Dal 15 gennaio fino al 9 aprile 2021 è aperta la consultazione
pubblica per una “Revisione dei sistemi delle Indicazioni Geografiche
(IG) dell’UE per i prodotti agricoli e alimentari e le bevande”.
Con
i suoi regimi di qualità – indicazione geografica (IG), denominazioni
di origine protette (DOP) , Indicazione Geografica Protetta (IGP) e
Specialità Tradizionali Garantite (STG) – l’Unione europea tutela quasi
3.400 nomi di prodotti specifici, tra prodotti agricoli e alimentari,
prodotti della pesca e dell’acquacoltura e vini. L’obiettivo della
consultazione – spiega la Commissione – è raccogliere opinioni sulle
principali sfide individuate che dovrebbero essere affrontate durante
questa revisione pianificata.
Già nel novembre 2020 il presidente
dell’Accademia dei Georgofili, Massimo Vincenzini, a seguito di un
input giunto dall’Accademico Michele Pasca-Raymondo, Presidente della
Sezione Internazionale di Bruxelles e relativo alla apertura di una
consultazione pubblica da parte della UE sull’argomento IG, aveva
incaricato il Comitato consultivo dei Georgofili sulle Tecnologie
Alimentari di predisporre un documento che riflettesse la posizione
della Accademia sul processo di revisione in corso presso la UE sulle
IG.
Ciò al fine di trasmetterlo in via ufficiale sia alla Commissione
Europea che al MIPAAF, quali Organi competenti nelle future decisioni
finali, in materia.
Il Comitato consultivo di Tecnologie Alimentari
ha di conseguenza subito iniziato la discussione sull’argomento ed in
successive numerose riunioni telematiche, con il costante e fattivo
apporto da parte di tutti membri, ha elaborato il seguente documento
che sostanzialmente riflette la posizione dell’Accademia, unitamente ad
alcuni importanti suggerimenti e indicazioni che, a parere del
Comitato, appaiono di primaria importanza per il nostro Paese e per la
UE.
Sulle pratiche sleali arriva l’intesa tra la Distribuzione moderna (DM) e
il mondo agricolo, dopo quella tra DM e industria del Largo Consumo
(Federalimentare, Centromarca ecc). L’intesa di adesso integra e
completa doverosamente quella dello scorso novembre , perché senza i
produttori non si va da nessuna parte. Giustamente ADM, ANCC-Coop,
ANCD-Conad e Federdistribuzione sottolineano che “bisogna lavorare in
un’ottica di sistema su temi comuni per costruire rapporti di filiera
più trasparenti ed equi, a beneficio dei consumatori”.
Il 6 dicembre 2000 si tenne all'Accademia dei Georgofili in Firenze una
giornata di studio su: "I percorsi verdi" per la riscoperta e la
valorizzazione del territorio rurale. Il tema, per l'Italia, era di
recente introduzione e fui felice (e di questo ringrazio l'Accademia),
insieme agli altri relatori, di aver contribuito a fare un po' di
chiarezza sul significato del termine, le tipologie di percorsi verdi,
le esperienze e le proposte di sviluppo.
Da allora il tema si è
molto sviluppato, così come le iniziative e le realizzazioni di percorsi
in tutta Italia e in Europa, specialmente a livello di recupero di
molti tratti di ferrovie dismesse e di realizzazione lungo le vie
d'acqua.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, nuove entità
fitopatogene si sono diffuse nel nostro Paese in forma epidemica
causando gravi danni a colture importanti. Gli interventi di lotta hanno
consentito a tutt’oggi di contenere i danni ma con esito più o meno
soddisfacente, a seconda dei patogeni coinvolti. Si tratta, in
particolare, del virus della ‘Sharka’ o Vaiolatura delle drupacee (Plum pox virus, PPV), del fitoplasma della Flavescenza dorata della vite (Grapevine flavescence dorèe, GFD) e del batterio Xylella fastidiosa (XF) che ha colpito l’olivo.
