Il Ministero Neozelandese dell’Industria sta finanziando un progetto di ricerca per produrre alimenti zootecnici a partire dai gas serra. Il progetto parte dall’osservazione che due microrganismi, un batterio ed un’alga che vivono in condizioni estreme di temperatura in siti geotermici, producono biomasse proteiche a partire dai due gas climalteranti anidride carbonica e metano, le bestie nere dei gas digestivi prodotti dai ruminanti.
L’olivo è una pianta sempreverde che presenta interessanti aspetti del processo fotosintetico e della traslocazione dei carboidrati verso i frutti per la sintesi, principalmente, dei grassi e di numerose altre sostanze caratteristiche (vedi sostanze fenoliche, aromatiche, ecc.).
Dai ricercatori dell’Università olandese di Wageningen e degli Stati Uniti ci arrivano novità che rendono ancora più interessante l’allevamento di insetti per l’alimentazione animale.
In particolare, l’argomento della tesi di dottorato di Kelly Niermans all’Università di Wageningen ha riguardato la capacità che hanno certe larve, come quelle della mosca domestica, del Black Soldier, della tarma della farina e del grillo, di trasformare le micotossine in molecole assolutamente innocue.
La storia della vite e del vino passa attraverso il messaggio culturale che accompagna il percorso della bevanda attraverso i millenni: il simposio. Pratica conviviale ritualizzata e rispondente a precise regole che implicitamente invitavano alla moderazione nel bere, il simposio si svolgeva alla fine del banchetto greco tra conversazioni alternate al suono di musiche e canti, recita di poesie, danze e giochi; mediato dal mondo etrusco giunge ai Romani e sino ai nostri giorni nel comune denominatore del “bere insieme” (da synpinein). Convivialità e moderazione, socialità e responsabilità sono concetti pregnanti della cultura del vino, richiamati al Museo del Vino a Torgiano MUVIT da collezioni archeologiche, artistiche e tecniche.
Il consumo consapevole del vino è un concetto antichissimo che compare già negli episodi biblici come monito all’eccesso (L’ebbrezza di Noè, Lot e le figlie) e accompagna la diffusione della viticoltura nel Mediterraneo. Dono di Dioniso, il vino era per i Greci essenza stessa della civiltà e l’ebbrezza che causava era considerata compensazione degli affanni della vita, a patto di farne un uso giudizioso.
Durante il simposio i modi e i quantitativi del vino erano dettati dal simposiarca e in molte kylikes (coppe da vino) di età arcaica compaiono due grandi occhi, evocativi della maschera silenica o interpretati come personificazione della coppa stessa: nell’atto del bere, sollevando la coppa, la fissità dello sguardo è ammonimento e richiamo ai simposiaci. Ne è esempio la Kylix a occhioni del sec. VI a.C., dalla raccolta archeologica del MUVIT, che presenta al suo interno una maschera gorgonica come doppio monito all’eccesso.
Al Museo il percorso prende cronologicamente avvio dal III millennio a.C. con il richiamo ai luoghi storici della agricoltura e della viticoltura, alla Mezzaluna fertile, attraverso testimonianze pre ittite e ittite, siriane, cicladiche che attestano un uso quasi sacrale del vino ma è il simposio il leitmotiv nel susseguirsi delle civiltà mediterranee. Brocche, calici, versatori, kylikes, kyathoi (attingitoi), oinochoi (brocche) e altre forme del bere greche, etrusche, romane richiamano un consumo diffuso del vino e la sua presenza costante nei banchetti dell’antichità. Una presenza che accomuna tanto le mense contadine quanto quelle conventuali, principesche di età medievale, rinascimentale, moderna, sino ai nostri giorni; in tutte il vino è immancabile.
Il 3 dicembre 2024, nella sede dell’Accademia dei Georgofili, si terrà la Giornata di Studio conclusiva del progetto LIFE ‘LIFE4FIR’ (LIFE18 NAT/IT/000164) finanziato dal sottoprogramma ‘Natura e Biodiversità’. Il progetto LIFE4FIR ha avuto come obiettivo generale quello di sviluppare ed applicare strategie in situ and ex situ per la conservazione e la salvaguardia dell’Abete delle Madonie (Abies nebrodensis), una specie endemica del Parco delle Madonie, situato nell’area centro-settentrionale della Sicilia. L’ Abies nebrodensis è classificato come a rischio critico di estinzione e, per questo motivo, inserito nella lista rossa della IUCN tra le 50 specie più minacciate di estinzione del Mediterraneo. La popolazione naturale residua oggi è, infatti, costituita da soli 30 alberi adulti, distribuita in un’area di circa 84 ettari all’interno del Parco ed è protetta dalle normative previste dagli standard EU.
Il tema affrontato riguarda la protezione della biodiversità e la salvaguardia delle specie vegetali dai rischi antropogenici come il sovrasfruttamento, l’introduzione di specie non native, la degradazione e frammentazione dell’habitat e il cambiamento climatico. Le specie in via di estinzione sono una componente essenziale della biodiversità e la loro perdita può avere un profondo impatto sugli ecosistemi. Esse contribuiscono alla biodiversità svolgendo ruoli esclusivi a livello ecologico e, quando queste specie scompaiono, l’equilibrio dell’ecosistema viene compromesso. La perdita di biodiversità può rendere gli ecosistemi più vulnerabili alle sollecitazioni ambientali, come inquinamento, cambiamento climatico e malattie. Pertanto, proteggere le specie a rischio di estinzione è essenziale per preservare la biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi.
