Nelle celebrazioni del bicentenario della morte di Napoleone Bonaparte non può mancare il Duca di Wellington, che con i suoi stivali è arrivato anche in cucina.
Un indicatore specifico del nostro benessere è la quantità di stress subìto dall’essere umano, stress che a sua volta è indicatore del livello di attivazione sia fisica che mentale nei confronti delle situazioni in cui l’essere umano vive. In alcuni casi lo Stress può assumere un carattere positivo, ma quando la sua attivazione diventa cronica, questa incide negativamente sulla qualità della vita e favorisce l’insorgenza e il mantenimento di numerose patologie (es. cardio-vascolari, gastro-intestinali, psicologiche). Lo stress non è legato solamente con una serie di eventi personali, ma è soprattutto correlato al modo in cui si vivono questi specifici eventi e di conseguenza alle reazioni che noi stessi mettiamo in atto per contrastarli.
I fattori di stress che potrebbero incidere sul benessere sono lo stress acustico, lo stress termico, lo stress nutrizionale, lo stress psicologico, lo stress olfattivo etc.
L’uso delle farine proteiche derivate dagli insetti in alimentazione animale è argomento di crescente interesse in quanto, grazie al loro elevato tenore di proteine (variabile in funzione della specie considerata e del processo produttivo applicato) e buon apporto di amino acidi essenziali, rappresentano possibili alternative alle proteine convenzionali. Oltre al contributo proteico, le farine di insetto sono fonti di lipidi, vitamine e minerali. Recentemente, grande interesse è suscitato dai composti bioattivi che posso essere apportati attraverso l’uso dei prodotti derivati dagli insetti o direttamente estratti da essi. Tali composti (chitina, specifici acidi grassi quali l’acido laurico e peptidi antimicrobici) sembrano in grado di stimolare il sistema immunitario, di modulare positivamente il microbiota e di avere un’azione antimicrobica.
La produzione di insetti, se realizzata utilizzando alimenti non diversamente valorizzati, è anche caratterizzata da elevata sostenibilità in quanto gli insetti sono capaci di applicare al massimo il principio di economia circolare. Essi infatti convertono in modo molto efficiente biomasse di scarto di basso valore nutritivo in prodotti ad elevato valore aggiunto (proteine, lipidi, composti bioattivi).
Le ricerche svolte sinora sull'utilizzo di prodotti derivati da insetti nell’alimentazione delle specie di interesse zootecnico si sono concentrate principalmente su specie ittiche ed avicole, mentre i dati sulla loro introduzione nelle diete per altre specie animali, come suini e conigli, sono ancora limitati. I risultati sono molto promettenti e mostrano come, avendo cura di bilanciare le diete e di coprire i fabbisogni nutrizionali degli animali, i parametri produttivi e di salute degli animali sono confrontabili a quelli ottenuti utilizzando diete di riferimento.
Tra tutte le specie di insetti che sono state valutate per la produzione di prodotti ad uso zootecnico, alcune risultano più promettenti per via della loro facilità di allevamento massale, la completa gestione del ciclo produttivo e per la possibilità di essere allevate su scarti organici. In particolare, le specie maggiormente studiate per l’alimentazione animale risultano essere la mosca soldato (Hermetia illucens), la tarma della farina (Tenebrio molitor) e la mosca comune (Musca domestica).
Recentemente ha fatto molto scalpore una notizia riportata da diversi organi di comunicazione secondo la quale l’Unione Europea vorrebbe proporre l’allargamento delle tipologie di vini su cui concedere la possibilità della dealcolizzazione, ammettendo anche che nell’operazione possa essere aggiunta dell’acqua. C’è stata, ovviamente, una levata di scudi da parte del mondo enologico italiano, difensore da sempre dei valori legati alla tradizione e alla territorialità dei prodotti. Come spesso accade un approfondimento e qualche riflessione possono aiutare a inquadrare meglio la questione, senza che semplificazioni eccessive facciano apparire la Comunità Europea come fautrice di pratiche per ingannare i consumatori. Occorre anche evitare di dichiararci contrari, a prescindere, a pratiche che invece, con approcci adeguati, potrebbero essere ragionevoli e vantaggiose.