PPV è un potyvirus (Potyviridae)
caratterizzato da particelle filamentose, flessuose, lunghe circa 760
nm, trasmesse da afidi in modo non-persistente. Gli afidi che infestano
le drupacee, quali Myzus persicae, Brachycaudus helichrysi, Hyalopterus pruni
ne sono i vettori più efficienti e lo sono anche, più raramente, afidi
parassiti di altre piante. Il virus è comparso all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso nella provincia di Cuneo diffondendosi in
forma epidemica sull’ albicocco, coltivazione allora ampiamente
praticata nella zona di Saluzzo, infettando anche peschi e susini. I
sintomi su albicocco consistono in maculatura anulare ben evidente e
assai tipica (tanto da consentire un primo approccio diagnostico, in
pieno campo), clorotica sulle foglie e necrotica sui frutti che sono poi
soggetti a cascola prima dell’invaiatura. Le perdite di raccolto sono
gravi, molto spesso totali nelle piante giovani e nelle cultivar più
suscettibili.
La presenza di GFD è stata segnalata in Italia già
nell’ultimo dopoguerra ma la sua espansione epidemica è iniziata
dall’Italia nord-orientale negli ultimi decenni del secolo scorso
interessando poi rapidamente tutta la Valle Padana e parte dell’Italia
centrale. Il fitoplasma associato alla malattia appartiene al gruppo
ribosomico 16Sr-V ed è trasmesso dalla cicalina Scaphoideus titanus
in modo persistente-propagativo. La distribuzione territoriale del
patogeno è strettamente legata a quella dell’insetto vettore tanto che
nell’Italia meridionale, dove GFD si riscontra raramente, S.titanus
non è insediato in forma stabile malgrado vi sia stato ritrovato in più
di un’occasione. Le viti colpite presentano vivace colorazione
perinervale o settoriale delle foglie, rossa su vitigni ad uva ‘nera’ e
gialla su quelli ad uva ‘bianca’, cui seguono accartocciamento infero e
ispessimento della lamina, acinellatura, necrosi di foglie, tralci e
frutti, morte. I sintomi, abbastanza tipici nella fase iniziale della
malattia, divengono in seguito confondibili con altri di differente
eziologia, come infezioni da ‘Bois noir’, infestazioni di cicaline,
carenze e squilibri nutrizionali.
Infezioni di X. fastidiosa a
carattere epidemico sono state individuate nel 2013 su piante di olivo
nel Salento, in Puglia. Alcune osservazioni raccolte con le prime
indagini, come la presenza di focolai di infezione distinti,
suggeriscono però che esso fosse già presente da qualche anno. Si tratta
di un batterio Gram-negativo, xilematico, trasmesso da cicaline
Cercopidi dei Generi Phylaenus sp. e Neophylaenus sp. La
trasmissione da parte di questi insetti presenta modalità che richiamano
sia il processo di tipo non-persistente (assenza del periodo di latenza
nel vettore) sia quello di tipo propagativo (moltiplicazione
dell’agente patogeno nel vettore). Di X. fastidiosa sono note diverse ‘varianti’ o ‘subspecie’ tra le quali la ‘pauca’
è quella identificata in Puglia. Le piante di olivo reagiscono
all’infezione con disseccamenti dapprima limitati alla vegetazione più
giovane, poi estesi al resto della chioma determinando la morte di rami,
branche e infine dell’intera pianta. Una volta nota la presenza della
malattia, detti sintomi ne consentono il riconoscimento visivo.
Tuttavia, poiché alterazioni simili possono essere indotte anche da
altre cause (funghi vascolari, danni da agenti atmosferici, ad esempio),
le fasi iniziali di infezione da X. fastidiosa possono anche essere ignorate per un certo tempo favorendo l’insediamento del patogeno.
Dalla più profonda antichità i bambini hanno conosciuto la preparazione
degli alimenti vivendo in cucina, fino a quando non sono arrivati i
fumetti e poi i cartoni animati del cinema e della televisione.
La giornalista freeelance Natalie Berkhout ci informa dalle pagine di
“All About Feed” che negli Stati Uniti è stata inoltrata a chi di
competenza la richiesta per l’approvazione dell’impiego dei semi e
pannelli di Cannabis indica come ingrediente dei mangimi. Una
volta approvata la richiesta, i semi ed i pannelli potranno essere
legalmente usati come mangime commerciale per le galline ovaiole.