Il progetto LIFE4FIR è stato avviato nel 2019 con l’obiettivo di migliorare lo stato di conservazione dell’Abete delle Madonie, rispondendo alle principali cause di vulnerabilità: l’erosione genetica, la frammentazione della popolazione (e la conseguente autogamia), la scarsa rinnovazione naturale, la sovrappopolazione di erbivori selvatici (daini e cinghiali) e la possibile ibridazione con abeti non nativi. Il progetto è stato attuato da IBE-CNR, Università di Palermo, Università di Siviglia, Ente Parco delle Madonie e il Dipartimento per lo Sviluppo Rurale e Territoriale della Regione Sicilia, con il coordinamento dell’IPSP-CNR (Coordinatore, Dr. Roberto Danti).
Senza cibo si può vivere un mese, senz’acqua non si supera la settimana!
La messa in opera di pannelli solari fotovoltaici può produrre energia attraverso la combinazione di tecnologie per l’energia rinnovabile, incluse quelle marine. Si tratta infatti di pannelli solari posizionati sull’acqua e flottanti, in cui la potenza viene trasferita verso un convogliatore energetico tramite cavi subacquei. Il loro uso è promettente nelle condizioni ideali di lago o diga, dove le acque sono calme e non ci sono problemi di perdita di ancoraggio.
La pianura di Pistoia è oggi occupata quasi interamente dalle attività vivaistiche, di pieno campo o in contenitore, che hanno sostituito, ormai da molti decenni, i campi di seminativo vitato, caratteristici di queste giaciture nel periodo della conduzione mezzadrile. In realtà i vivai ormai stanno risalendo le colline, prendendo il posto di mosaici colturali di stampo “più “tradizionale”.
Infatti, salendo sui rilievi collinari non è insolito vedere nel giardino di una graziosa villetta non le quattro, cinque rose che potremmo aspettarci, ma cinquecento rose in contenitore!!! La vasetteria ha invaso gli spazi come un fiume in piena! Certamente questo fenomeno crea difficoltà di convivenza con la popolazione non direttamente interessata alla produzione, perché si tratta di un’agricoltura intensiva anche se effettuata con competenza e perizia, quindi deve rappresentare un obiettivo prioritario la valutazione attenta e capillare della sostenibilità ambientale finalizzata a preservare la salute delle piante senza recare alcun danno alle persone.
Una volta affrontato questo tema centrale con la volontà di individuare soluzioni efficaci in tempi brevi, guardiamoci intorno e chiediamoci cosa vediamo, cosa vedono gli abitanti di questi luoghi, cosa vedono le persone che percorrono l’autostrada in prossimità di Pistoia, cosa percepiscono i visitatori, i turisti; qual è l’immagine di Pistoia nel mondo: superfici infinite di alberi e arbusti in filari regolari, di genere e specie simili o diverse tra loro per portamento, fiori, fogliame, colori. I filari possono avere orientamento diverso, avere prato tra di loro, terra oppure ghiaia. Tutte queste piante sono in attesa di essere destinate a diventare parti e componenti di parchi, giardini, aiuole, etc.
Ma, esse stesse, in quanto alberi, arbusti, viali, differenti colori e fiori…a cosa corrispondono se non a un grande giardino? Un giardino destinato a dar luogo a giardini ma un giardino esso stesso, con un alto grado di manutenzione, di cura, e, certamente, anche di biodiversità. Molti vivai, sia appartenenti a grandi aziende, sia quelli di piccole dimensioni, hanno lavorato e lavorano per migliorare l’immagine e la qualità paesaggistica, ad inventarsi un progetto di parco fruibile dell’intero vivaio, non solo nelle parti di vetrina commerciale, quelle usate come catalogo vivente.
Il Regolamento europeo sul ripristino della natura, dopo ampie e dettagliate considerazioni (ben 88 punti), si sviluppa in sei capitoli di cui il primo riguarda le “Disposizioni generali” (articoli 1-3); il secondo “Obiettivi e obblighi di ripristino” (articoli 4-13); il terzo “Piani nazionali di ripristino” (articoli 14-19); il quarto “Monitoraggio e comunicazione” (articoli 20-21); il quinto “Atti delegati e atti di esecuzione” (articoli 22-24); il sesto “Disposizioni finali” (articoli 25-28). Il documento termina con 7 allegati.
Il suolo è menzionato 13 volte nelle considerazioni iniziali, 5 nei capitoli e 3 negli allegati. Totale 21 volte.
Il documento contiene una serie di principi e obiettivi condivisibili. Da una lettura dello stesso nel suo insieme si evidenzia, però, la difficoltà a rappresentare in modo omogeneo le diverse situazioni pedo-ambientali dell’intera Unione Europea. Ad esempio, si dà grande spazio alle torbiere, diffuse nel nord Europa ma molto scarse in Italia e nei paesi mediterranei. Dall’altra parte, invece, non si rileva il problema della salinizzazione che ormai riguarda larga parte delle zone costiere del sud Europa.
Non viene dato sufficiente rilievo alle problematiche della gestione delle risorse idriche alla luce della crisi climatica in atto. È noto, ad esempio, che i lunghi periodi di siccità contribuiscono al degrado non solo degli habitat agricoli e forestali, ma anche di quelli urbani, specialmente se alla siccità si associano le sempre più frequenti e intense ondate di calore.
Per quanto riguarda il suolo è da sottolineare che è stato principalmente trattato nel pacchetto di iniziative previste dal Green Deal europeo, tuttavia in questo regolamento viene giustamente considerato parte integrante degli ecosistemi terrestri ed è altrettanto giusto l’auspicio di invertirne i processi degradativi con l’aumento dello stock di carbonio organico; è ampiamente noto il ruolo della sostanza organica ed è altresì assodato che il suo declino causa la degradazione del suolo stesso ed è altrettanto noto che il contenuto di sostanza organica è direttamente proporzionale alla biodiversità del suolo. Giusto, quindi, aver individuato quale indicatore proprio lo “stock di carbonio organico” nei suoli. Giusto anche monitorare questo indicatore determinando il suo contenuto nei suoli coltivati ad una profondità compresa tra 0 e 30 cm. Anche se i pedologi vorrebbero la sua determinazione lungo tutto il profilo!