La dealcolizzazione è stata ammessa dall’OIV (Organization International de la Vigne et du Vin) tra le pratiche correttive con una risoluzione del 2012 (OIV-OENO 394A-2012), che la descrive come un “procedimento che consiste nel sottrarre una parte o la quasi totalità dell’etanolo contenuto nel vino”, con l’obiettivo di ottenere prodotti di origine vitivinicola a ridotto o basso contenuto alcolico. Dietro questa apertura c’era la necessità di assecondare il mercato dei prodotti dealcolati, che interessa alcuni paesi per ragioni culturali o religiose, ma anche la necessità di tener conto di una tendenza all’aumento del grado alcolico dei vini. Tale fenomeno è dovuto a diversi fattori tra cui le pratiche agronomiche volte ad aumentare la concentrazione di metaboliti secondari nelle uve (polifenoli, sostanze caratterizzanti l’aroma varietale), la selezione del materiale di propagazione che privilegia cloni poco produttivi per migliorare la qualità, in ultimo, ma non meno importante, il cambiamento climatico che ha visto negli anni recenti estati molto calde, che favoriscono la concertazione degli zuccheri, oltre che degli altri componenti. I produttori manifestano preoccupazione non solo perché il titolo alcolometrico elevato può rappresentare un freno al consumo, ma anche perché crescono i pericoli di arresti di fermentazione o di fermentazioni anomale che portano a vini difettosi o alterati. Il tema è quindi molto sentito e le soluzioni da proporre non sono facili. Incrementare la produzione per pianta o sfavorire una ottimale maturazione non appaiono soluzioni ragionevoli, perché porterebbero a vini meno equilibrati e riconoscibili, ai quali i consumatori non sono più interessati.
L’abbassamento del tenore zuccherino di partenza o la parziale sottrazione di alcol dal vino sono quindi argomenti che possono essere di interesse anche per vini espressione del territorio, quindi anche per DOP o IGP.
Lo scorso 20 maggio 2021, il Senato della Repubblica ha approvato quasi
all'unanimità il disegno di legge sull'agricoltura biologica, DDL 988,
con 195 voti a favore, uno contrario ed un astenuto. Il testo è quindi
tornato alla Camera per la terza lettura, avendo Palazzo Madama
introdotto modifiche a quello licenziato da Montecitorio in prima
lettura.
L'unico punto che ha diviso l'Aula del Senato è stata
l'equiparazione, prevista dal testo, dell'agricoltura biodinamica a
quella biologica. La Senatrice a vita Elena Cattaneo ha presentato due
emendamenti, poi bocciati, per espungere tale equiparazione, definendo
l'agricoltura biodinamica "una pratica esoterica e stregonesca" priva di
basi scientifiche. La Senatrice Cattaneo ha poi votato contro il DDL.
Anche la Senatrice Elena Fattori (Leu) ha espresso le stesse critiche,
astenendosi però nel voto finale. Contro l'agricoltura biodinamica si è
anche espresso il gruppo di Fratelli d’Italia, che ha comunque votato a
favore del disegno di legge, valutandone la positività nel suo insieme.
Chiusa la discussione generale sul disegno di legge, il Relatore
Senatore Mino Taricco ha fornito ulteriori precisazioni “proprio alla
luce delle dichiarazioni della Senatrice Cattaneo”, e l’esito del voto
dell’Aula è stato quello già descritto.
L’approvazione del testo
finale è stata seguita da numerose dichiarazioni ufficiali: decisamente
positive quelle rese dalle diverse organizzazioni di produttori
agricoli, fortemente critiche quelle manifestate da parte di una
moltitudine di scienziati appartenenti a varie discipline scientifiche e
aderenti a varie associazioni.
