Notiziario





Animali urbani e inquinamento

Inquinamento urbano da animali e viene subito in mente la defecazione dei cani sui marciapiedi o il guano degli storni, ma il problema è più ampio e complesso. Il concetto d’inquinamento urbano non è nuovo anche se in questi ultimi decenni divenuto oggetto di particolare attenzione in conseguenza di problemi emergenti o divenuti meglio conosciuti anche per il perfezionamento delle metodiche di analisi che hanno individuati nuovi tipi d’inquinamento.

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Maiale, porco ma non sporco

Excursus storico sulle false etimologie che associano il maiale alla sporcizia

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Sanificazione Ambientale con l’Ozono nell' industria alimentare

L’ozono è la forma triatomica dell’ossigeno e viene prodotto artificialmente tramite appositi generatori. È considerato uno dei più antichi disinfettanti conosciuti. Si tratta di un gas con la caratteristica di essere un potente ossidante e che può essere utilizzato nella sua forma gassosa pura oppure disciolto nell’acqua. In forma di gas, l’ozono è facilmente utilizzabile nel contesto della lotta alla pandemia dove la ricerca di soluzioni anti-virali per gli ambienti è fortemente consigliata. Si rendono però necessarie alcune regole fondamentali per garantire la sicurezza degli utenti del servizio e una piena efficacia del trattamento.

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Latte e derivati non sono più di moda?

È triste parlare di “moda” in riferimento ad alimenti nobili quali il latte dei ruminanti ed i prodotti lavorati che ne derivano, frutto di culture millenarie, radicate nelle tradizioni un po’ di tutti i popoli della terra. Ma, tant’è, purtroppo.
Nei Paesi più ricchi stiamo assistendo ad un continuo declino economico dell’industria lattiero-casearia, tanto che molti produttori, anche grandi, stanno rischiando la bancarotta. Negli Stati Uniti, nel corso del 2020, qualcosa come 67.000 aziende zootecniche a conduzione familiare hanno chiuso l’attività. Tutto ciò perché nell’opinione pubblica ha fatto e sta facendo sempre più breccia la convinzione che “vegetale” è bello, mentre tutto ciò che ha a che fare con gli allevamenti animali è colpevole di tutte le nefandezze del mondo, a cominciare dal riscaldamento globale, per finire con le pandemie.
Sugli scaffali dei supermercati possiamo ormai trovare molti prodotti etichettati con la dicitura “latte”, di soia, di mandorle, di anacardi, di avena, di nocciole, insieme ad altri prodotti lavorati come yogurt, formaggi, creme, burri vegani. Fra gli altri, da segnalare, lo yogurt di soia fermentata al gusto di limone “Sojade So Soja” in Belgio, il cappuccino con latte di mandorle da consumare con ghiaccio (!) in Australia, la bibita “Alpro Barista Oat Drink” a base di latte d’avena in Bulgaria, il gelato di ceci “Sweetpea” negli Stati Uniti, il burro vegano garantito “biologico” in Canada, il latte di avena della ditta Yeo dsi Singapore, ed altre amenità.
Sul finire dell’anno scorso, il Parlamento Europeo ha votato l’Emendamento 171, meglio conosciuto come “Dairy Ban”, che vieta l’uso di etichette ingannevoli di prodotti alternativi che imitano le etichette di latte e derivati da latte di ruminanti.

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Solo questione di opportunità o anche responsabilità?