In modo analogo alla chirurgia robotica una cucina robotica può supportare l'utente in vari modi, per cui in futuro i robot cooperativi guidati a distanza possono essere integrati nelle cucine come ogni altro apparecchio, in diversi scenari in cui il robot supporta l'essere umano, con le sfide che tale configurazione comporta.
Intervista al Dott. Alberto Laddomada, ex dirigente della Commissione Europea per la salute animale ed ex direttore generale dell’Istituto Zootecnico Sperimentale della Sardegna, esperto virologo ed epidemiologo di lungo corso.
In quarant'anni di carriera nella genetica agraria, ho assistito a profondi cambiamenti e ho utilizzato le tecnologie più avanzate disponibili in ogni epoca: dagli anni '80 e '90, con la rigenerazione delle piante da protoplasti, la transgenesi e l'isolamento e lo studio funzionale dei geni, fino alle più recenti tecniche di decifrazione dei genomi e le NGT “New Genomic Techniques”, che noi genetisti italiani chiamiamo TEA (Tecnologie di Evoluzione Assistita). Questi strumenti della ricerca di base per approfondire la conoscenza, solo in alcuni casi, sono sfociati in innovazioni e applicazioni pratiche. Tuttavia, nonostante i progressi, non ho mai potuto osservare le piante modificate geneticamente in laboratorio crescere al di fuori di una serra. Questa frustrazione, più professionale che personale, è stata condivisa con molti colleghi: come si comporteranno queste piante in un ambiente agricolo reale? Riusciranno a esprimere nelle condizioni operative il carattere genetico valutato in laboratorio? Questa incertezza ha caratterizzato gran parte della mia vita professionale e quella di altri ricercatori nel campo delle biotecnologie agrarie, sia in Italia che in Europa.
Oggi le piante ottenute mediante TEA, considerate OGM da un obsoleto regolamento del 2001, vedono finalmente aperta la sperimentazione in pieno campo. Le TEA consentono, a seconda degli obiettivi, di trasferire geni all'interno del pool genetico della stessa specie (cisgenesi) o di eseguire mutazioni di precisione attraverso il gene editing con l’uso di forbici molecolari come CRISPR/Cas9, che agiscono con estrema specificità sul bersaglio genomico. La cisgenesi e il gene editing, insieme alla profonda conoscenza dei genomi e della funzione dei geni, costituiscono le più grandi innovazioni nel miglioramento genetico moderno delle piante agrarie.
Frusciante. La viticoltura italiana è ai primi posti della produzione mondiale, sia per quanto riguarda l’uva da vino, sia per quella da tavola, ma la vite è anche la specie che ha usufruito meno dei progressi del miglioramento genetico rispetto ad altre specie agrarie. Probabilmente perché, l’uva da vino, in particolare, è ancora fortemente legata al binomio vitigno-terroir che incide in maniera determinante sulle esigenze della promozione commerciale senza tener conto, però, della sostenibilità ambientale.
Polverari. Il miglioramento genetico per la resistenza è stato fondamentale per tante specie agrarie e non possiamo pensare di farne a meno proprio in una coltura così impattante come la vite. Le nuove varietà di vite resistenti ottenute mediante incrocio con un enorme sforzo scientifico e imprenditoriale, hanno raggiunto lo scopo di ridurre del 60-70% i trattamenti al vigneto, ma ovviamente i caratteri originali vanno perduti e introdurre innovazioni di gusto in enologia è molto difficile, richiede una grande consapevolezza e sensibilità del consumatore ai temi ambientali e una disponibilità al cambiamento che in questo settore mancano ancora.
Oggi la tradizione enologica può trovare alleati potenti nei nuovi strumenti biotecnologici di miglioramento genetico, per produrre viti più resistenti senza cambiarne l’assetto genetico originale e quindi preservandone il gusto e il valore.
Il Consiglio dell'Ue, su impulso della Commissione Europea, ha adottato la decisione di presentare, a nome dell'Unione europea, una proposta di modifica del livello di protezione del lupo previsto dalla Convenzione internazionale sulla Conservazione della Vita Selvatica e degli Habitat naturali in Europa, adottata a Berna nel 1979 e giuridicamente vincolante. Nello specifico, si prospetta di abbassare la tutela del lupo declassandolo da “specie faunistica rigorosamente protetta” a “specie faunistica protetta”. La proposta sarà presentata alla 44esima riunione del Comitato permanente della Convenzione di Berna, responsabile della valutazione dello stato di conservazione delle specie, che si terrà a dicembre 2024 (Fonte AGI).
Percorriamo brevemente le principali tappe che hanno portato all’attuale stato protettivo del lupo.
Il Green Deal è disastroso, lo cambieremo, dice Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria. Il tema è l’automotive, l’industria, le tecnologie ma il segnale è inequivocabile. Praticamente nelle stesse ore la neo-vicepresidente esecutiva della Commissione UE, la spagnola Teresa Ribera, parlando con l’Ansa, si è detta “certamente” convinta della volontà di portare avanti – e forse anche intensificare – gli sforzi per realizzare il criticato Green Deal, sia pure nella nuova versione (coniata da Ursula von der Leyen) di “clean industrial plan”.
Oltre alla peste suina, c’è un’altra malattia che preoccupa molto gli allevatori: la Blue Tongue o Lingua blu o febbre catarrale dei ruminanti. Ne abbiamo parlato con Giovanni Savini, Head of Public Health Department, Director of the European Reference Laboratory for RVF, WOAH and National Reference Laboratory for Bluetongue dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Abruzzo e Molise.
Che cos’è la lingua blu o la bluetongue?