Probabilmente, le forti critiche al
DDL mosse da numerosi scienziati non sarebbero sorte se il DDL avesse
fatto riferimento esclusivo all'agricoltura biologica, senza alcuna
equiparazione con altri metodi di produzione. Invece, l'art.1 comma 3,
così recita:
"3. Ai fini della presente legge, i metodi di
produzione basati su preparati e specifici disciplinari applicati nel
rispetto delle disposizioni dei regolamenti dell'Unione europea e delle
norme nazionali in materia di agricoltura biologica sono equiparati al
metodo di agricoltura biologica. Sono a tal fine equiparati il metodo
dell'agricoltura biodinamica ed i metodi che, avendone fatta richiesta
secondo le procedure fissate dal Ministro delle politiche agricole
alimentari e forestali con apposito decreto, prevedano il rispetto delle
disposizioni di cui al primo periodo."
L'intero comma non
entusiasma per la pesante burocratizzazione della forma di agricoltura
detta "biologica" -espressione non perfetta sul piano
tecnico-scientifico, anche se ormai in uso comune-, ma si tratta di una
normativa diretta a un modo di fare agricoltura che non confligge con i
principi scientifici sui quali si basa -e si è basata- l'agricoltura
moderna.
Il caso dell'agricoltura biodinamica è assai diverso: i suoi tradizionali presupposti non appartengono al pensiero scientifico e alcuni prodotti, che ancora oggi vengono consigliati agli agricoltori desiderosi di immettere sul mercato alimenti biodinamici, sono ottenuti con procedure che contrastano con le basi scientifiche consolidate. L’agricoltura biodinamica ha le sue origini nelle teorie sviluppate da Rudolf Joseph Lorenz Steiner, un teosofo esoterista austriaco nato nel 1861, quando in Biologia era ancora imperante la teoria della “generazione spontanea”, contro cui si sono impegnati, con esperimenti dai risultati inoppugnabili, due illustri scienziati italiani quali Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani, rimasti purtroppo inascoltati, perché alcune credenze popolari, specialmente quelle convintamente abbracciate su base fideistica, sono difficili da estirpare, anche se poste di fronte alle più solide evidenze scientifiche.
Da Georgofilo e uomo di scienza, quindi, provo un grande disagio nel dover prendere atto che un disegno di legge del nostro Parlamento, nel 2021, tratti di equiparazioni assolutamente insostenibili sul piano scientifico e che sembrano riportarci indietro di secoli.
Gli animali, noi compresi, sono continuamente bersagliati da agenti
patogeni di natura batterica, virale, protozoica. Il sistema naturale di
difesa è costituito dal sistema immunitario, che reagisce con
meccanismi molto complessi ma che, sostanzialmente, consistono nel
riconoscimento del patogeno e nella produzione di strutture di difesa,
del tipo cellule specifiche e anticorpi. Se gli attacchi dei patogeni
si attuano a livello intestinale, si altera la composizione di quella
che una volta si chiamava impropriamente “microflora intestinale” e che
oggi si indica con il termine più appropriato di “microbiota”, che
comprende batteri, archea, funghi, virus e protozoi. Con il termine,
invece, di “microbioma” si intende l’insieme del patrimonio genetico
della micropopolazione, responsabile delle interazioni fra microrganismi
e con l’intestino dell’animale ospite.
Il ferro (Fe) è un elemento essenziale per la crescita di quasi tutti i
microrganismi viventi perché agisce da catalizzatore nei processi
enzimatici, nel metabolismo dell'ossigeno, nel trasferimento di
elettroni e nelle sintesi di DNA e RNA (Aguado-Santacruz et al., 2012).
A
causa della sua bassa biodisponibilità nell’ambiente, i microrganismi
hanno sviluppato strategie di assorbimento specifiche per catturare il
metallo, che dipendono dalla sua disponibilità, dalla sua natura e dal
suo grado di ossidazione. Uno dei meccanismi utilizzato, in particolare
dai batteri, per l’assorbimento del ferro è la produzione di siderofori
(dal greco pherein e sideros, che significa "trasportare il ferro").