Nel 4° numero di aprile della rivista “L’Enologo”, lo stimato e caro amico Cesare Intrieri ha esposto con squisita e puntuale precisione quasi tutti i temi che riguardano la straordinaria opportunità che sta vivendo la viticoltura italiana. Nell’ultima decina di anni si è visto un crescendo di registrazioni di varietà resistenti sia straniere sia realizzate in Italia. L’ultimo anno altre 10 varietà si sono aggiunte, tra queste le prime di San Michele all’Adige, con incroci che non sono figli di vitigni internazionali bensì autoctoni, tipici della regione Trentina. Tutto ciò rappresenta la punta di un iceberg; altre iniziative importanti stanno procedendo con un crescente interesse del mondo produttivo e l'ottenimento di questa numerosa ed interessante quantità di materiale innovativo, oltre che resistente, non potrà che far bene alla viticoltura nazionale, aprendo ad opportunità fino ad oggi impensabili. Innanzi tutto, è pian piano scemato l’ostracismo parzialmente giustificato dai fallimenti del secolo scorso. Molti esperti del settore, a partire dall’autorevole amico e collega che ha stimolato questo mio scritto, hanno oramai accolto questa attività come una grande opportunità. Mi permetto però di andare un pochino oltre, approfittando proprio di questo avvicinamento tra diverse opinioni oramai separate solo da dei distinguo veramente sottili, tuttavia a mio parere determinanti per il successo o il fallimento di queste nuove varietà. La critica che permane è soprattutto dovuta alla presenza di DNA di specie selvatiche donatrici delle resistenze, e, soprattutto, quanto ancora può pesare sulla qualità del prodotto. Qui però viene in aiuto la scienza, e la tecnologia di oggi, che con la metabolomica può identificare un rilevante numero di metaboliti determinanti la qualità ed i profili dei nuovi vitigni resistenti. L’opportunità offerta dai vitigni resistenti “moderni” è fortemente legata a queste nuove competenze che molto possono aiutare nel definire la qualità, oltre che se buona o cattiva, anche quanto simile e quanto divergente dai due genitori di partenza.
Questa breve premessa per arrivare a chiedersi quanto espresso nel titolo, che vuole andare oltre “all’ancor timido” sostegno che traspare nelle parole del collega. Siamo tutti d’accordo che nuovi vitigni resistenti costituiscano una valida alternativa, anzi forse l’unica alternativa in certi ambienti non adatti al biologico, e considerarli una opportunità è un passo avanti importante. Ma a mio parere il mondo scientifico ha delle responsabilità maggiori e soprattutto decisive in questo contesto. Due sono senz’altro i nostri doveri di scienziati; uno è di tipo enologico, ovvero affinare le competenze di vinificazione di questi prodotti, mentre il secondo è più “filosofico” in un certo senso: siccome le competenze scientifiche possono fare la differenza nel successo o nel fallimento di queste varietà resistenti di nuova generazione, non possiamo avere un ruolo asettico e equidistante, bensì esprimere in modo convincente e responsabile che questa è la strada.

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“Plant Vigour Hypothesis” e “Plant Stress Hypothesis” nella gestione degli agroecosistemi

L’agricoltura “moderna” ha rivoluzionato non solo il modo di fare, ma anche il pensiero quotidiano degli operatori agricoli e dei consumatori. La gestione moderna degli agroecosistemi deve partire dalla conoscenza, la quale non può essere sempre “delegata” ad altri, ma deve diventare patrimonio fondamentale di agricoltori, tecnici e consumatori. Le discipline fitopatologiche e della nutrizione vegetale dovrebbero  permettere, se applicate con corretti criteri scientifici, di migliorare la salute delle piante coltivate senza aggravamenti delle stesse problematiche da risolvere.

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Mostarda, piacere culturale

In ogni cultura alimentare vi sono cibi piccanti per i quali esistono dei limiti, diversi per ogni persona e a loro volta influenzati dalle abitudini alimentari, e il piacere che provocano giustifica la loro presenza e persistenza e per questo i cibi piccanti sono importanti cibi culturali. Il controllo dei limiti dei cibi piccanti, come anche per quelli amari, in ogni cultura è mantenuto e regolato da tradizioni, spesso trasferite nelle ricette delle diverse preparazioni piccanti, loro associazioni con altri cibi e rituali d’uso, nei quali sono regolati dolore e piacere, paura felicità e allegria.