La Bluetongue è una malattia virale che colpisce i ruminanti ed è, per lo più, trasmessa da moscerini appartenenti a specie del genere Culicoides. Il virus della Bluetongue include oltre 35 diversi sierotipi, tra cui i più importanti da un punto di vista clinico e normativo sono quelli da 1 a 24. Ogni sierotipo è immunologicamente distinto dagli altri e all'interno di ciascun sierotipo possono esserci più ceppi o stipiti virali. La distinzione tra i sierotipi è fondamentale, poiché un vaccino prodotto contro un determinato sierotipo generalmente è efficace per tutti i ceppi virali appartenenti a quel sierotipo.
Qual è la situazione in Europa e nel nostro Paese?
La situazione in Italia e in Europa è piuttosto complessa. Ci troviamo a fronteggiare sierotipi diversi e ceppi virali altamente virulenti. Attualmente, il ceppo virale prevalente nel centro-nord Europa appartiene al sierotipo 3. Introdotto nei Paesi Bassi nel settembre dello scorso anno, questo virus si è rapidamente diffuso, causando gravi danni alla zootecnia in diverse nazioni europee. Dal territorio olandese, infatti, il virus si è propagato in Belgio, Germania, Inghilterra, Francia, Lussemburgo, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Svezia, Austria e Portogallo. Si tratta di un ceppo estremamente virulento, capace di determinare seri quadri clinici ed elevata mortalità, soprattutto tra le pecore. Sono stati inoltre segnalati sintomi e cali di produzione anche nei bovini, in particolare in Francia. La nuova emergenza europea ha spinto diverse aziende farmaceutiche a sviluppare vaccini contro questo sierotipo. Vari prodotti sono stati sviluppati e introdotti sul mercato, e alcuni sono già in uso in diverse nazioni europee dove ne è autorizzato l'impiego. Un altro ceppo che sta interessando in modo significativo l'Europa appartiene al sierotipo 8; presenta caratteristiche genomiche che lo differenziano da altri ceppi dello stesso sierotipo che precedentemente erano circolati in Europa e in Francia. Anche questo ceppo ha mostrato spiccate caratteristiche di virulenza. In Francia, i primi focolai clinici causati da questo ceppo virale sono stati osservati nell'agosto del 2023 nella regione meridionale del Massiccio Centrale. Da lì, il virus si è diffuso in Corsica e, successivamente, in Sardegna (ottobre 2023). Con l'arrivo della nuova stagione vettoriale 2024, il virus si è propagato anche in Spagna, nelle Isole Baleari, in Andorra e in Svizzera. Anche per questo sierotipo sono disponibili vaccini sul mercato.
Pochi giorni fa sono finito per caso su una pagina di un social dove ho letto i commenti riguardo all’abbattimento di un platano in cui si arrivava addirittura a minacciare “il responsabile” di tale abbattimento, insieme a offese di vario genere. Ora, conoscendo proprio quella situazione e la motivazione della scelta fatta, legata al limitare il progredire del cancro colorato del platano, la cui lotta è obbligatoria per legge e la cui omissione è un reato penalmente perseguibile, vorrei fare qualche riflessione sulla questione della gestione degli alberi in città e della necessità, che talvolta sorge, di doverli abbattere e sostituire.
L’abbattimento degli alberi in contesti urbani è diventato uno dei temi più dibattuti e, purtroppo, spesso affrontato con superficialità. Quello che dovrebbe essere un dibattito pubblico maturo e consapevole sulla gestione del verde urbano si trasforma sempre più spesso in una caccia al colpevole, un’escalation di accuse e aggressioni che mina la possibilità di un dialogo costruttivo. La cultura dominante sembra essere quella della condanna immediata, in cui non solo si ignorano le ragioni tecniche e scientifiche dietro certe scelte, ma si attacca violentemente chi lavora per la salvaguardia del territorio, in particolare gli operatori e i tecnici incaricati della gestione degli alberi che, mi preme sottolinearlo, si assumono anche responsabilità importanti.
Questa cultura della colpa a tutti i costi è un sintomo di una tendenza preoccupante: la mancanza di volontà di comprendere. Siamo ormai così intrappolati in un meccanismo di indignazione che la prima reazione è accusare, senza fermarsi a chiedere il "perché". È un atteggiamento che rispecchia un allarmante distacco dalla realtà dei fatti, dove l’emotività prevale sul ragionamento critico. Gli alberi sono visti come simboli di un’innocenza violata, e ogni loro rimozione è interpretata come un crimine contro la natura, senza tener conto delle possibili motivazioni che possono rendere necessario l’abbattimento. Malattie, pericolo di crolli e rischio spesso connesso in ambito antropizzato, interferenze con infrastrutture e piani di rigenerazione urbana sono solo alcune delle ragioni che spesso giustificano interventi, certo dolorosi, ma necessari.
Roma è una città che presenta criticità ambientali legate all’inquinamento e al traffico veicolare lungo la rete stradale, ma al contempo possiede un significativo capitale “naturale” costituito dai parchi delle ville storiche, dalle aree naturali protette, dalle vaste aree archeologiche che creano porosità verdi all’interno del tessuto urbano. A Roma, inoltre, le alberature stradali contribuiscono alla identità paesaggistica: le “olmate” di memoria papale, i platani dell’epoca umbertina, i cipressi delle passeggiate archeologiche, i lecci del quartiere Prati e i pini domestici hanno contribuito a creare l’immagine paesaggistica della città.
