In questi primi caldi giorni della tarda primavera del 2022, la notizia di una perdurante, ormai quadriennale, invasione di cavallette nel centro della Sardegna rimbalza tra diversi, lontani e talvolta “insospettabili” mezzi d’informazione. Dalla media valle del Tirso, l’area più colpita dell’isola, giungono immagini e filmati impressionanti. Niente di nuovo in realtà, gli annali registrano “orde” di questi insetti dai tempi più remoti. “Con una periodicità assolutamente irregolare, ad intervalli di lustri, la specie [Dociostaurus maroccanus, il cosiddetto Grillastro crociato] si moltiplica in misura straordinaria e le orde di saltellanti e volanti voracissimi ortotteri invadono non soltanto i prati e i dossi dove sono nati ma anche le zone coltivate contermini migrando su vasti fronti in varie direzioni ed interessando superfici estesissime, costituendo fonti di perdite economiche ingenti e assillo di popolazioni e di autorità, sino a diventare problemi nazionali inquietanti, onerosi e complessi.” [Athos Goidanich, Enciclopedia Agraria Italiana: intorno al 1960].
Nella Lectio Magistralis dell’inaugurazione su “Il paradigma della produttività in agricoltura e il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca”, il professor Dario Frisio ha sottolineato che per fare fronte alla crescente domanda alimentare, nell’impossibilità di mettere a coltura nuove terre, se non disboscando, sia indispensabile ricorrere all’intensificazione produttiva attraverso il ricorso alle più moderne tecnologie, da quelle dell’agricoltura di precisione alle Tecniche di Evoluzione Assistita per il miglioramento genetico.
In un articolo apparso su “La Repubblica” il 30 aprile u.s., si affermava che l’1% delle imprese agricole sfrutta il 70% della superficie coltivabile. Nell’articolo veniva citato un rapporto dell’ONU secondo il quale l'80% delle aziende agricole nel mondo lavora su microappezzamenti che non superano i 2 ettari. L’articolo in questione sottolineava anche che la proprietà in poche mani però non sta portando a un utilizzo razionale delle risorse del pianeta Terra.
La Commissione europea ha definito per l’Unione un piano d’azione per l’agricoltura biologica attraverso cui, nell’ambito della strategia Farm to Fork del Green Deal, dovrà essere raggiunto l’obiettivo del 25% dei terreni agricoli coltivati con il sistema biologico entro il 2030, contemporaneamente ad un aumento significativo dell’acquacoltura biologica; in tale ambito l’azione 14 del piano è volta ad incoraggiare gli Stati membri a sostenere lo sviluppo dei “Bio-Distretti”.
Cosa si intende per Bio-Distretto? Un Bio-Distretto è un’area geografica in cui agricoltori, cittadini, operatori turistici, associazioni ed Enti pubblici stipulano un accordo per la gestione sostenibile delle risorse locali, basata sulla produzione e il consumo di prodotti biologici (filiera corta, gruppi di acquisto, mense biologiche negli uffici pubblici e nelle scuole). Nei Bio-Distretti, la promozione del prodotto biologico è indissolubilmente legata alla valorizzazione del territorio e delle sue peculiarità affinché possa esserne realizzato tutto il potenziale economico, sociale e culturale.
Secondo la mappa dei bio-distretti europei, creata e recentemente aggiornata da IN.N.E.R.- International Network of Eco-Regions -, in Italia i distretti biologici sono attualmente 42 (di cui alcuni in via di costituzione). L’ultimo realizzato in ordine di tempo (dicembre 2021) è il Distretto Biologico della Regione Marche, creato dall’amministrazione regionale e che coinvolge tutto il territorio marchigiano
La loro creazione si è dimostrata efficace nell’integrare l’agricoltura biologica e le attività locali, per migliorare il turismo locale anche nelle aree a minor vocazione turistica, a rafforzare la lavorazione locale dei prodotti, favorire il mantenimento e l’incremento di realtà produttive e di trasformazione anche di piccola dimensione economica, promuovere circuiti commerciali corti e la vitalità rurale, concorrere ad evitare lo spopolamento delle campagne, con influenze positive sullo stile di vita, sull’alimentazione, sull’uomo e sulla natura, con grande apprezzamento da parte dei consumatori, dare un’identità specifica a un’area geografica.