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“L’Arno che verrà”

Il 22 Aprile 2021, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, si è svolta una giornata di studio on line finalizzata alla raccolta di idee e progetti per la realizzazione di “Un patto per l’Arno”, il Contratto di Fiume che abbraccia l’intera asta fluviale del grande corso d’acqua toscano, organizzata da Autorità di Bacino dell’Appennino Settentrionale, ANBI e ANCI Toscana e dai Consorzi di Bonifica 2 Alto Valdarno, 3 Medio Valdarno e 4 Basso Valdarno.
La giornata che è stata preceduta, fra l’altro, da “Tavoli di lavoro” in cui si sono affrontate tutte le tematiche inerenti il fiume quali: protezione civile, manutenzione e riqualificazione partecipata dei territori fluviali, ambiente, volontariato, ricerca, processi di governance per la riduzione dei rischi ambientali, energie rinnovabili, acqua e agricoltura, turismo, navigabilità, pesca, canottaggio e ciclovie, recupero delle plastiche e tutela degli ecosistemi fluviali.
Fra queste tematiche si è dato quindi, fra l’altro, ampio spazio al ruolo dell’agricoltura che deve essere sempre più incisivo. È stato sottolineato che le imprese agricole possono dare un contributo essenziale alle politiche di tutela dell’acqua e del suo uso ed è stato auspicato un rafforzamento della collaborazione con i Consorzi di Bonifica.
Queste tematiche sono sempre state tenute nella massima considerazione dall’Accademia dei Georgofili: si ricorda, infatti, che proprio nel Dicembre scorso si è svolta una giornata di studio, in collaborazione con ANBI, su “L’acqua da risorsa a calamità” in cui si è ampiamente dibattuto questi temi e i cui atti sono pubblicati e consultabili sul sito dell’Accademia (www.georgofili.it).  
È ormai noto che, con i cambiamenti climatici in atto, fra l’altro, è cambiata molto la variabilità delle precipitazioni tanto che se da un lato tendono a intensificarsi e a distribuirsi su un numero minore di giorni, dall’altro sono in aumento le serie siccitose con risultati che mostrano impatti diversi da zona a zona.
In conseguenza di ciò l’erosione del suolo, con la conseguente perdita di qualità fisiche ed idrologiche, è destinata ad esacerbare il rischio idrogeologico, con conseguenze per ora non adeguatamente considerate dalla legislazione italiana ed europea.

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Benessere animale e nuovi confini dell’agrarietà

1.- L’art.13 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea): animali esseri senzienti
Il tema del benessere animale negli ultimi anni ha trovato spazio crescente nelle riflessioni su temi e questioni, che in varia misura si collocano all’interno del diritto agrario e del diritto alimentare.
La disposizione legislativa alla quale si fa comunemente riferimento è quella introdotta dal Trattato di Lisbona e contenuta nell’art. 13 del TFUE, nell’ambito delle “Disposizioni di Applicazione Generale”, ove solennemente si afferma: “l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”.
Va detto che disposizioni legate al rispetto degli animali, intese ad evitare o comunque ridurre sofferenze, erano presenti nella legislazione nazionale ed europea ben prima del Trattato di Lisbona.
Quanto alla legislazione nazionale, numerosi provvedimenti sin dai primi decenni del ‘900 hanno introdotto regole in tema di caccia, vivisezione, macellazione, che compongono un risalente disegno legislativo, inteso ad “evitare all’animale, anche quando questi debba essere sacrificato per un ragionevole motivo, inutili crudeltà e ingiustificate sofferenze” (come ha sottolineato di recente la Corte di Cassazione).
Quanto alla legislazione europea, già dagli anni ’70 alcune direttive hanno vietato la macellazione senza previo stordimento, ed hanno introdotto misure di protezione degli uccelli selvatici, degli animali da allevamento e di quelli utilizzati a fini scientifici e sperimentali.
Un elemento comune caratterizza questo complesso di risalenti disposizioni, nazionali ed europee: il benessere animale non era individuato come fine in sé, oggetto di autonoma considerazione, ma come oggetto regolato in ragione di altre finalità (dalla realizzazione del mercato interno, alla tutela della concorrenza e dell’ambiente, alla PAC).
Lo stesso Regolamento (CE) n. 178/2002, conosciuto come General Food Law, menziona sia il benessere dei cittadini che il benessere animale, ma si occupa del secondo soltanto in funzione della tutela della vita e salute umana, con una formula che assegna alla salute e al benessere animale rilievo solo eventuale. Ne risulta una prospettiva incentrata sui soli interessi umani, che appare ancor più singolare ove si consideri che il Reg. (CE) n. 178/2002 costituisce la risposta organica e di sistema ad una crisi, quella della BSE del 1996-97, che ha certamente cagionato perdite di vite umane, ma che ancor prima ha colpito in modo terribile la salute ed il benessere dei bovini.
Il Trattato di Lisbona, con l’introduzione del richiamato art. 13 del TFUE, ha modificato questo risalente paradigma, segnando con ciò una prima tappa di un percorso, complesso, controverso, e non concluso, che sta conoscendo significativi elementi di novità con il contributo di una pluralità di law makers, giudici e legislatori.