La possibilità di realizzare missioni spaziali estese, con lunghi periodi di permanenza a bordo di piattaforme spaziali orbitanti o in colonie spaziali sulla Luna o su Marte, è legata alla capacità di creare un sistema biorigenerativo di supporto alla vita e, tra tutti gli organismi studiati per questa funzione, a oggi le piante rappresentano i rigeneratori più promettenti. È qui che entra in gioco l’agricoltura spaziale, la pratica di coltivare piante per sostenere la vita in un ambiente extraterrestre. Stefania De Pascale, pioniera assoluta a livello internazionale in questo campo, spiega quali sono le sfide biologiche e tecnologiche che abbiamo di fronte e come potremmo fare per superarle nel suo ultimo libro: “Piantare patate su Marte. Il lungo viaggio dell'agricoltura” (Ed. Aboca).
Con la partecipazione di capitali privati, la corsa allo spazio ha subito un’enorme accelerazione: Elon Musk ha recentemente dichiarato che i primi voli con equipaggio su Marte avverranno tra 4 anni e che il numero dei voli crescerà esponenzialmente, con l’obiettivo di costruire una città autosufficiente in circa 20 anni. Questo, dunque, significherà praticare agricoltura nello spazio ... ma COME?
La visione di Elon Musk per la colonizzazione di Marte è certamente ambiziosa perché ci sono ancora molte sfide da superare. Secondo i piani di Musk, la prima città su Marte dovrebbe essere costruita in circa 20 anni. Per rendere questa città autosufficiente nello spazio, sarà fondamentale sviluppare sistemi di supporto alla vita biorigenerativi (BLSS), veri e propri ecosistemi artificiali in grado di rigenerare aria, acqua e cibo in modo continuo direttamente su Marte, per ridurre la dipendenza dai rifornimenti dalla Terra. Si tratta di ecosistemi artificiali basati sulle interazioni tra esseri umani (consumatori), batteri e altri organismi decompositori, alghe, piante e batteri fotosintetizzanti (produttori), alloggiati in relativi compartimenti, in cui ciascun componente utilizza i prodotti di scarto dell’altro come risorsa, in un ideale ciclo chiuso.
Pagliai – Le produzioni di nicchia rappresentano, in molti casi, una vera eccellenza nel panorama delle produzioni agricole e forestali che, per la verità, non stanno attraversando un periodo particolarmente florido, sia da un punto di vista ambientale, sia, soprattutto, da un punto di vista economico. Fra queste produzioni di nicchia vi è sicuramente il tartufo a cui, negli ultimi decenni, si sono intensificati gli studi proprio per conoscerne le condizioni di crescita nel tentativo di migliorarne la produzione. A parte le piante micorizzate, quali sono le condizioni ottimali del suolo per la produzione dei vari tipi di tartufo?
Bragato – Premettendo che i veri tartufi, i corpi fruttiferi dei funghi Ascomiceti del genere Tuber spp., le caratteristiche che influiscono sull’ambiente suolo che colonizzato sono separabili in due gruppi. Da una parte le caratteristiche chimiche dei suoli ricchi in Calcio: presenza di carbonato di Ca e/o complesso di scambio dominato dal Ca, con valori di pH superiori a 6,5 e molto spesso maggiori di 7,2. Dall’altra aspetti fisici determinati da una struttura del suolo molto porosa e permeabile.
La componente chimica è stata verosimilmente un fattore di speciazione del genere Tuber. Con l’emersione di rocce e sedimenti calcarei, l’adattamento delle specie tartufigene ad ambienti chimicamente preclusi a gran parte dei funghi micorrizici ha aperto grandi spazi in cui diffondersi quasi in assenza di concorrenza. La componente fisico-strutturale consente invece un facile accesso all’ossigeno atmosferico (i funghi micorrizici sono organismi aerobi obbligati) e favorisce lo sviluppo dimensionale dei tanto apprezzati tartufi.
Le due componenti hanno anche un diverso peso in rapporto alla distribuzione geografica degli habitat tartufigeni. Secondo i criteri chimici, più di metà del territorio italiano sarebbe idoneo ai tartufi, ma quelli fisico-strutturali riducono drasticamente le aree vocate. Non esistono stime in questo senso, ma la mia esperienza sul tartufo bianco pregiato (T. magnatum) mi fa propendere per valori inferiori all’1% dei suoli a carbonati/ricchi in Ca scambiabile.
La grande selettività della componente fisico-strutturale è attribuibile alla presenza di molti pori con diametro maggiore di 30 µm che, oltre a facilitare i movimenti dell’aria, determinano una elevata capacità drenante del suolo, rendendo potenzialmente aridi i suoli da tartufo. Di conseguenza, gli habitat tartufigeni si restringono alle aree in cui vengono limitate le perdite d’acqua per evaporazione e/o garantiscono agli alberi simbionti l’accesso a riserve idriche sotto superficiali anche profonde.
Da un punto di vista biologico la combinazione elevato drenaggio/adeguata idratazione determina la prevalente maturazione dei tartufi in autunno-inverno. Grazie a specifici adattamenti biologici, solo due specie maturano in periodi diversi. Il tartufo bianchetto o marzuolo (T. borchii), prediligendo suoli tendenzialmente sabbiosi, matura a marzo-aprile, quando le sabbie inumidite dalle piogge primaverili raggiungono la massima sofficità e offrono la minima resistenza allo sviluppo dimensionale dei corpi fruttiferi. Il tartufo estivo (T. aestivum), invece, sfrutta l’ispessimento del peridio del corpo fruttifero (da cui il nome alternativo di “tartufo scorzone”) come difesa dal disseccamento. Con questa modifica anatomica, lo sviluppo dimensionale viene disgiunto dalla fase di maturazione: le piogge primaverili consentono l’ingrossamento dei tartufi, segue una fase di stasi fino alle poche piogge estive che attivano la fase di maturazione nel periodo più secco dell’anno.
Mentre per la Sardegna l'Unione europea ha finalmente deciso di abrogare le ultime misure restrittive ancora in vigore per la Peste suina africana, il virus continua ancora a far tremare gli allevatori in numerose regioni italiane, in Europa e in molte altre aree del mondo. Abbiamo approfondito l’argomento con il Prof. Giovanni Ballarini.