È di tutta evidenza l’attrattiva che può avere un territorio in grado di presentarsi come “pulito” e in grado di offrire produzione agroalimentari tipiche, non rinvenibili altrove, produzioni che sono in grado di associare alla qualità organolettica l’immagine di una alimentazione più sana.
La creazione e promozione dei distretti biologici è sostenuta dal ‘Fondo per l’agricoltura biologica’, una legge del 2019 che finanzia misure per favorire forme di produzione agricola a ridotto impatto ambientale. Il Fondo ha avuto una dotazione di 5 milioni di euro annui a partire dal 2020, a cui si sono aggiunti ulteriori 15 milioni con un accantonamento aggiuntivo nel 2021. Il 30% delle risorse finanziarie del Fondo è dedicato ai bio-distretti, e il Ministero delle Politiche Agricole (Mipaaf) sta ora attuando le procedure per l’emanazione dei bandi pubblici per l’assegnazione dei fondi previsti.
E’ molto importante, per la loro realizzazione ed il loro successo, il ruolo delle amministrazioni locali che, attraverso le loro scelte, sono in grado di influenzare le abitudini dei consumatori e dei mercati locali.
Questa non è la prima volta che i cipressi di Bolgheri si ammalano. Qual è la causa e come si manifesta la malattia?
Va ricordato in primo luogo che in questo caso non si tratta di una malattia, come ad esempio per le infezioni del Cancro del Cipresso il cui agente patogeno è un fungo, ma bensì degli attacchi di un Insetto l’Afide del Cipresso. Detto questo si evidenzia che gli arrossamenti e disseccamenti di porzioni di chioma sono determinati da incrementi improvvisi delle popolazioni dell’Afide le cui popolazioni possono in breve tempo aumentare in modo esplosivo in quanto una sola femmina può dare origine in un anno a 2 milioni di miliardi di Afidi capaci di occupare 6 miliardi di m2 ovvero una superficie di 60.000 ha, pari a circa 6 volte l’intero Comune di Firenze che complessivamente occupa poco più di 10.000 ha.
Quali sono i rimedi possibili? E' davvero necessario abbattere e rimuovere le piante malate, danneggiando un paesaggio famoso nel mondo?
Anche nel caso di infestazioni anche gravi di Afide del Cipresso, con estesi disseccamenti di porzioni delle chiome della Conifera, di norma non è saggio procedere subito con abbattimenti in quanto solo in limitate occasioni gli attacchi di questo Insetto compromettono del tutto la vitalità delle piante colpite. Può essere invece utile come prima cosa l’immediato lavaggio delle chiome con acqua addizionata di saponi per ripulirle dalle fumaggini che si sviluppano sulla melata prodotta dall’Afide e ricoprono le parti verdi ostacolando respirazione e fotosintesi.
Gli interventi necessari sono molto costosi? E' possibile prevenire questa avversità prima di doverla curare con interventi drastici?
Come spesso succede anche in altri settori prevenire è sempre meglio che intervenire tardivamente, quando ormai anche i non specialisti possono rendersi conto dei danni guardando i cipressi con chiome più o meno arrossate a chiazze. Quello che è importante sottolineare è che sarebbe necessario un monitoraggio periodico, condotto annualmente da personale addestrato e competente, per rilevare lo sviluppo delle popolazioni di Afide del Cipresso e la loro entrata in fase di supermoltiplicazione: questo permetterebbe di fare per tempo interventi mirati di costo contenuto, con prodotti a basso impatto ambientale, prima del verificarsi di danni gravi, salvaguardando in modo corretto ed efficace questo patrimonio naturale e storico.
Sedici anni dopo la messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale in Europa, l’argomento continua ad essere globalmente attuale. L’uso troppo “disinvolto” di queste sostanze come promotori di crescita ha causato il deleterio fenomeno della resistenza microbica agli antibiotici (AMR), con la conseguenza che molti microrganismi patogeni, anche per l’uomo, sono divenuti resistenti alle terapie antimicrobiche.
Nel marzo del 1922 San Donà di Piave ospitò un congresso che rappresentò l’inizio di una ampia riflessione sul ruolo della bonifica in Italia. Nel giro di alcuni anni la legislazione italiana si evolse arrivando all’adozione del Regio Decreto n. 215 del 13 febbraio 1933, noto come “legge Serpieri” che introduceva nell’ordinamento italiano il concetto di bonifica integrale e dava un ruolo fondamentale per i Consorzi di bonifica.