Il sapore, i profumi e gli aromi del pane toscano DOP, insieme ad altre
sue peculiari caratteristiche organolettiche, nutrizionali e
salutistiche, potrebbero dipendere in larga misura dalla complessa
struttura delle comunità di microrganismi agenti della fermentazione.
La
DOP, denominazione di origine protetta, è stata conferita al pane
toscano ottenuto mediante l’esclusivo impiego sia di farine di grano
tenero tipo “0”, contenenti il germe di grano e prodotte da varietà di
frumento coltivate, stoccate e molite in Toscana, sia del lievito madre
(o lievito naturale, impasto acido). Tale lievito madre (in inglese
"sourdough”), rappresentato da una porzione di impasto proveniente da
una precedente lavorazione, è in grado di avviare la lievitazione
grazie al complesso sistema biologico costituito da lieviti e batteri
lattici. Diversi studi effettuati in tutto il mondo hanno da tempo
dimostrato che l’utilizzazione del lievito madre conferisce
caratteristiche sensoriali e nutritive uniche al pane, incrementandone
aroma e gusto, migliorandone il volume e la consistenza, prolungando la
sua shelf-life, e aumentando il suo valore nutrizionale e nutraceutico.
In
ogni lievito madre utilizzato per la produzione dei vari pani e
prodotti da forno tipici, tra cui il pane di San Francisco, il pane di
Altamura, il pane toscano, insieme a panettone e pandoro, si sviluppano
popolazioni di microrganismi peculiari, in relazione al processo di
produzione (temperatura, pH, modalità dei rinfreschi), al tipo di
farina utilizzato e alle diverse condizioni ambientali. Per questo ogni
lievito madre è strettamente legato all’area geografica di origine, al
territorio in cui viene prodotto. In generale, i lieviti che più
comunemente sono stati identificati in vari tipi di lievito madre
appartengono alle specie Saccharomyces cerevisiae, Kazachstania exigua, Kazachstania humilis, Yarrowia keelungensis e Torulaspora delbrueckii, mentre i batteri lattici appartengono al genere Lactobacillus, come le specie L. plantarum, L. brevis, L. sanfranciscensis, L. fermentum, L. curvatus e L. sakei.
È importante sottolineare che alcune delle specie di batteri lattici
vivono in una stretta associazione metabolica con particolari specie di
lieviti; per esempio L. sanfranciscensis (così chiamato perché fu
isolato per la prima volta dal pane di San Francisco), che rappresenta
la specie batterica predominante nel lievito madre, fermenta in maniera
molto efficiente il maltosio contenuto nelle farine e si trova spesso in
simbiosi con le specie di lievito incapaci di utilizzare il maltosio,
come K. humilis e K. exigua.
Nella scorsa primavera, con l'attenuarsi delle restrizioni sul
Coronavirus in tutto il mondo, molti di noi si sono riversati nei parchi
per una passeggiata rigenerante, per prendere un po’ d’aria fresca ma,
soprattutto, per riprendere quel contatto, anche solo visivo, con la
natura.
Ritemprarsi nella natura rappresenta una necessità per
«staccare», anche se temporaneamente, dal ritmo e dalle condizioni in
cui conduciamo le nostre vite alle quali gli stili di vita della società
contemporanea impongono ritmi pressanti. Già nel Seicento, il
matematico, fisico, filosofo e teologo francese Pascal (cui è stata
intitolata l’unità di misura della pressione) scriveva: «Quando mi sono
messo talvolta a considerare le diverse agitazioni degli esseri umani e i
pericoli e le pene a cui si espongono (…) ho scoperto che tutta
l’infelicità degli esseri umani deriva da una sola cosa e cioè non saper
restarsene tranquilli in una stanza…». Nel nostro caso potremmo dire
«tranquilli in un parco».