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Lieviti naturali dalle molte madri

Quando il pane era di produzione familiare, quello di ogni casa aveva il suo aroma e sapore particolare che non dipendeva tanto dalla farina, quanto dal lievito usato, per cui giustamente era denominato lievito madre e di madri ve ne erano tante quante erano le case, in ognuna delle quali questo lievito si tramandava di panificazione in panificazione, di anno in anno e talvolta anche di generazione in generazione.

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Anche l’Unione Europea considera preoccupante il fenomeno della deforestazione

Le linee guida della European Animal Feed Organisation (FEFAC) del 2015, relative all’acquisto e importazione di soia sostenibile stanno per essere riviste ed aggiornate, a dimostrazione dell’importanza attribuita alla deforestazione illegale, soprattutto in Amazzonia, ritenuta una causa importante del fenomeno del riscaldamento globale.
Nella precedente versione delle linee guida (Soy Sourcing Guidelines, SSG) era stata messa al bando solo la soia prodotta su terreni deforestati illegalmente. Con le nuove linee guida sembra di capire che non sarà consentito acquistare soia prodotta su qualsiasi terreno deforestato, anche legalmente, o su altri ex ecosistemi naturali come le savane o le paludi, cioè su terreni “convertiti”. Si potrà trattare solo la cosiddetta “conversion-free soy”.
Il parlamento europeo sta lavorando alla preparazione di una legge che regolamenti la deforestazione, in modo tale da adeguarsi alle regole di acquisto e importazione di soia conversion-free. Uno studio del 2013 ha indicato che l’Europa importa circa il 10% di prodotti legati in qualche modo al fenomeno della deforestazione. Motivo di perplessità e di preoccupazione è il fatto che si confida sulla “diligenza” e l’onestà delle compagnie che trattano la soia, le quali dovrebbero identificare i prodotti non permessi e prevenirne la circolazione sui mercati europei, pena sanzioni, anche pesanti.
Tuttavia, molti sono scettici riguardo all’auspicio che tutti coloro che operano nel mercato della soia rispettino le regole. Il segnale dato dalla FEFAC è forte, ma l’impatto sul mercato a livello internazionale è ancora molto modesto. Ricordiamoci che la Cina è e rimarrà il più forte importatore di soia del mondo, mentre l’Europa pesa solo per circa il 10%.