Dal confronto di due rilievi aerofotogrammetrici effettuati a 25 anni di
distanza (1990.-2015) in una valle dell’Appennino Ligure Piemontese
emerge che in tale breve periodo ben il 37 % della SAU è stato
abbandonato. Si tratta di un dato dirompente e preoccupante sia per
l’assetto socioeconomico della valle considerata, sia per le conseguenze
che tale abbandono comporta anche sui territori a valle.
Ma ancor
più preoccupante è il fatto che oltre il 50 % del territorio italiano si
trova in condizioni simili, o peggiori. La valle in oggetto, Val
Borbera, è logisticamente ben collocata, sulla direttrice Genova Milano e
con un casello autostradale e uno snodo ferroviario in fondo valle. Si
trova, quindi, in una situazione di vantaggio rispetto a numerose aeree
interne dell’Appennino, e delle Alpi. Ciononostante, il decremento
demografico è tragico con ovvie pesanti conseguenze su agricoltura e
ambiente, paesaggi degradati, boschi abbandonati che, inoltre, perdono
buona parte della loro funzione di carbon sink.
Un territorio
abbandonato e disordinato diventa poco appetibile sia per i residenti,
sia per i proprietari di seconde case, sia per turisti, frenando così
ogni attività economica alternativa al sistema primario e penalizzando
anche il sistema primario medesimo e, quindi, accelerando lo
spopolamento. Ma anche il sistema primario sopravvissuto, che della
frequentazione turistica potrebbe avvantaggiarsi con la vendita di
prodotti locali, soffre, perde ogni convenienza economica e le valli, i
territori marginali in genere, sono destinati a deantropizzarsi con
conseguenze nefaste.
Questi lunghi e numerosi mesi di limitazioni
indotte dal Covid, hanno fatto riscoprire le aree marginali, quantomeno
quelle più vicine ai centri urbani, ove si nota una interessante
frequentazione di ciclisti e randonneurs. Prima che riprendano le
vecchie abitudini delle vacanze esotiche, sarebbe buona cosa cercare di
stabilizzare, o meglio incrementare il fenomeno attraendolo con alcune
infrastrutture, piste ciclabili, sentieri attrezzati e segnalati, ma
soprattutto con un territorio ben curato dalle attività agroforestali e
in grado di offrire prodotti locali enogastronomici e artigianali
interessanti.
Inquinamento urbano da animali e viene subito in mente la defecazione
dei cani sui marciapiedi o il guano degli storni, ma il problema è più
ampio e complesso. Il concetto d’inquinamento urbano non è nuovo anche
se in questi ultimi decenni divenuto oggetto di particolare attenzione
in conseguenza di problemi emergenti o divenuti meglio conosciuti anche
per il perfezionamento delle metodiche di analisi che hanno individuati
nuovi tipi d’inquinamento.
Leggendo i titoli dei giornali italiani nei giorni scorsi non può essere sfuggita la notizia della volontà – in alcuni casi riportata quasi come un’imposizione – della Comunità Europea di autorizzare l’aggiunta di acqua e la dealcolazione parziale e totale dei vini. Ma le cose non stanno esattamente così.
È il momento di riflettere sugli obiettivi della “transizione
ecologica”. La cronaca politica ci ha abituati ormai ad un generale
apprezzamento delle azioni politiche sviluppate in Europa dal governo
Draghi. In particolare, il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” per
l’ambiente – PNRR recepito a Bruxelles dal “Recovery Fund”, permetterà
all’Italia di ricevere straordinarie risorse finanziare per raggiungere
gli obiettivi fissati: abbattere del 55% le emissioni di CO2 entro il
2030 ed azzerarle entro il 2050. Un primo interrogativo lo pongono i
tempi: la realizzazione del Piano prospetta un arco trentennale di
interventi, mentre le prime severe verifiche della Commissione Europea
scatteranno nel primo quinquennio, con scadenze che saranno trimestrali!