Dottor Liberatore, ci può raccontare innanzitutto brevemente come è nata Valoritalia?
Valoritalia è stata costituita nel 2009 su iniziativa di Federdoc, la federazione nazionale dei consorzi di tutela vitivinicoli, e di CSQA uno dei più importanti organismi di certificazione in ambito agroalimentare in Italia, attiva prevalentemente in settori diversi dal vino. Il know how dei consorzi, insieme all’expertise di CSQA ci hanno permesso di diventare in pochi anni la società di certificazione leader nel settore enologico. Oggi certifichiamo i vini di 216 denominazioni di origine italiane che nel loro insieme danno vita a una produzione annua a 1,7 miliardi di bottiglie, pari a circa il 60% di tutta la produzione italiana dei vini di qualità e con un fatturato di 9,4 miliardi di euro. Siamo certi che il modello di certificazione italiano, soprattutto nell’ambito vitivinicolo, sia quello che garantisce meglio il consumatore e le aziende. La certezza di rappresentare un esempio per gli altri Paesi ci sta facendo riflettere da tempo su un possibile salto nel panorama internazionale. Per perseguire questa finalità, contiamo sul supporto di , DNV AL, uno degli organismi di controllo più importanti al mondo, con sedi in tutti i continenti e quartier generale in Norvegia, che da due anni è entrato nella nostra compagine societaria.
Il nostro percorso di crescita è solo all’inizio!
Dottor Costantini, il recente rapporto Onu “Global Land Outlook 2” sull’uso del suolo, lancia un chiaro allarme e sottolinea il ruolo, tutt’altro che positivo, del sistema della produzione alimentare sul degrado delle terre. Ad oggi, l’uomo avrebbe alterato il 70% del suolo su cui ha messo piede e ne avrebbe degradato fino al 40%, in tanti modi: la deforestazione, l’agricoltura intensiva, gli incendi, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico del suolo, le guerre, la costruzione di infrastrutture. Siamo veramente a un punto di non ritorno?
Certamente se facciamo una valutazione globale e facciamo riferimento alla fertilità e allo stato di salute dei suoli coltivati in riferimento alle condizioni naturali, non antropizzate, la situazione è allarmante. Le attività dell’uomo hanno interessato circa il 40% della superficie terrestre e quasi il 92% delle praterie/steppe naturali è stato destinato all'uso umano, compresi i pascoli e i terreni coltivati. Attualmente si hanno 1.426 milioni di ha di terreno coltivato, 165 di colture permanenti e 3.275 di pascoli e pascoli. Solo per avere un’idea, si stima che con la messa a coltura delle praterie naturali si sia perso circa il 40% della loro dotazione di carbonio organico, elemento essenziale della fertilità del suolo.
Però vorrei ricordare che il processo di degradazione della fertilità naturale del suolo è complesso e va inquadrato in un contesto storico e geografico. Vi sono marcate differenze tra le aree del mondo da più tempo coltivate e quelle che solo più di recente sono state messe a coltura. Nelle terre di più antica coltivazione, in particolare, l’impatto dell’uomo sul suolo non è stato uniforme nel tempo e nello spazio, ma ha visto fasi di intensa degradazione alternate a fasi di recupero e anche di miglioramento della fertilità. La prima crisi ambientale si è avuta con l’avvento dell’era dei metalli, circa 5000 anni fa. Con l’aiuto dei metalli l’uomo ha compiuto estesi disboscamenti per la messa a coltura di suoli anche molto fragili. L’avvento dei metalli ha anche aumentato la diffusione degli incendi e delle guerre, con le conseguenti ampie devastazioni. Ne sono conseguiti intensi fenomeni di erosione idrica, ma anche eolica, aggravati in concomitanza di periodi o eventi climatici aridi. Intere civiltà sono scomparse, come l’impero accadico in Medio Oriente. Testimonianze di tali processi di erosione e deposizione di coltri eoliche sono diffuse e documentate anche in Italia. L’agricoltore però ha reagito. L’inizio della diffusione dei terrazzamenti in tutto il mondo si è avuta proprio in quel periodo storico, come risposta alle evidenti perdite di suolo e di fertilità dei campi coltivati in pendio.