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Quanto è "green" la tua città? Un indicatore per misurarlo

Più di cento anni fa Patrick Geddes, biologo, sociologo e urbanista scozzese, affermò che “La città non è un luogo nello spazio ma un dramma del tempo” (Cities in evolution, 1915). Ai nostri giorni il suo ammonimento sembra purtroppo caduto nel vuoto tanto che dalle megalopoli siamo passati addirittura alla costruzione di mega regioni o super città, e ora molti si chiedono se, dopo la pandemia da coronavirus, la qualità di vita nelle città non subirà un ulteriore peggioramento.
Alcuni però, in controtendenza, sostengono che gli agglomerati urbani offriranno migliori condizioni, una volta che tutto questo stravolgimento delle nostre esistenze sarà finito. Per esempio alcuni Stati, come l’Irlanda, stanno cercando di incentivare lo smart working anche per rivitalizzare i piccoli centri distanti dalle grandi città allo scopo di decongestionarle e limitare gli spostamenti che, ricordiamo, sono la maggior fonte (almeno nei centri abitati) di emissioni di CO2. E per una volta tutti sono finalmente concordi sul fatto che oggi abbiamo bisogno di vere città “verdi”. Era ora. Ma cosa è una città “verde”?
La domanda, apparentemente banale, non ha in realtà una risposta scontata: Edo Ronchi, su questa testata, definì nel 2018 la green city come “un modello di città - sperimentato e affermato a livello europeo e internazionale - che punta sulla elevata qualità ambientale in tutti i suoi principali aspetti, decisivi anche per la qualità dell’aria, non come obiettivi isolati e circoscritti, ma come parti di un ampio disegno di rigenerazione e riqualificazione urbana, con attenzione anche alle implicazioni economiche, occupazionali e sociali”.
Una definizione sicuramente corretta, ma io ritengo che alcuni termini debbano essere meglio definiti: la prima considerazione da fare è che ormai il termine “città” generalmente si riferisce a un’area metropolitana molto ampia. Ad esempio, “Milano” rappresenta la grande area metropolitana che circonda la città, non solo quella compresa nei confini comunali. Lo stesso vale per altri grandi agglomerati nelle diverse parti del mondo, come Chicago, Londra, Tokyo, San Paolo, ecc. Un’area metropolitana è infatti costituita da una zona centrale contenente un consistente nucleo di popolazione e dalle comunità adiacenti che hanno un elevato grado di integrazione economica e sociale con quel nucleo.
Concentrarsi dunque sulle “aree metropolitane” ha oggi molto più senso perché la maggioranza delle persone e dei posti di lavoro si trova lì (oltre il 50% a livello mondiale, 70% in Europa), fuori dal “centro”. Definire e costruire una metropoli “verde” diventa allora un compito molto impegnativo.
Oltre ad avere un’aria più pulita, le città verdi devono stimolare anche “comportamenti verdi” come, ad esempio, l’uso del trasporto pubblico, e il loro impatto ambientale sarà relativamente basso, fino, in alcuni casi, ad arrivare vicino allo zero.
Ma può questa definizione di città verde tradursi in indicatori oggettivi della qualità dell’ambiente urbano? A questo proposito esistono diversi metodi di valutazione.

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I Georgofili inaugurano in streaming il 268° Anno Accademico

Si è svolta questa mattina la cerimonia per l’Inaugurazione del 268° Anno Accademico dei Georgofili, trasmessa in diretta streaming sul sito dell’Accademia.
A causa delle misure per contrastare la diffusione del coronavirus, non è stato possibile, purtroppo, dare il benvenuto ai nuovi Accademici consegnando loro i diplomi, nonché consegnare personalmente ai vincitori i premi Antico Fattore e AgroInnovation Award. Saranno per questo organizzati degli appositi eventi in seguito, quando la situazione pandemica lo permetterà.