Questo
PNRR suscita molte preoccupazioni perché, come vedremo, “trascura”
l’agricoltura e l’importanza che questa dovrebbe avere nelle
trasformazioni da mettere in atto. Il nostro sistema produttivo
agroalimentare è accusato, ingiustamente, dagli ambientalisti più
accesi, nella fattispecie il WWF, di essere la principale causa di
emissioni di CO2; ma questo non è vero, come si può dimostrare;
l’agricoltura è consapevole delle responsabilità di operare entro
parametri ecosostenibili e per questo da tempo ha imboccato la via di
una graduale “transizione ecologica” (la stessa definizione delle
competenze assegnate al neo Ministro Roberto Cingolani).
Questa
strategia dovrebbe essere ora parte fondante del Piano governativo, ma
la sua attuazione passerà attraverso interventi settoriali che si
prospettano disorganici, divergenti, in gran parte da definire e quindi
ancora suscettibili di discussione e modifiche. Infatti, i fondi
disponibili (86 miliardi di euro) potranno essere investiti solo in
energie rinnovabili, per far raggiungere al paese, nel corso di un
decennio, una potenza di 70 gigawatt, derivata essenzialmente da solare
ed eolico. Con i ritmi di crescita attuali (incremento annuo di circa
0,8 gigawatt) saremo dunque ben lontani dal centrare l’obiettivo. È ben
vero che disponiamo di una rete di pannelli fotovoltaici e solari già
ampiamente disseminati dal Nord al Sud (tetti di abitazioni, centri
industriali, coperture di superfici di suolo, caseggiati rurali, stalle,
magazzini, ecc.) che hanno finora goduto di varie forme contributive. A
questo va aggiunta l’energia verde ricavata dal biometano, pure in
espansione con significativi impianti industriali operanti in varie
regioni.
Dobbiamo chiederci se l’Italia e la nostra agricoltura
sapranno cogliere appieno l’opportunità del Piano e mettere in campo gli
asset già esistenti e le sue potenzialità, salvo altrimenti esserne
penalizzati, se non esclusi. Potremo anzitutto far valere l’enorme
contributo alla lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico dato
dalle risorse agroforestali distribuite su oltre un terzo della
superficie del paese (fissazione della CO2 ed emissione di O2).
Il Parlamento europeo, nella sessione plenaria dello scorso 29 aprile,
ha definitivamente approvato la mozione con la quale chiede alla
Commissione Europea di predisporre una direttiva specifica per la
protezione del suolo e della sua biodiversità (660 votanti: 605 sì, 55
no, 41 astenuti). Si tratta di un passo fondamentale per raggiungere
l’obiettivo di avere una legislazione unica di riferimento per il suolo.
Già nel 2006 la Commissione europea aveva proposto un quadro giuridico
per la protezione del suolo, che fu però ritirato nel 2014 dopo otto
anni di blocco da parte di una minoranza di Stati membri in seno al
Consiglio. Questa volta le cose potrebbero andare meglio. Infatti, la
Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha fatto della
difesa dell’ambiente uno dei suoi caratteri distintivi, e principio
guida delle scelte di politica economica.
Il documento pubblicato sul sito https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0143_IT.html
sottolinea che il suolo è un ecosistema essenziale, complesso,
multifunzionale e vitale, di importanza cruciale sotto il profilo
ambientale e socioeconomico, che svolge molte funzioni chiave e fornisce
servizi vitali per l'esistenza umana e la sopravvivenza degli
ecosistemi, tra cui la conservazione della biodiversità. I suoli inoltre
influiscono sulla bellezza dei nostri paesaggi europei, al pari delle
foreste, dei litorali e delle zone montane.