Fasi alternate di degradazione e di recupero di fertilità del suolo si sono avute anche successivamente, in particolare in epoca classica, nel medioevo, e intorno al piccolo glaciale (1600-1800) nell’emisfero boreale. Il recupero di fertilità è stato ottenuto attraverso tutta una serie di pratiche agronomiche che, come è noto, anche studiosi dell’Accademia dei Georgofili hanno contribuito a diffondere, non solo in Italia.
La situazione è profondamente cambiata a partire dalla metà del secolo scorso, con la diffusione di una agricoltura sempre più impattante sul suolo, basata sull’uso di macchinari sempre più pesanti, sull’introduzione di sistemi colturali sempre più intensivi, basati su poche specie e varietà coltivate, spesso accompagnati dall’abuso di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi e su un eccessivo ricorso all’irrigazione, non di rado con uso di acque salmastre. L’impatto di questo modello di sfruttamento intensivo del suolo è stato ed è particolarmente grave nei suoli di limitata fertilità naturale, con conseguenze ambientali, economiche e sociali, anche gravissime. La degradazione più grave porta alla desertificazione, che purtroppo si sta diffondendo particolarmente proprio nelle aree di più recente messa a coltura, a causa dell’uso sconsiderato (o disperato) dei suoli più fragili. Adesso ci troviamo quindi in un’altra fase cruciale, dove c’è bisogno di una reazione collettiva e di un cambiamento di modello di riferimento.
L’obiettivo della sicurezza alimentare, necessaria per la salute dell’uomo grazie a diete corrette per quantità e qualità, implica la presenza di alimenti di origine animale (AOA), ma non può prescindere dall’impatto ambientale di questi ultimi; di qui l’approccio One Health che integra le esigenze di salute del pianeta, con quella degli animali (e piante), entrambe importanti per garantire la salute degli uomini. Tuttavia, per evitare false interpretazioni, è anzitutto necessario correggere talune informazioni assai diffuse e non sempre del tutto corrette.
Tra le drupacee, il ciliegio è la specie che da più lungo tempo gode di un positivo trend di crescita in tutti i continenti. Le principali ragioni di un tale successo sono due: la diffusione delle cultivar autofertili, più costantemente produttive delle vecchie cultivar autoincompatibili e i nuovi portinnesti nanizzanti che hanno consentito una sensibile riduzione dei costi di produzione. Molte sono le istituzioni e i privati impegnati nell’ attività di miglioramento genetico sia delle varietà che dei portinnesti, ma il maggior merito di questa rivoluzione colturale va a due istituzioni: la Stazione Sperimentale di Summerland in British Columbia (Canada) per le cultivar autofertili e l’Università Justus Liebig di Giessen in Germania per i portinnesti. Il primo programma è legato a Karlis O. Lapins, il secondo a Werner Gruppe e Hanna Schmidt.
La storia di Lapins è piuttosto singolare e merita di essere raccontata: è nato in Lettonia nel 1909 dove ha studiato agricoltura presso la locale Università; durante la seconda guerra mondiale ha vissuto 4 anni come rifugiato in Germania e alla fine della guerra emigrò in Canada dove ha lavorato come operaio agricolo presso la Stazione Sperimentale di Summerland e poi come tecnico presso l’Associazione Frutticoltori della British Columbia. Ha infine conseguito il Master Degree presso l’Università di Vancouver e, nel 1953, è stato assunto dalla Stazione Sperimentale di Summerland come breeder, dedicandosi, in particolare, al miglioramento genetico del ciliegio dolce. Al tempo tutte le varietà di ciliegio coltivate erano autoincompatibili che, per fruttificare, hanno necessità di impollinazione incrociata e, pertanto, la consociazione di due o tre cultivar interfertili. Presso il John Innes Institute di Norwich (UK), all’inizio degli anni ’50, dall’incrocio Emperor Francis x polline irraggiato di Napoleon era stata ottenuta la selezione autofertile JI2420, di nessun valore colturale ma portatrice del carattere prezioso dell’autofertilità. Lapins ne intuì il grande valore per il suo programma di breeding e, nel 1956, la incrociò con Lambert introducendo, nel 1968, la prima cultivar commerciale autofertile cui diede il nome di Stella.