Prof. Ballarini, cosa pensa dell’attuale epizoozia di Peste Suina Africana in Italia?
Non è la prima volta che questa malattia sbarca in Italia e ricordo che nel 1967 arriva negli allevamenti di maiali per un improvvido uso di un vaccino di origine clandestina. Un avvenimento che circa cinquanta anni fa vivo in prima linea come giovane professore di Medicina Veterinaria con allevamenti di maiali colpiti nella Pianura Padana. In quella occasione subito, nel giorno più lungo si può dire, si interviene con una battaglia intelligentemente comandata da Luigino Bellani, con a fianco Giuseppe Caporale e un esercito di cento Veterinari Provinciali dotati di pieni poteri, come si addice a una guerra che è così rapidamente vinta. Purtroppo allora l’infezione in Sardegna passa ai cinghiali dove è poi vinta con una guerriglia durata ben cinquanta anni. Ora la Peste Suina Africana è di nuovo sbarcata in Italia, non è fermata nel giorno più lungo e non costituisce solo una testa di ponte, ma conquista i cinghiali di un vasto territorio che comprende più regioni dell’Italia Settentrionale e necessita non di singoli interventi, spesso sparsi, ma una adeguata strategia.
Gentile Professore, cosa è questo suo parlare di giorno più lungo, testa di ponte, guerriglia, strategia? Parliamo di una malattia, non di una guerra.
Qui si sbaglia, perché le epizoozie animali e le epidemie umane per essere vinte devono essere affrontate non in modo settoriale e scoordinato ma con un piano globale come una guerra contro un agente patogeno, soprattutto se invadente in una popolazione e in un territorio, tenendo presente le caratteristiche di questi ultimi, sia per un nemico di primo arrivo che già insediato, come è l’attuale situazione italiana della Peste Suina Africana. Come avvenuto per lo sbarco in Normandia, uso ancora un linguaggio bellico, anche per combattere la Peste Suina Africana è necessario un comando unico con pieni poteri esecutivi, che alle attuali condizioni non credo possa esistere.
Quali condizioni?
Tre Ministeri (Salute, Agricoltura, Commercio), venti regioni, interessi diversi anche contrapposti tra differenti categorie sociali (allevatori, cacciatori, animalisti, ambientalisti) e chi più ne ha più ne metta, rendono non solo difficile, ma soprattutto tardivo e lento ogni intervento, che è invece necessario in una guerra lampo (Blitzkrieg) come l’attuale epizoozia di Peste Suina Africana. A questo riguardo ricordo che la guerra del 1967 fu guidata e vinta dal centro con telegrammi inviati ai cento Prefetti e che i cento Veterinari Provinciali resero immediatamente operativi senza lentezze, intermediari o interferenze di qualsiasi genere.
Lasciamo stare il passato e guardiamo all’oggi. Quali le sue previsioni?
Quando gli Alleati nel 1944 conquistano la Normandia è chiaro che è solo possibile una strategia di contenimento. Lo stesso è per la Peste Suina Africana che ora coinvolge quattro regioni (Liguria, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte). Con un giudizio non pessimista ma realista, considerando l’esperienza italiana della Sardegna e quella attuale dei paesi dell’Europa Orientale, la malattia insediata in Italia Settentrionale qui rimarrà molto a lungo, per molti decenni se non forse per sempre, almeno nei limiti della nostra, attuale esperienza umana.
La recente morte in Sicilia di un carabiniere cinquantenne, attribuita alle conseguenze del morso del cosiddetto Ragno violino, ha destato notevoli preoccupazioni e ha sollecitato la curiosità su questa specie di Aracnide che è stata descritta da Doufour nel 1820 ed è attualmente nota come Loxosceles rufescens, afferente alla famiglia Sicariidae il cui nome deriva dal latino Sicarius con il quale gli antichi romani indicavano i terroristi Zeloti che uccidevano per terrorismo, o su commissione, usando una corta spada ricurva detta "sica".
Il 2024 sarà sicuramente ricordato, almeno al Centro e Sud Italia, come la peggiore annata per l’agricoltura. Purtroppo, in molte situazioni, agricoltori e tecnici si sono ritrovati impreparati ad affrontare situazioni e risvolti non facilmente gestibili con un complesso di nozioni teorico-pratiche classiche che, generalmente, sono focalizzate quasi esclusivamente alla gestione fitopatologica delle tipiche avversità biotiche delle colture negli ambienti mediterranei.
Il discorso siccità andrebbe affrontato in un’ottica molto più ampia rispetto alla classica carenza di acqua, considerando anche gli eccessi di temperature e di radiazione e le pratiche agro-colturali messe in atto dagli stessi agricoltori nei diversi agroecosistemi. In definitiva la siccità, per le piante, è uno stress multiplo causato dall’interazione di deficit idrico, alte temperature e alte intensità luminose (Medrano et al., 2002, Ann. Bot.).
Una siccità come quella del 2024 non si era mai vista e, come accade in queste situazioni, ci si è trovati impreparati nell’adottare anche le più semplici azioni di limitazione dei danni.
La viticoltura, in questo contesto climatico bizzarro, si è ritrovata a subire le maggiori conseguenze negative, sia per l’elevata superficie della coltura a livello nazionale e sia perché, almeno a livello di alcune località e situazioni, non è stata capace, negli anni, di “rinnovarsi” pienamente e giustamente per adottare nuove pratiche mitigatrici degli eventi climatici avversi ed estremi.