Dopo il saluto del Sindaco Dario Nardella, che è stato presente nella sede accademica durante la cerimonia, il Presidente dei Georgofili, Massimo Vincenzini, ha svolto la sua relazione, sottolineando come l’Accademia, durante l’anno trascorso, abbia continuato ininterrottamente la propria attività, nonostante le oggettive difficoltà generate dallo scoppio della pandemia. Sono state infatti tempestivamente adottate tecnologie digitali per svolgere ‘da remoto’ convegni e giornate di studio e sono state organizzate esposizioni virtuali, al posto delle consuete mostre documentarie. Tra le iniziative che hanno caratterizzato la difficile annata, il Prof. Vincenzini ha voluto porre in evidenza quella che nella home page del sito istituzionale compare, fin dall’aprile 2020, sotto una specifica area dal significativo titolo “L’Accademia per il post COVID-19”. Con tale iniziativa, l’Accademia ha inteso avviare uno specifico programma di divulgazione tecnico-scientifica e formazione rivolto primariamente agli agricoltori, fornendo loro strumenti di conoscenza utili per la ripresa socio-economica che dovrebbe dar seguito alla difficile fase pandemica. I numerosi contributi pubblicati (suddivisi nei vari settori agricoli: dalla cerealicoltura alla viticoltura e alla orticoltura, dalla difesa delle piante all'enologia, dalla meccanizzazione alle tecnologie alimentari, ecc.) realizzati con il contributo di oltre 100 autori, hanno dimostrato di avere incontrato l’interesse del mondo agroalimentare, con oltre 30.000 download a fine dicembre 2020. Il Presidente Vincenzini ha sottolineato infine l’evidente ruolo da protagonista delle tecnologie digitali in agricoltura , spiegando che il Consiglio Accademico ha per questo motivo istituito un Comitato Consultivo sulla “Digitalizzazione in agricoltura”, che affiancherà gli altri già esistenti.

La prolusione è stata poi svolta dall’Accademico Emerito Dario Casati sul tema: "Oltre la pandemia, quale futuro per l’agricoltura".

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Preghiere in cucina

In uno dei più celebri ricettari del passato – siamo alla fine del XV secolo - Maestro Martino da Como, nel suo Libro de arte coquinaria in una sua ricetta scrive “fate cocere per spatio de doi paternostri”. L’uso delle preghiere per determinare il tempo di cottura è ancora in voga prima dell’ultima Grande Guerra ...

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La via italiana alla soia sostenibile

Soia sì, ma sostenibile: in Italia, già da anni, la filiera di questa proteoleaginosa, essenziale per il nostro agroalimentare, si è sviluppata con un approccio decisamente “green”, ben prima che si cominciasse a parlare di economia circolare e di impatto ambientale delle coltivazioni. L’intero settore dei semi oleosi ha intrapreso questa strada con grande convinzione ed in modo quasi pioneristico, tracciando così quella che, giustamente, viene definita “la via italiana alla soia sostenibile”.
La scelta si è basata su un dato, troppo spesso sottaciuto dai media e dagli addetti ai lavori: l’Italia è il maggior produttore europeo di soia, con oltre 1 milione di tonnellate di semi all’anno. Tuttavia il primato non la mette al riparo dal problema del deficit proteico, che consiste nell’insufficiente quantitativo di proteine rispetto al fabbisogno del settore agricolo, in particolare della zootecnia, e dell’industria alimentare. La stessa soia italiana riesce a coprire soltanto il 50% della domanda nazionale.
La questione coinvolge tutta l’Europa e, nonostante l’aumento delle superfici, è destinata ad aggravarsi con la crescita della popolazione mondiale, stimata in 8,5 miliardi per il 2030. Di semi di soia non si può fare a meno, poiché hanno un notevole contenuto proteico ed una quota importante di aminoacidi come la lisina. Per tali caratteristiche la farina di soia è considerata dagli addetti ai lavori il legume per eccellenza nell’alimentazione animale. In tal senso, il comparto dei mangimi ha aderito nel 2015 alle Linee guida della UE per garantire l’approvvigionamento sostenibile. Inoltre, i semi di soia sono protagonisti di una riscoperta nell’ambito dell’alimentazione salutistica.
In questo scenario il consumatore esige grande trasparenza e chiede maggiori informazioni sulle materie prime, la loro origine e lavorazione. Guarda con attenzione al regime dietetico e alla sostenibilità dei prodotti, perché il cibo è ormai diventato il “riflesso” della nostra etica personale. Due tendenze che riguardano tutto l’universo dell’agroalimentare ma che, nel settore dei semi oleosi, assumono particolare importanza.

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