Lo storico Plutarco (46 d. C. - 125 d. C.) nelle “Vite Parallele” narra che Caio Giulio Cesare, quando dal 59 al 55 a.C. è governatore della Gallia Cisalpina, a Mediolanum, l’odierna Milano, è invitato con i suoi collaboratori a una cena preparata nella domus del ricco Valerio Leone. A dimostrare quanto Cesare è poco esigente in tema di cibo, cita che sono serviti degli asparagi conditi con un unguentum (mirra o burro?) anziché olio, che Cesare mangia tranquillamente rimbrottando i suoi amici che si sentono offesi. “Bastava, disse, che coloro a cui non piacevano non se ne servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui”. Da qui la leggenda che Cesare avrebbe detto una delle sue la celebri frasi: “De gustibus non disputandum est” (non si può discutere sui gusti), che s’appaia a quelle di quando mentre si accinge a passare il Rubicone dice Alea iacta est (Il dado è tratto) e che quando è pugnalato a morte avrebbe esclamato Tū quoque, Brūte, fīlī mī! (Anche tu Bruto, figlio mio!).
Lasciando impredicata la storicità della frase, è certo che i Romani cucinano con olio e i Galli con grassi diversi, una differenza già nota nel lontano passato e sempre più accentuata dall’attuale invadente mondializzazione alimentare.
I gusti alimentari sono differenti nelle diverse popolazioni umane e cambiano nel tempo anche abbastanza rapidamente per una complessa azione di motivi, tra i quali condizioni ambientali, economiche e culturali che riguardano anche la percezione di espressioni biologiche. Fino a poco tempo fa nel mondo occidentale si pensava che tutti i popoli distinguessero quattro gusti fondamentali: dolce, amaro, acido e salato, per poi accettare l’esistenza del quinto gusto dell’umami dei popoli occidentali e forse un sesto gusto per il cloruro d’ammonio, unitamente all’idea che cinque sono i sensi e sette colori.
La recente antropologia dei sensi di Da-vid Howes (Howes D. (ed.), The Varieties of Sensory Experience, Toronto University Press, Toronto 1991) sta riducendo l'etnocentrismo percettivo occidentale rivelando il carattere culturale e naturale della percezione sensoriale, attribuendo ai sensi un ruolo nella trasmissione culturale. Per quanto riguarda la descrizione di sapori e odori in un'antropologia del gusto, come sottolineato anche da Rosalia Cavalieri (Cavalieri R. – Gusto. L’Intelligenza del palato – Editori Laterza, 2011), l'odierna analisi dei gusti nei diversi popoli del mondo rivela una notevole differenza nei sistemi di catalogazione. Per i Papuasi e altre popolazioni l’amaro è identificato con il nostro salato. Popoli del Sudan, Guinea, Dakota, Nuove Ebridi dolce e salato sono designati con un unico stesso termine di gustoso. I Baganda dell'Uganda distinguono solo due categorie di cibi, quelli buoni (zucchero, carne salata e alcuni frutti acidi) e quelli cattivi (acqua salmastra e chinino). I Sereer Ndut del Senegal differenziano i cibi in dolci, acidi e in unico gruppo quelli salati, piccanti e amari. I giapponesi, riconoscono l'esistenza di cinque sapori di base, i quattro occidentali più l'umami, mentre i cinesi hanno i gusti dolce, salato, amaro, acido e acre. Per gli Indiani i gusti sono sei: dolce, salato, acido, amaro, piccante e astringente, mentre per i tailandesi i gusti sono otto: dolce, salato, amaro, acido, piccante, scialbo, astringente e grasso. Per questo individui di diverse culture hanno differenti sensibilità gustativa con preferenze alimentari e gastronomiche proprie del contesto in cui sono nati e si sono adattati e ne consegue che alimenti da un punto di vista biologico commestibili non è detto siano anche culturalmente apprezzati e consumati.
In conclusione, nessuno potrà conoscere tutti i sapori della variegatissima gastronomia mondiale e gustare le tradizioni culinarie di tutti i popoli, mutabili anche in relazione alla disponibilità e variabilità degli alimenti e della loro trasformazione culinaria. In Europa, per esempio, il consumo dei gelati, del tè, del caffè e del cioccolato comincia a diffondersi a partire dal Seicento, i vini antichi erano molto diversi dagli odierni, allungati inoltre con acqua a volte di mare o addolciti e aromatizzati con miele spezie, fiori e resina, vini oggi imbevibili.
Ogni cultura è però convinta di avere la cucina migliore assolutizzando i propri gusti e disprezzando o ridicolizzando quelli delle altre culture, non dimenticando che anche nei singoli individui l’accettazione e la bontà di un cibo varia in relazione alla storia familiare e personale. A conferma che non esistono alimenti buoni in assoluto, basta ricordare i popoli che si alimentano di vermi, locuste, lucertole, cavallette, formiche, serpenti, roditori, cani, cibi il cui solo pensiero crea disgusto nei popoli occidentali. Come afferma Massimo Montanari (Montanari M. - Il cibo come cultura - Laterza, Roma-Bari, 2004), il gusto e il cibo sono fenomeni culturali che variano nello spazio e nel tempo, ma specialmente perché gli uomini li creano. Anche per questo il gusto e la cucina hanno un valore identitario e ogni paese si riconosce in una certa pietanza, in un piatto tipico veicolo delle tradizioni e dell'identità di un gruppo sociale. Come gli spaghetti e la pizza identificano il gusto degli italiani nel mondo, il riso è il piatto per definizione di cinesi, tailandesi, vietnamiti, mentre nel couscous si riconoscono i popoli del Nord Africa. Allo stesso tempo le società aperte all’immigrazione abbondano di ristoranti italiani, arabi, giappone-si, cinesi, turchi, spagnoli ecc. perché gli emigranti portano con sé la propria cucina, l'alimentazione è una delle tracce sensibili della loro presenza e ogni gruppo etnico ha le proprie preferenze per una varietà determinata di sapori e di cibi, escludendone o proibendone altrettanti.
La scarsa corrispondenza tra i giudizi gustativi nei diversi popoli trova spiegazione nel fondamento, non tanto biologico quanto culturale, delle nostre sensazioni e dallo sviluppo delle abilità percettive che interagiscono e si rafforzano con fattori ambientali e sociali. Il piacere di mangiare è una condizione universale comune a tutte le culture di ogni tempo e la percezione biologica sensoriale e lo stimolo percepito sono, in genere, uguali per tutti, ma innegabile è l'incidenza dell'ambiente socio-culturale sul modo in cui il cervello elabora gli stimoli e vi attribuisce significati anche simbolici. Analogamente all'esperienza del vedere, del sentire, dell'annusare o dell'orientarsi nello spazio, l'assaporare e gustare i cibi assume significati diversi da una cultura all'altra e l’attuale mondializzazione porta a prenderne consapevolezza portando a uscire dai propri schemi di conoscenza aprendosi a quelli altrui, anche in una logica di un confronto e di uno scambio.