Quante volte abbiamo infatti pensato o
parlato, o udito parlare e letto delle problematiche «urbane» e dei
possibili rimedi ai mali, concludendo, invariabilmente, che essi
rappresentano logiche conseguenze o inevitabili concomitanze di
situazioni da cui, tuttavia, otteniamo molti vantaggi? Quante volte,
dunque, tutto ciò ci è parso praticamente irrimediabile?
Tuttavia,
soprattutto nelle grandi città con periferie trasformate in dormitori
privi di servizi e aree per svago, le condizioni di vita, non solo
socioeconomiche, potrebbero influenzare notevolmente i paesaggi che le
persone trovano durante queste passeggiate, in particolare la quantità
di verde che è probabile che vedano e della quale possono realmente
fruire.
La correlazione tra copertura arborea urbana e reddito è ben
documentata nelle città di tutto il mondo. Questo è spesso il
sottoprodotto della disuguaglianza storica: le decisioni sulle
infrastrutture prese decenni fa, comprese quelle sulla creazione di aree
verdi, hanno beneficiato (ingiustamente) soprattutto i quartieri
ricchi. Ciò continua ad avere un impatto sui servizi forniti oggi ed è
un fattore di «disequità economica e sociale attuale e futura (chiedo
scusa per l’uso di questo neologismo, ma non è lo stesso di
disuguaglianza, spesso usato al suo posto). In questo contesto assumono
rilevanza le «foreste urbane» per i vantaggi che esse forniscono alle
persone, il che significa che la loro presenza o assenza può contribuire
creare effetti diversi in termini di salute, ricchezza e benessere
generale.
Napoleone Bonaparte (1769 – 1821), del quale il 5 maggio 2021 si celebra
i bicentenario della morte celebrata anche da Alessandro Manzoni con Il Cinque maggio, dal celebre inizio Ei fu…
studiato dagli studenti di un tempo, è noto per le sue gesta militari e
per i suoi interventi politici che influenzano gli stili di vita e la
gastronomia, anche se da parte sua, nel periodo nel quale è console
(1804) ama ripetere: Se volete mangiar bene, pranzate con il
secondo Console, se volete mangiare molto, pranzate con il terzo
Console, se volete mangiare in fretta, pranzate con me. Napoleone
non è un buongustaio, ma un commensale sbrigativo, rapido e disattento
che dedica al cibo non più di quindici o venti minuti, preferisce piatti
semplici, non gradisce i lunghi e complessi pranzi alla francese.
Molte autorevoli istituzioni e società scientifiche internazionali e
nazionali, tra cui l’Associazione Italiana delle Società Scientifiche
Agrarie (AISSA), indicano nell’ intensificazione sostenibile una
possibile risposta alle crescenti necessità agroalimentari di una
popolazione mondiale in aumento e all’esigenza di diminuire l’impatto
ambientale delle produzioni agricole e forestali. L’intensificazione
sostenibile ha l’obiettivo di incrementare le produzioni riducendo gli
impatti ambientali dei processi coinvolti, al fine di elevare il livello
di sostenibilità dell’agricoltura ed aiutare da un lato la
sostenibilità economica delle imprese e dall’altro la salvaguardia
dell’ambiente.
Le innovazioni che vengono proposte nei diversi
settori produttivi sono molteplici ed hanno tutte bisogno di
confrontarsi con degli indicatori di sostenibilità semplici e
significativi.
Per quanto riguarda gli indicatori pedologici, la FAO
ha recentemente pubblicato un protocollo di riferimento per il
monitoraggio di alcune qualità del suolo sensibili ai cambiamenti di
gestione (http://www.fao.org/fileadmin/user_upload//GSP/SSM/SSM_Protocol_EN_006.pdf).
Il documento, realizzato con il contributo di molti esperti anche
italiani, prosegue l’impegno della Global Soil Partnership per favorire
la conservazione del suolo e si pone in continuità con le “Linee guida
volontarie sulla gestione sostenibile del suolo”, anch’esse pubblicate
dalla FAO (http://www.fao.org/3/i6874it/I6874IT.pdf).