Nel documento si afferma
che un quadro giuridico europeo di protezione del suolo è necessario in
quanto le misure di protezione sul suolo attualmente in vigore sono
frammentate tra molti strumenti strategici privi di coordinamento e
spesso non vincolanti; le misure nazionali esistenti si sono rivelate di
per sé insufficienti, tanto che si assiste ad una diffusione
progressiva di varie forme di degradazione del suolo. Le stesse
politiche settoriali vigenti, ad esempio la politica agricola comune
(PAC), non contribuiscono in modo efficace alla protezione del suolo;
infatti, sebbene la maggior parte delle terre coltivate sia compresa nel
regime previsto dalla PAC, in media meno di un quarto di esse applica
effettive misure per la protezione del suolo dall'erosione. In
considerazione dell’interesse pubblico nell’incoraggiare chi utilizza i
terreni a gestire il suolo in modo sostenibile per le generazioni
future, si consiglia di prevedere ulteriori incentivi finanziari e
misure di sostegno a favore dei proprietari di terreni per proteggere il
suolo.
Excursus storico sulle false etimologie che associano il maiale alla sporcizia
L’ozono è la forma triatomica dell’ossigeno e viene prodotto
artificialmente tramite appositi generatori. È considerato uno dei più
antichi disinfettanti conosciuti. Si tratta di un gas con la
caratteristica di essere un potente ossidante e che può essere
utilizzato nella sua forma gassosa pura oppure disciolto nell’acqua. In
forma di gas, l’ozono è facilmente utilizzabile nel contesto della lotta
alla pandemia dove la ricerca di soluzioni anti-virali per gli ambienti
è fortemente consigliata. Si rendono però necessarie alcune regole
fondamentali per garantire la sicurezza degli utenti del servizio e una
piena efficacia del trattamento.
È triste parlare di “moda” in riferimento ad alimenti nobili quali il
latte dei ruminanti ed i prodotti lavorati che ne derivano, frutto di
culture millenarie, radicate nelle tradizioni un po’ di tutti i popoli
della terra. Ma, tant’è, purtroppo.
Nei Paesi più ricchi stiamo
assistendo ad un continuo declino economico dell’industria
lattiero-casearia, tanto che molti produttori, anche grandi, stanno
rischiando la bancarotta. Negli Stati Uniti, nel corso del 2020,
qualcosa come 67.000 aziende zootecniche a conduzione familiare hanno
chiuso l’attività. Tutto ciò perché nell’opinione pubblica ha fatto e
sta facendo sempre più breccia la convinzione che “vegetale” è bello,
mentre tutto ciò che ha a che fare con gli allevamenti animali è
colpevole di tutte le nefandezze del mondo, a cominciare dal
riscaldamento globale, per finire con le pandemie.
Sugli scaffali dei
supermercati possiamo ormai trovare molti prodotti etichettati con la
dicitura “latte”, di soia, di mandorle, di anacardi, di avena, di
nocciole, insieme ad altri prodotti lavorati come yogurt, formaggi,
creme, burri vegani. Fra gli altri, da segnalare, lo yogurt di soia
fermentata al gusto di limone “Sojade So Soja” in Belgio, il cappuccino
con latte di mandorle da consumare con ghiaccio (!) in Australia, la
bibita “Alpro Barista Oat Drink” a base di latte d’avena in Bulgaria, il
gelato di ceci “Sweetpea” negli Stati Uniti, il burro vegano garantito
“biologico” in Canada, il latte di avena della ditta Yeo dsi Singapore,
ed altre amenità.
Sul finire dell’anno scorso, il Parlamento Europeo
ha votato l’Emendamento 171, meglio conosciuto come “Dairy Ban”, che
vieta l’uso di etichette ingannevoli di prodotti alternativi che imitano
le etichette di latte e derivati da latte di ruminanti.