Il programma di Summerland è stato per molti anni il più importante a livello mondiale e ha dato cultivar di grande valore come Celeste, Samba, Cristalina, Sunburst, Sweetheart, Skeena, Canada Giant, Lapins e tante altre, diffuse nei cinque continenti e ben note ai cerasicoltori italiani. La cv Lapins, dall’incrocio Van x Stella e selezionata da Lapins prima del pensionamento, ma introdotta come cultivar successivamente, gli è stata dedicata su proposta unanime dei cerasicoltori canadesi, riconoscenti per il contributo dato dal dr. Lapins all’economia agricola del territorio. Il merito di Lapins va, comunque, ben aldilà delle cultivar da lui costituite; le sue varietà, Stella in primo luogo, sono le progenitrici di tutti gli attuali programmi di miglioramento genetico nel mondo. Tra questi, si distingue quello dell’Università di Bologna, nella persona di Silviero Sansavini con la collaborazione di Stefano Lugli, che già alla fine degli anni ’80 aveva iniziato una collaborazione con Summerland avviando un proprio programma di miglioramento genetico per la costituzione di varietà autofertili, selezionate per le condizioni ambientali e commerciali del nostro Paese. Le prime cultivar autofertili di Bologna della serie Star (Blaze Star, Early Star, Lala Star) sono state introdotte nel 1997; successivamente è stata introdotta la serie Sweet (Sweet Early, Sweet Aryana, Sweet Dave, Sweet Gabriel, ...). Le cv di Sansavini e Lugli sono oggi coltivate in tutto il mondo e sono un vanto della ricerca italiana.
Professore Ferrini, Firenze è stata recentemente selezionata dalla Ue per l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2030, Lei invece con il suo dipartimento universitario collabora al progetto Prato Forest City, per la forestazione urbano della città, ed ha più volte sostenuto nei suoi libri e in molti articoli il bisogno del verde in città: come pensa che sia possibile attuare questa “rivoluzione verde”?
Occorre partire dalla constatazione che le nostre città, pur essendo i motori della crescita economica, propulsori di idee e centri nevralgici di creatività e di innovazione tecnologica, sono purtroppo spesso caotiche, inquinate, rumorose e fonte di stress. C’è bisogno di riprendere un contatto con la natura che purtroppo il gigantismo delle realtà metropolitane ha fatto perdere, in Italia e anche all’estero.
C’è necessità di trovare aree verdi che consentano una rigenerazione a livello psico-fisico. Il verde aiuta ad accrescere non solo il benessere ambientale, ma anche quello sociale. Per questo esprimo la necessità di un’autentica rivoluzione verde. Essa deve partire dall’incremento della copertura arborea delle nostre città che, purtroppo, attualmente è molto al di sotto del “minimo sindacale” non solo in molte grandi città ma anche, soprattutto, nelle realtà medie e piccole – anche per la loro conformazione storica - dove la cementificazione e il consumo di suolo hanno allontanato il cosiddetto territorio aperto, dove è presente l’elemento naturale.
Dobbiamo creare città più verdi, ambienti concreti dove è possibile vivere bene. Quindi occorre partire dalla misurazione della copertura arborea, comprendere dove sono più sensibili le carenze di aree verdi, di alberi e da lì intervenire per creare le condizioni su misura dal punto di vista ambientale.
La data del 9 maggio, passaggio evocativo in cui la Russia ricorda con accentuata enfasi la fine della “Grande guerra patriottica” che per tutti è la seconda guerra mondiale, è superata. Ma il conflitto fra Russia e Ucraina prosegue il suo drammatico corso senza lasciar intravedere soluzioni possibili a una guerra in gran parte inedita e imprevedibile sviluppata su tre fronti: quello militare convenzionale con il suo corredo di morte e distruzione, quello economico fatto di sanzioni e ritorsioni, quello mediatico costituito da una serie infinita di notizie, vere o costruite ad arte. Queste hanno l’intento di agire spregiudicatamente tramite i mezzi di informazione sulle popolazioni coinvolte e sull’opinione pubblica mondiale. Rispetto ai conflitti del Novecento ed a quelli minori di questo secolo il peso del “fronte” convenzionale, pur determinante, è inferiore a quello degli altri due più che in passato. La temuta soglia dell’estensione della guerra guerreggiata al mondo intero non è stata oltrepassata, anche se incombe sul contesto.