Il mercato dei prodotti vitivinicoli, abbastanza favorevole degli ultimi anni, ha favorito velocemente l’impianto di nuovi vigneti in zone e situazioni non sicuramente eccellenti dal punto di vista pedoclimatico o, se si vuole, del terroir. Spesso sono state effettuate valutazioni affrettate nella scelta dei portinnesti, cultivar, cloni, lavorazioni di base e gestione successiva della chioma.
Poca importanza è stata data alla corretta scelta del sito di impianto, alla correzione di eventuali “difetti” del terreno, alla carenza “cronica” di sostanza organica, alla gestione di eventuali sorgenti idriche, alle forme di allevamento “resilienti”, ecc.
Ma i cambiamenti climatici, volendo o non volendo, sono pronti a “erodere” silenziosamente tutto quello che, non gestito correttamente dall’uomo, risulta esposto alla furia di una natura divenuta ormai incontrollabile.
Frusciante - Il miglioramento genetico delle piante agrarie ha sempre fatto uso di metodologie innovative, che, nel contesto storico in cui sono state introdotte, sono spesso apparse all'opinione pubblica come interventi "contro natura". Un esempio significativo è rappresentato da Nazzareno Strampelli, che circa un secolo fa venne allontanato dall'associazione da lui stesso fondata. Gli associati, infatti, consideravano le nuove varietà di grano da lui sviluppate come una minaccia per il "Rieti originario".
Pezzotti - La genetica e il miglioramento genetico sono scienze che l'umanità ha inconsapevolmente utilizzato per oltre diecimila anni per domesticare e migliorare piante e animali in base alle esigenze alimentari. Solo con la formulazione delle leggi di Mendel, però, queste pratiche sono diventate scienze applicate, migliorando qualitativamente e quantitativamente le specie agrarie. Le piante che oggi nutrono l'umanità sono il risultato di un processo scientifico in continua evoluzione, sviluppato grazie alla genetica, biologia e fisiologia delle piante coltivate. La genetica moderna non deve essere vista come antagonista della tradizione, ma come uno strumento rigoroso e innovativo per preservare e valorizzare specie produttivamente obsolete o a rischio di estinzione. Un esempio significativo è proprio Strampelli, che, pur non avendo una completa conoscenza delle leggi di Mendel, ottenne progressi straordinari nel miglioramento dei frumenti attraverso incroci intra e interspecifici, pratica fortemente criticata all'inizio del XX secolo. I risultati ottenuti da Strampelli dimostrarono la validità della sua visione, smentendo i critici che non riuscivano a vedere oltre le conoscenze scientifiche del tempo.
Frusciante - Dagli incroci alla mutagenesi degli anni Ottanta (accompagnata dalle aspre critiche alla cultivar Creso) e agli OGM, oggi le Tecnologie di Evoluzione Assistita promettono di rivoluzionare il miglioramento genetico delle piante. Potrebbero essere decisive per affrontare cambiamenti climatici e sicurezza alimentare. Tuttavia, mi sorge un dubbio: non stiamo forse riponendo troppe aspettative in queste tecnologie?
Il giornalista brasiliano freelance Daniel Azevedo ci informa dalle pagine della rivista di informazione zootecnica “Dairy Global” del 7 agosto scorso che la multinazionale JBS Foods, conosciuta come la più grande azienda per la lavorazione delle carni nel mondo, sta utilizzando gli scarti di lavorazione delle carni per produrre biocarburanti per aerei. Le strutture industriali di trasformazione si trovano negli Stati Uniti, Canada e Australia.
Il vino – per cui l’export è strategico quasi quanto per l’ortofrutta - batte la strada dell’innovazione nei prodotti, nell’attenzione al mercato e nelle strategie di marketing. L’ortofrutta al momento piange molto su se stessa, anche se c’è chi sta lavorando per il futuro e non mancano progetti innovativi.
Non bastavano gli incendi: ora è in atto il deperimento dei boschi naturali. Nuovi ingenti danni alle risorse forestali della Sardegna si manifestano con appassimento delle foglie e successivo e completo disseccamento delle chiome degli alberi. Già evidenti a partire dal mese di questo luglio sono proseguiti con intensità crescente durante tutto il mese di agosto assumendo carattere di grave eccezionalità. Particolarmente intensi in vari comuni dell’area orientale dell’Isola, dal Sarrabus Gerrei al sud, passando per l’Ogliastra e per la Baronia al centro fino in Gallura al nord. L’eccezionale siccità, presente con una diminuzione delle precipitazioni medie negli ultimi anni che lungo la costa orientale dell’Isola sfiora il 50%, unita all’aumento delle temperature medie estive, con massimi superiori a 45°C negli ultimi 10 anni ormai ricorrenti e per periodi temporali prolungati, sta colpendo in particolare le formazioni naturali di sughera (Quercus suber L.) e di leccio (Quercus ilex L.), ma anche le superfici occupate da macchia mediterranea. In tutta l’Isola le prime stime indicano decine di migliaia di ettari le superfici complessivamente colpite.
Il glifosate è, oggi, il prodotto più utilizzato a livello globale per la gestione della vegetazione indesiderata nelle aree agricole ed extra-agricole. Il grande successo dell’erbicida è essenzialmente da porre in relazione ad un ampio spettro di azione, ad un costo non elevato, unitamente ad un buon profilo tossicologico e ambientale. In molti paesi, alla diffusione dell’erbicida ha fortemente contribuito la possibilità di impiego in modo selettivo nelle colture geneticamente modificate di mais, soia, cotone e colza.
Il glifosate è un erbicida sistemico ad azione totale nei confronti delle piante annuali e poliennali, erbacee e legnose. Assorbito dai tessuti verdi, circola in modo sistemico in tutte le parti delle piante, comprese quelle sotterranee ed inibisce la sintesi degli aminoacidi, bloccando l’azione dell’ESPS, un enzima unicamente presente nei vegetali.