Nel 4° numero di aprile della rivista “L’Enologo”, lo stimato e caro
amico Cesare Intrieri ha esposto con squisita e puntuale precisione
quasi tutti i temi che riguardano la straordinaria opportunità che sta
vivendo la viticoltura italiana. Nell’ultima decina di anni si è visto
un crescendo di registrazioni di varietà resistenti sia straniere sia
realizzate in Italia. L’ultimo anno altre 10 varietà si sono aggiunte,
tra queste le prime di San Michele all’Adige, con incroci che non sono
figli di vitigni internazionali bensì autoctoni, tipici della regione
Trentina. Tutto ciò rappresenta la punta di un iceberg; altre iniziative
importanti stanno procedendo con un crescente interesse del mondo
produttivo e l'ottenimento di questa numerosa ed interessante quantità
di materiale innovativo, oltre che resistente, non potrà che far bene
alla viticoltura nazionale, aprendo ad opportunità fino ad oggi
impensabili. Innanzi tutto, è pian piano scemato l’ostracismo
parzialmente giustificato dai fallimenti del secolo scorso. Molti
esperti del settore, a partire dall’autorevole amico e collega che ha
stimolato questo mio scritto, hanno oramai accolto questa attività come
una grande opportunità. Mi permetto però di andare un pochino oltre,
approfittando proprio di questo avvicinamento tra diverse opinioni
oramai separate solo da dei distinguo veramente sottili, tuttavia a mio
parere determinanti per il successo o il fallimento di queste nuove
varietà. La critica che permane è soprattutto dovuta alla presenza di
DNA di specie selvatiche donatrici delle resistenze, e, soprattutto,
quanto ancora può pesare sulla qualità del prodotto. Qui però viene in
aiuto la scienza, e la tecnologia di oggi, che con la metabolomica può
identificare un rilevante numero di metaboliti determinanti la qualità
ed i profili dei nuovi vitigni resistenti. L’opportunità offerta dai
vitigni resistenti “moderni” è fortemente legata a queste nuove
competenze che molto possono aiutare nel definire la qualità, oltre che
se buona o cattiva, anche quanto simile e quanto divergente dai due
genitori di partenza.
Questa breve premessa per arrivare a chiedersi
quanto espresso nel titolo, che vuole andare oltre “all’ancor timido”
sostegno che traspare nelle parole del collega. Siamo tutti d’accordo
che nuovi vitigni resistenti costituiscano una valida alternativa, anzi
forse l’unica alternativa in certi ambienti non adatti al biologico, e
considerarli una opportunità è un passo avanti importante. Ma a mio
parere il mondo scientifico ha delle responsabilità maggiori e
soprattutto decisive in questo contesto. Due sono senz’altro i nostri
doveri di scienziati; uno è di tipo enologico, ovvero affinare le
competenze di vinificazione di questi prodotti, mentre il secondo è più
“filosofico” in un certo senso: siccome le competenze scientifiche
possono fare la differenza nel successo o nel fallimento di queste
varietà resistenti di nuova generazione, non possiamo avere un ruolo
asettico e equidistante, bensì esprimere in modo convincente e
responsabile che questa è la strada.
Il 22 Aprile 2021, in occasione della Giornata Mondiale della Terra, si è
svolta una giornata di studio on line finalizzata alla raccolta di idee
e progetti per la realizzazione di “Un patto per l’Arno”, il Contratto
di Fiume che abbraccia l’intera asta fluviale del grande corso d’acqua
toscano, organizzata da Autorità di Bacino dell’Appennino
Settentrionale, ANBI e ANCI Toscana e dai Consorzi di Bonifica 2 Alto
Valdarno, 3 Medio Valdarno e 4 Basso Valdarno.
La giornata che è
stata preceduta, fra l’altro, da “Tavoli di lavoro” in cui si sono
affrontate tutte le tematiche inerenti il fiume quali: protezione
civile, manutenzione e riqualificazione partecipata dei territori
fluviali, ambiente, volontariato, ricerca, processi di governance per la
riduzione dei rischi ambientali, energie rinnovabili, acqua e
agricoltura, turismo, navigabilità, pesca, canottaggio e ciclovie,
recupero delle plastiche e tutela degli ecosistemi fluviali.
Fra
queste tematiche si è dato quindi, fra l’altro, ampio spazio al ruolo
dell’agricoltura che deve essere sempre più incisivo. È stato
sottolineato che le imprese agricole possono dare un contributo
essenziale alle politiche di tutela dell’acqua e del suo uso ed è stato
auspicato un rafforzamento della collaborazione con i Consorzi di
Bonifica.