Il
protocollo costituisce uno strumento pratico e applicativo per valutare
i reali effetti sul suolo degli interventi attuati in campo agricolo
per implementare tecniche di intensificazione sostenibile, come il
miglioramento dei sistemi produttivi, l'innovazione e l’implementazione
di nuove tecnologie, il ripristino degli ecosistemi e il sequestro del
carbonio. In concreto, il protocollo fornisce indicatori chiave e una
serie di strumenti per valutare le funzioni del suolo in base alle sue
proprietà fisiche, chimiche e biologiche. Le variazioni dei valori degli
indicatori dovrebbero consentire un primo giudizio sull’efficacia delle
pratiche introdotte.
Stiamo attraversando un periodo in cui le prospettive si confondono e la
stessa vita quotidiana propone riflessioni su questioni che sembravano
accantonate. Commentando un incontro organizzato dalla Società Agraria
di Lombardia sul tema “Quale agricoltura dopo il coronavirus?” sottolineavo il ruolo che quattro concetti tutti caratterizzati dall’iniziare appunto per “i” –ovvero “impresa”, “innovazione”, “intensificazione sostenibile” ed “informazione”-
avrebbero avuto (o dovuto avere) per assicurare una sollecita ripresa.
Anche più di recente, presentando la ristampa anastatica dello storico
volume “Quaranta quintali di latte per anno e per vacca” le
stesse considerazioni si sono presentate con una aggiunta. Ovvero che vi
è un pericolo da cui dobbiamo guardarci, se vogliamo davvero
riconquistare la normalità, le prospettive di sviluppo e le stesse
libertà fondamentali, rappresentato da un altro concetto che inizia per
“i”: l’ideologia, che coi suoi pregiudizi, con le sue affermazioni
apodittiche, coi suoi “voli pindarici” e con le sue elucubrazioni spesso
avulse dalla realtà e contrarie al buonsenso rischia di determinare
guasti anche peggiori e più duraturi di quelli procurati dalle
avversità.
Il pericolo rappresentato dalle derive ideologiche,
antiscientifiche, tecnofobiche e persino “pauperistiche” incombe da
tempo sul futuro e sull’esistenza stessa della nostra agricoltura. La
delicatissima fase politica che stiamo attraversando, con la
concomitanza di numerosi processi decisionali (dalla definizione della
Politica Agricola Comunitaria per i prossimi anni, alla sua declinazione
a livello nazionale con il PSN, passando per le applicazioni normative
derivanti da discusse e discutibili indicazioni “strategiche”, come
quelle contenute nella comunicazione “Farm to Fork”) rendono
particolarmente insidioso il rischio che l’ideologia prevalga e si
imponga laddove servirebbero serietà, razionalità, competenza e
pragmatismo.
Le dinamiche che caratterizzano il quadro di politica
agraria italiana (al quale la parziale “rinazionalizzazione” delle
politiche europee delega importanti momenti decisionali) portano alla
nostra attenzione le vicende legate alla formazione del nuovo governo,
tra cui si segnalano l’istituzione di un non meglio definito “ministero
per la transizione ecologica” e l’assegnazione al sen. Patuanelli della
poltrona di titolare del MIPAAF.
In una tomba egiziana di circa quattromila anni fa vi è un’immagine che
gli egittologi interpretano come la pasta sia prodotta impastando la
farina con i piedi. Circa millecinquecento anni dopo gli Egiziani “lavorano la pasta con i piedi, l’argilla con le mani” afferma
lo storico greco Erodoto (484 a. C. – 420 circa a. C.) nelle sue Storie
(II, 36) che raccolgono digressioni su costumi dei popoli molto
interessanti da un punto di vista antropologico e tra queste quella
sull’Egitto a lui contemporaneo che per estensione e quantità di
dettagli costituisce quasi un libro a parte.
La consuetudine egiziana di lavorare la pasta di farina con i piedi è
molto antica e presente nell’Egitto del Medio Regno (2055 a. C. – 1790
a. C.) come dimostra una delle immagini che decorano la tomba di
Antefoker visir durante il regno del re Amenemhat I e del suo successore
Sesostri I della XII dinastia, che organizza una spedizione verso il
Paese di Punt e che ha un concreto ruolo nelle campagne militari di
riconquista della Nubia (Davies N., Gardiner A. H. – The Tomb of Antefoker – Egypt Exploration Society, London, G. Allen and Unwi, 1929).
