Non esiste il Santo Graal delle ricette

di Giovanni Ballarini
  • 21 May 2025

Poche sono le ricette mentre innumerevoli e continuamente cangianti le loro variazioni, alcune neppure nostre ma di antichissimi progenitori che ci hanno preceduto e dai alcuni dei quali discendiamo. Come gli ominidi che hanno inventato e costruito coltelli di pietra e sono capaci di produrre e governare il fuoco, da qualche parte in Africa, intorno ai duecentomila anni fa, una piccola popolazione della nostra specie di Homo sapiens mette la carne sul fuoco e una radice nella cenere calda procurandosi cibi più gradevoli. Queste due prime ricette subiscono poi un’infinità di varianti e aggiunte quando la nostra specie, con la sua caratteristica di Homo faber, inventa la cottura in acqua, modifica gli alimenti in cibi conservandoli in vario modo e fermentandoli aumentando il numero di ricette base dalle quali, incessantemente e fino ad oggi, aggiunge modifiche in modo analogo a quanto fa con la lingua. Per questo oggi, come la nostra specie ha molti linguaggi e dialetti locali che continuamente evolvono e si modificano, lo stesso avviene per la scelta, trattamenti e uso degli alimenti trasformati in un’infinità di ricette che come ogni altra cosa nascono ed evolvono secondo la Legge del Caso e della Necessità, come affermato da Democrito di Abdera (470 a. C. – 360/350 a. C.). Per questo l’alimentazione umana è da sempre costituita da grande e mutevole varietà di cucine, ognuna delle quali è un linguaggio nel quale le innumerevoli ricette sono le parole dei discorsi alimentari, anche loro in continua trasformazione ed evoluzione.
Ricette che come ogni essere esistente si formano, evolvono e muoiono secondo il caso e la necessità. Un esempio tra tutti è quello di una pasta ripiena parmigiana denominata Anolino che fino a pochi decenni fa si declinava con un ripieno in cinque varietà secondo le disponibilità economiche e l’offerta locale: sugo di carne bovina nella città nobile e di carne equina in quella popolare, presenza di carne suina o di funghi nella montagna orientale o occidentale, solo pane e formaggio nella bassa e un tempo povera pianura, tutte differenze che ora in vario modo si sono stemperate e da ricette familiari sono diventate anche ricette artigianali e industriali. Questo perché le ricette sono racconti o narrazioni di un alimento trasformato in cibo, che sono raccontate secondo le condizioni ambientali e sociali e che in queste hanno la loro verità, come avviene per ogni altro linguaggio. Se il Principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896 – 1957) scrive in forma di romanzo Il Gattopardo (1958) e il Conte Luchino Visconti di Modrone (1906 – 1975) lo narra con il linguaggio filmico (1963) ognuna di queste due narrazioni degli stessi fatti ha la sua diversa verità identitaria, come vere erano a Parma ognuna delle varianti degli anolini di un passato irrimediabilmente perduto e quelle odierne artigianali o industriali.
Le ricette fanno parte della cucina, un linguaggio con i suoi vocaboli (i prodotti e gli ingredienti), usati secondo regole di una grammatica (ricette) e di una sintassi (menù), fino alla retorica dei riti conviviali, il tutto con trasmissione di valori simbolici, deposito di tradizioni e d’identità individuale, familiare, di gruppo e sociale. Si formano così i sistemi culinari. In quanto linguaggio, ogni sistema culinario ha una struttura che è determinata dai modi di cottura e presentazione dei cibi, dai prodotti di base disponibili con le forme in cui sono presentati. A quest’ultimo riguardo intervengono le capacità di chi cucina, la qualità degli alimenti, in modo particolare quelli che hanno caratteristiche derivanti, in senso lato, dal territorio. La cucina, come il linguaggio, è anche arte (gastronomia) e soprattutto gusto e buongusto, che oggi sempre più è messo in discussione.
Da tempo e soprattutto per le ricette ritenute identitarie di una città, territorio, Italia stessa o periodo storico, si è alla ricerca della ricetta vera, quasi fosse un Santo Graal (leggendaria coppa con la quale Gesù celebrò l'Ultima Cena) il cui possesso possa fornire una conoscenza esoterica o iniziatica elargita da una tradizione che attribuisce a chi la conquista un quasi magico potere in essa racchiusa. Ma queste ricette esistono o nella gran parte se non nella quasi totalità dei casi sono soltanto favole e per questo ambiziosamente cercati come un’araba fenice. Favole di cui siamo da sempre alla ricerca come quella che a Giosuè Carducci (1835 – 1907) fanno dire “O nonna, o nonna! deh com'era bella / quand'ero bimbo! ditemela ancor, / ditela a quest'uom savio la novella / di lei che cerca il suo perduto amor! (…) Deh come bella, o nonna, e come vera / è la novella ancor!" (Davanti a San Guido - Rime Nuove LXXII).
Favole, narrazioni che ci servono per avere spiegazione di fenomeni naturali, legittimare pratiche rituali e istituzioni sociali e, più genericamente, rispondere alla domanda di come dobbiamo comportarci anche in un’alimentazione che divenga “nostra” e cioè identitaria, offrendoci non una spiegazione causale, ma legittimarla e sanzionarla, proiettandola nel tempo passato di una tradizione quasi sempre più immaginata e ricreata che documentata.