Queste tematiche sono sempre state tenute nella massima considerazione
dall’Accademia dei Georgofili: si ricorda, infatti, che proprio nel
Dicembre scorso si è svolta una giornata di studio, in collaborazione
con ANBI, su “L’acqua da risorsa a calamità” in cui si è ampiamente
dibattuto questi temi e i cui atti sono pubblicati e consultabili sul
sito dell’Accademia (www.georgofili.it).
È
ormai noto che, con i cambiamenti climatici in atto, fra l’altro, è
cambiata molto la variabilità delle precipitazioni tanto che se da un
lato tendono a intensificarsi e a distribuirsi su un numero minore di
giorni, dall’altro sono in aumento le serie siccitose con risultati che
mostrano impatti diversi da zona a zona.
In conseguenza di ciò l’erosione del suolo, con la conseguente perdita
di qualità fisiche ed idrologiche, è destinata ad esacerbare il rischio
idrogeologico, con conseguenze per ora non adeguatamente considerate
dalla legislazione italiana ed europea.
1.- L’art.13 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell'Unione europea): animali esseri senzienti
Il tema del benessere animale
negli ultimi anni ha trovato spazio crescente nelle riflessioni su temi
e questioni, che in varia misura si collocano all’interno del diritto
agrario e del diritto alimentare.
La disposizione legislativa alla
quale si fa comunemente riferimento è quella introdotta dal Trattato di
Lisbona e contenuta nell’art. 13 del TFUE, nell’ambito delle
“Disposizioni di Applicazione Generale”, ove solennemente si afferma: “l’Unione
e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia
di benessere degli animali in quanto esseri senzienti”.
Va detto
che disposizioni legate al rispetto degli animali, intese ad evitare o
comunque ridurre sofferenze, erano presenti nella legislazione nazionale
ed europea ben prima del Trattato di Lisbona.
Quanto alla
legislazione nazionale, numerosi provvedimenti sin dai primi decenni del
‘900 hanno introdotto regole in tema di caccia, vivisezione,
macellazione, che compongono un risalente disegno legislativo, inteso ad
“evitare all’animale, anche quando questi debba essere sacrificato per
un ragionevole motivo, inutili crudeltà e ingiustificate sofferenze” (come ha sottolineato di recente la Corte di Cassazione).
Quanto
alla legislazione europea, già dagli anni ’70 alcune direttive hanno
vietato la macellazione senza previo stordimento, ed hanno introdotto
misure di protezione degli uccelli selvatici, degli animali da
allevamento e di quelli utilizzati a fini scientifici e sperimentali.
Un elemento comune caratterizza questo complesso di risalenti disposizioni, nazionali ed europee: il benessere animale non era individuato come fine in sé, oggetto di autonoma considerazione, ma come oggetto regolato in ragione di altre finalità (dalla realizzazione del mercato interno, alla tutela della concorrenza e dell’ambiente, alla PAC).
Lo stesso Regolamento (CE) n. 178/2002, conosciuto come General Food Law, menziona sia il benessere dei cittadini che il benessere animale,
ma si occupa del secondo soltanto in funzione della tutela della vita e
salute umana, con una formula che assegna alla salute e al benessere
animale rilievo solo eventuale. Ne risulta una prospettiva incentrata
sui soli interessi umani, che appare ancor più singolare ove si
consideri che il Reg. (CE) n. 178/2002 costituisce la risposta organica e
di sistema ad una crisi, quella della BSE del 1996-97, che ha
certamente cagionato perdite di vite umane, ma che ancor prima ha
colpito in modo terribile la salute ed il benessere dei bovini.
Il
Trattato di Lisbona, con l’introduzione del richiamato art. 13 del TFUE,
ha modificato questo risalente paradigma, segnando con ciò una prima
tappa di un percorso, complesso, controverso, e non concluso, che sta
conoscendo significativi elementi di novità con il contributo di una
pluralità di law makers, giudici e legislatori.