A partire dal 2019 il prodotto è stato sottoposto, come previsto dalle normative europee sui prodotti fitosanitari, ad un nuovo processo di revisione da parte delle Autorità e Agenzie competenti (EFSA, IARC, ECHA, OMS, FAO) basato sull‘esame di oltre 2.400 nuovi studi da cui non è emersa. Non essendo emerse significative criticità sanitarie e ambientali, il 28 novembre 2023 la Commissione Europea ha approvato la proroga dell’autorizzazione dell’erbicida fino al 15.12.2033 (Reg. 2660/2023).
Il rinnovo è stato accompagnato da alcune limitazioni alle dosi massime di impiego, oltre che da nuove misure legate alla protezione dell’ambiente e da una riduzione della presenza di alcune impurezze nella sostanza attiva. La dose massima è stata stabilita, per gli usi agricoli a 1,44 kg s.a./ha/anno (innalzabile a 1, 80 kg s.a./ha anno nel caso di specie invasive) e per gli usi extra-agricoli a 3,60 kg s.a./ha anno. Nel nostro Paese il mantenimento delle autorizzazioni esistenti è stato subordinato alla richiesta di rinnovo, entro il 15.03.2024, al Ministero della Salute da parte dei titolari, con adeguamento delle condizioni di impiego alle limitazioni stabilite. Data la numerosità di formulati da esaminare (oltre 70), è prevedibile che il processo di riesame nazionale di tutti i prodotti richieda alcuni anni per il suo completamento. Nel frattempo i formulati per i quali è stata presentata la richiesta di rinnovo continueranno a mantenere le dosi e le modalità di impiego in precedenza autorizzate.
Nei sistemi colturali erbacei il quantitativo massimo utilizzabile di 1,44 kg s.a./ha/anno (corrispondente a 4 L/ha/anno di un formulato con una concentrazione di 360g/L di glifosate) fornisce, in generale, una soddisfacente efficacia delle malerbe annuali e di alcune poliennali, sia in assenza delle colture (falsa semina, post-semina/pre-emergenza), sia in presenza delle colture con attrezzature in grado di impedire il contatto con le colture (ugelli schermati barre lambenti, ecc.). Per una più completa azione nei confronti delle specie poliennali o difficili è prevedibile che si rendano necessari interventi integrativi meccanici (sfalci, lavorazioni del terreno) o chimici (es. con 2,4 D, dicamba, limitatamente alle specie a foglia larga). Data la frequente presenza di specie poliennali di difficile controllo, più critica potrebbe risultare la gestione delle malerbe nei sistemi conservativi, dove la semina delle colture viene eseguita su terreno sodo, una pratica fortemente sostenuta dagli indirizzi politici comunitari e nazionali per le favorevoli ricadute agronomiche e ambientali. In queste condizioni, le alternative all’impiego del glifosate, con risultati non sempre soddisfacenti, sono essenzialmente limitate all’applicazione di pochi prodotti integrativi a specifica azione nei confronti di malerbe graminacee o a foglia larga e alla semina di colture di copertura gelive, in grado di completare il ciclo prima dell’inverno (es. rafano americano, trifoglio incarnato) o da terminare con interventi meccanici.
Pagliai – Nelle azioni atte a ridurre le emissioni di gas serra anche l’agricoltura è chiamata a dare il proprio contributo e, talvolta, se ne parla a sproposito anche se dobbiamo ammette come sia ormai evidente che l’intensificazione colturale ha sovente superato la soglia di sostenibilità ambientale. Ad esempio, nel circuito internet circolano miriadi di dati e anche riguardo alle emissioni di anidride carbonica è necessario prendere atto che una lavorazione profonda del terreno porta alla perdita di circa 250 kg ha−1 di CO2, che equivalgono alle emissioni di un'auto Euro5 che viaggia per 1700 km. Ma a quanto ammontano le reali emissioni dei gas serra e, quindi non solo di CO2, da parte del settore agricolo?
Lagomarsino – Innanzitutto, va chiarito che le emissioni di gas serra dal suolo sono un processo naturale e necessario: un suolo è vivo e sano proprio perché produce CO2 con i processi respiratori sia delle radici delle piante sia dei microrganismi come batteri e funghi, che vivono nel suolo e decompongono la sostanza organica rendendo disponibili i nutrienti essenziali per la crescita delle piante, che a loro volta assimilano la CO2 atmosferica e la fissano in carbonio organico. È quindi un ciclo, o più cicli, essenziali per la vita sul nostro pianeta. Anche gli altri gas serra prodotti dal settore agricolo, il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O), fanno parte di cicli naturali essenziali, come la respirazione in assenza di ossigeno (anaerobica) nei ruminanti e nelle risaie per il CH4 e le trasformazioni dell’azoto nei suoli per il N2O.
Le attività agricole possono alterare fortemente questi cicli naturali, aumentando fortemente le emissioni, ad esempio con gli allevamenti intensivi e una scorretta gestione del letame, con lavorazioni eccessive del suolo o con l’uso eccessivo di fertilizzanti. In particolare, in Italia il settore agricolo è responsabile del 65% delle emissioni di CH4 e del 34% delle emissioni di N2O.
Tuttavia, l’applicazione di gestioni sostenibili che favoriscano l’accumulo del carbonio nel suolo (e quindi la sottrazione di CO2 dall’atmosfera) e un uso efficiente della fertilizzazione possono fortemente ridurre le emissioni di questi gas.
Pagliai – Siamo nel bel mezzo di una crisi climatica caratterizzata da eventi piovosi estremi concentrati in un brevissimo periodo e da lunghi e frequenti periodi di siccità con forti ripercussioni sulla produzione agricola e sull’ambiente comprese, ovviamente, le emissioni dei gas serra. In questa situazione critica i processi di adattamento e mitigazione, nel breve periodo, non sembrano in grado di contrastare questa crisi.