Sull’onda del cosiddetto “green new deal” si moltiplicano le iniziative
per piantare alberi nelle nostre città, contornate da grande seguito
mediatico.
Sia chiaro, il verde è importante, specie se arboreo, e
contribuisce certamente alla cattura delle polveri sottili e al
raffrescamento durante i periodi più caldi, oltre ad apportare indubbi
benefici di tipo psicologico e ricreativo.
Ma non è altrettanto evidente che sia sufficiente la messa a dimora di un albero per rendere piacevole un luogo.
Una delle più gravi minacce che il mondo del vino sta subendo, a livello
internazionale, è il potere crescente della lobby anti-alcol, che non
distingue tra il vino e le altre bevande alcoliche e che considera
il vino solo come fonte di alcol e quindi dannoso per la salute umana,
indipendentemente dalla dose. Anche l’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS) ha da tempo in agenda il discorso relativo all’alcol che
assieme al tabacco è nella lista dei composti associati alle malattie
non trasmissibili e che indica anche alcune strategie da adottare per
prevenire quelle malattie, come ad esempio l’aumento della
tassazione, restrizioni alla vendita, divieto di pubblicità. Ci sono
però altre voci, positive per il vino, che provengono sia dal mondo
scientifico che dalla società, come ad esempio quella dell’associazione
Wine in Moderation che lancia un messaggio molto semplice: l’abuso di
alcol è dannoso per la salute umana, ma un consumo moderato e
consapevole di vino (per una persona sana) è positivo sia per il corpo
che per la mente. Anche l’Unione Europea ha nel mirino il vino, oggetto
di attenzione per quanto riguarda l’indicazione degli ingredienti in
etichetta, prodromo, secondo alcuni (ex il CEEV – Comité Européen des
Enterprises Vins) di possibili azioni ostili come gli health-warnings,
similmente a quelli a carico delle sigarette. Il già citato CEEV cerca
di reagire a questi attacchi, ma per arginare il problema è necessario
che si crei un ambiente, un modo di pensare favorevole al consumo
consapevole di vino, che questo cioè diventi conventional wisdom;
bisogna riuscire a dimostrare cioè che un mondo senza vino (come
vorrebbero taluni) sarebbe peggiore di un mondo col vino. Penso che ci
siano due strategie principali per raggiungere quell’obiettivo: la
prima è enfatizzare il ruolo culturale del vino, visto che condivide la
storia di una parte dell’umanità da millenni e che è fortemente
radicato nel vissuto di molte nazioni. Il vino è un prodotto
affascinante, non solo per l’aspetto edonistico del sorseggiarne un
calice, ma anche per gli aspetti immateriali e le emozioni che suscita
in chi lo degusta; è ricco di significati a volte contraddittori tra
loro, come scienza ed arte, storia e leggenda, sacro e profano. Gli
aspetti salutistici sono importanti, ma da considerarsi come effetti
collaterali positivi e non come motivo principale per il suo consumo.
Chi può avere dunque il coraggio di combattere un prodotto culturale?
La seconda è di connotare il vino come campione della sostenibilità, e
qui c’è ancora molto da fare, ma è uno stimolo per accelerare questo
percorso virtuoso (della sostenibilità).
Il numero 27 (5) – 2020 della rivista Global Change Biology
(Wiley) pubblica un "opinion paper" firmato da Lorenzo Genesio
(IBE-CNR), Roberto Bassi (Univ.Verona) e Franco Miglietta (Accademia dei
Georgofili e IBE-CNR) dal titolo “Plants with less chlorophyll: A
global change perspective”.
L'articolo discute di un tema nuovo ma
che è già molto discusso in ambito accademico: nuove piante a basso
contenuto di clorofilla (pale-green) possono diventare uno strumento per
coniugare produzioni agricole e azioni di mitigazione del cambiamento
climatico. Il ragionamento è paradossalmente semplice anche se non del
tutto intuitivo. Si gioca su due fronti: le piante-pallide riflettono di
più la luce solare e possono, se sono ben costruite, contribuire ad
aumentare le rese colturali.
