramuzzi che, durante i primi anni '60 del secolo passato, era giovanissimo professore ordinario di Coltivazioni arboree caratterizzato da uno straordinario attivismo produttivo. Aveva chiesto al suo assistente, dott. Filiberto Loreti, di segnalargli allievi desiderosi di fare un impegnativo lavoro di tesi sull'olivo. Loreti pensò a me e fu così che cominciai a lavorare sulla differenziazione della gemma a fiore dell'olivo in rapporto al suo fabbisogno in freddo.
Capisco che questo fatto non interessi nessuno, ma potete immaginare quanto sia stato incuriosito da un libro, “The olive. Botany and Production”, coordinato dal collega e Accademico Andrea Fabbri che, peraltro, è della "famiglia" dei coltivatori arborei e addirittura fiorentino di scuola, esattamente di quella scuola fondata da Alessandro Morettini e da uno dei suoi primi collaboratori, appunto, Franco Scaramuzzi. Pertanto Andrea Fabbri ed io siamo più o meno della stessa "parrocchia"; ciò potrebbe facilitarmi il compito di scrivere sul suo volume. Ma, si sa, i percorsi sono diversi e mi trovo davanti un testo assai laborioso. Si presenta come un libro di vasto respiro, non un manualetto, ma una riflessione a tutto tondo su una coltivazione che è, senza esagerare, alle origini dell'agricoltura e ha messo insieme quanto di meglio dispone -in termini di competenze- l'arboricoltura italiana, ma anche quella di altre appartenenze nazionali.
Certo, Alessandro Morettini, aveva scritto nel 1950, il suo "Olivicoltura", un trattato rimasto come riferimento per tutti noi e per molti altri che ci hanno seguito, ma certo che troppe cose sono cambiate e c'era certamente la necessità, come dichiarato, di scrivere un volume che fosse un "update" su tutto quanto è successo, negli ultimi decenni, nell'area mediterranea come pure nelle varie zone del mondo che si sono indirizzate alla coltura dell'olivo rendendolo non più coltura locale, ma planetaria.
La comunità scientifica agraria si è decisamente evoluta ed è un buon indice che il testo sia scritto in inglese; si pone quindi per un pubblico, certo colto, ma non locale, anzi globale.
L'olivo ha una lunghissima storia. Si parte dalla sua domesticazione che comincia da almeno 4000 anni BC in Medio Oriente, in quella linea di confine tra l'attuale Turchia e la Siria, prendendo poi direzioni diverse, dall'Egitto a Creta per approdare alla Grecia e infine all'Italia. Quest'ultima ha reperti lontani di molti millenni, ma se si esclude l'olivastro si può dire che l'olivo si impianta per la prima volta intorno a due millenni BC. Entra in Italia seguendo, in un certo senso, l'espansione e la forza vincente del periodo dell'impero romano, ma, ci dice proprio Fabbri che, con la decadenza dell'impero, anche l'olivicoltura si avvia ad un periodo di scarso vigore. Tutta la frutticoltura, se non addirittura tutta l'agricoltura, vira verso uno stato di semi-abbandono che non può non includere l'olivicoltura e che durerà sino almeno al 13° secolo AD. Solo con il Rinascimento l'olio trova un crescente impiego come materia prima per l'illuminazione e nell'industria e questa nuova spinta durerà sino al 17° secolo AD, sino a quando il clima subirà un notevole abbassamento termico. L'anno critico è considerato il cosiddetto "anno terribile", il 1709. Da quel momento in poi sarà quasi una regola la continua successione di periodi freddi che comporteranno, sino al 1985, una ricorrente distruzione da gelo dei vari impianti che andranno ricostituiti, ma con molta fatica. Fabbri riporta quanto successe nel Granducato di Toscana dove già operava da tempo, verso la fine del '700, l'Accademia dei Georgofili. Nell'ambito della attività di promozione tecnico-scientifica che l'Accademia perseguiva, si occupò, come era ovvio, anche di olivicoltura sostenendo una iniziativa, da premiare in modo consistente, centrata sulla stesura di un trattato di coltivazione dell'olivo. Tale premio fu vinto da Giuseppe Tavanti con il "Trattato teorico-pratico completo sull'Ulivo" che fu dato alle stampe nel 1819. La cosa innescò un processo virtuoso che risultò in un forte incremento della superficie toscana ad olivo che raggiuse 152,000 ettari nel 1830!
L'uso dell'olio di oliva come alimento si era già affermato da moltissimo tempo, ma sicuramente dagli inizi del '900 si diffuse ulteriormente e arrivò in tutti i continenti, ben oltre l'area mediterranea, raggiungendo gli USA, l'Australia, la Nuova Zelanda e il Sud Africa.
Il volume è pregevole per l'approfondimento e l'aggiornamento sulle molte tematiche che riguardano la coltivazione dell'olivo; la partecipazione di molti specialisti italiani del settore è garanzia circa il metodo scientifico adottato nella trattazione, rafforzato per altro dalla partecipazione di molti colleghi di altri paesi europei ed extraeuropei con un largo coinvolgimento di autori spagnoli, testimoni di una delle regioni del mondo nella quale la olivicoltura si è maggiormente aperta alla innovazione.
L'ampia parte dedicata alle basi biologiche della pianta e agli interventi biotecnologici è da apprezzare, ma il libro mantiene un giusto equilibrio tra tutti i settori, in particolare sono degni di nota sia la gestione dei moderni oliveti che la complessità della lotta agli organismi nocivi.
Dobbiamo ringraziare questo nutrito drappello di Autori, guidati dall'ottimo Andrea Fabbri. Sappiamo quanto sia già faticoso scrivere, ma anche quanta maggiore energia richieda il coordinamento dei tanti colleghi, per indirizzarli adeguatamente in modo da avere un prodotto finale coeso, ma valido in ogni sua parte.
Missione compiuta!