Ma andiamo con ordine.
Superfici più riflettenti per ridurre il riscaldamento globale
Tutti
sappiamo che l'energia primaria di cui dispone il nostro pianeta arriva
con la luce del sole. Ma non è altrettanto chiaro a tutti che la
temperatura media alla superficie della terra dipende da un complesso
bilancio fra la quota di energia che viene riflessa dal nostro pianeta e
quella che, una volta assorbita, viene riemessa sotto forma di calore.
Calore che poi resta in parte “intrappolato” dai cosiddetti gas ad
effetto serra nell’atmosfera. Per capire questo “bilancio energetico”
basta rifarsi alla nostra esperienza diretta: quando indossiamo abiti
scuri sotto il sole estivo soffriamo molto più il caldo di quando invece
indossiamo abiti più chiari. Ciò che i nostri occhi percepiscono come
“colore scuro” altro non è che il risultato di un maggior assorbimento
della luce da parte dei pigmenti che colorano l'abito che indossiamo. Il
colore chiaro si ottiene invece quando molta luce è riflessa. E così
come fa un abito scuro le piante con molta clorofilla assorbono molta
energia luminosa, ne convertono solo una piccola frazione in zuccheri
attraverso la fotosintesi e riemettono il resto come calore. Le piante a
basso contenuto di clorofilla (che abbiamo già sopranominato “pallide”)
riflettono invece una frazione più elevata di radiazione solare, ne
assorbono meno e di conseguenza emettono meno calore.
E da qui prende
le mosse l’idea discussa nell’Opinion paper: se coltivassimo specie più
“riflettenti” potremmo contrastare, pur solo in parte, l’effetto
globale di riscaldamento dovuto all’aumento dell’effetto serra.
Il 26 gennaio 2021 si è tenuto l'evento online intitolato "Le resistenze
agli erbicidi nelle risaie" in cui è stato presentato il progetto
Epiresistenze. L'incontro ha permesso di far luce su questo nuovo
meccanismo di resistenza e sulla sua importanza per l'efficace gestione
delle malerbe nei campi di riso.
L’analisi della Coldiretti fatta sulla base dei dati Inail ha
evidenziato che, su base annua, gli infortuni sul lavoro in agricoltura
denunciati nel 2020 (26.287), sono diminuiti del 19,6% rispetto al 2019
(32.692). Si tratta cioè di una riduzione di ben 6.405 infortuni mai
registrata in maniera così rilevante negli anni passati. Infatti, negli
ultimi dieci anni, le variazioni massime registrate sono state
dell’ordine del 3,5%. Significativo e in controtendenza rispetto agli
altri comparti è stato il calo degli infortuni mortali che, su base
annua, si è ridotto di 38 unità passando da 151 a 113 infortuni
(riduzione del 25%). Anche in questo caso una riduzione mai registrata
in modo così rilevante.
I risultati di questa analisi sono di buon
auspicio in quanto segnalano un calo infortunistico nettamente superiore
rispetto al trend degli ultimi anni. Tuttavia, su circa un milione di
occupati nel settore agricolo, 26.287 denunce di infortunio e 113
denunce di infortuni mortali, a cui vanno aggiunte circa 12.000 denunce
di malattie professionali, sono dati ancora troppo elevati. Inoltre il
risultato di un solo anno non consente di considerare l’entità di questa
riduzione come una tendenza destinata a mantenersi nel futuro. Le
ragioni del calo infortunistico infatti possono essere diverse: può
avere influito una maggiore prevenzione, come pure un miglioramento
delle pratiche colturali e un ammodernamento delle attrezzature, ma
certamente non va dimenticato che l’attività produttiva del 2020 è stata
pesantemente condizionata dal Covid-19, pur tenendo presente che le
denunce di infortunio da Covid-19 registrate dall’Inail nel 2020 non
hanno superato lo 0,3% dei contagi.