La scelta dei Paesi Occidentali di sostenere con lo strumento delle sanzioni economiche l’Ucraina ha assunto un rilievo che è ancora da valutare. Il ricorso ad esso non è una novità ed ha precedenti storici noti avendo colpito, ad esempio, anche l’Italia negli anni ’30 del Novecento. Di recente è divenuto tipico delle guerre commerciali, come nell’ultimo decennio dopo la fase dello sviluppo della globalizzazione e della multilateralità delle trattative e delle regole che ne scaturivano. Nel contesto Gatt/Wto l’imposizione di sanzioni si accompagna a quella di ritorsioni ed entrambe sono sottoposte, o dovrebbero esserlo, a procedura di composizione del conflitto ed alla riduzione/eliminazione delle misure adottate.
L’uso attuale a fini bellici apre una pagina nuova ancora tutta da scrivere, ma con ricadute estremamente serie, anche se talvolta paradossali, come nel caso delle materie prime energetiche in cui, pur combattendo aspramente, le parti continuano a scambiare merci e a corrispondere pagamenti.
Gli echi degli orrori della guerra ci rattristano, ci preoccupano notevolmente e ci fanno pensare e riflettere. Oltre ad essere coinvolto emotivamente come tutti, avverto anche un senso di frustrazione nella veste di un vecchio ricercatore che si è sempre occupato di agricoltura, o meglio di valorizzazione della risorsa suolo al fine di essere utilizzato secondo la sua vocazionalità per ottenere prodotti e, quindi, cibo di ottima qualità. All’improvviso si è scoperto una nuova emergenza e cioè che non abbiamo
più materie prime per la nostra alimentazione, come il grano perché, a
causa della guerra, ci manca quello importato da Russia e Ucraina. Ci
sarebbe anche da riflettere su tutte quelle pubblicità che ci inondavano
sui mas media circa le qualità di pasta e pane prodotti con grani e
farine al 100% italiane; ci sarebbero gli estremi per stabilire se si
trattava di pubblicità ingannevole? Ma tanto nel bel Paese non paga
nessuno!
Il CL.USTER N.AZIONALE A.GRIFOOD ha elaborato e presentato a Parma il 5 maggio scorso durante lo svolgimento di CIBUS, il position paper per la Crescita Economica e Sostenibile del settore Agroalimentare italiano basato su ricerca e innovazione, inquadrando quattro trend tecnologici progettuali, su cui si sono raccolte manifestazioni di interesse di grande imprese, PMI e associazioni agricole e industriali.
Lunedì 4 aprile 2022, è stata pubblicata l’ultima parte del “VI Rapporto di valutazione dell’IPCC” (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico). Il verdetto è drammatico: se la civiltà umana non modifica radicalmente il rapporto con la natura, di qui alla fine del secolo, il riscaldamento globale potrebbe arrivare a sfondare quota 3 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali, aprendo scenari catastrofici. In altre parole, il futuro è già qui: occorre pensare la fine. Cosa significa? Significa, innanzitutto, riconoscere che eventi, un tempo remoti e poco probabili, sono ora un orizzonte vicino e definito; sappiamo cosa ci riserva un futuro ormai alle porte. Le avvisaglie sono già incontrovertibili: intere zone del mondo flagellate da siccità e desertificazione senza precedenti, estinzione di massa negli oceani (l’aumento della temperatura, la diminuzione dell’ossigeno e l’inquinamento da plastica stanno già provocando danni a vongole, gamberetti, alle barriere coralline ed a numerosi pesci), molte popolazioni che vivono in condizioni di grave siccità idrica, fenomeni meteorologici sempre più erratici e imprevedibili, 700 milioni di persone che rischiano entro i prossimi cinque anni di dover abbandonare i luoghi in cui vivono (profughi climatici).
Il paradosso dell’agricoltura
L’agricoltura contribuisce al cambiamento climatico ma, a sua volta, ne subisce gli effetti; essa deve quindi affrontare una doppia sfida: ridurre le emissioni di gas che alterano il clima (mitigazione) e, contemporaneamente, adattarsi alle nuove condizioni climatiche (resilienza).
Per ridurre l’impatto sull’ambiente è necessario un radicale cambiamento dei modelli di agricoltura fin qui perseguiti: oggi, produrre significa impiegare meno suolo, meno presidi chimici, minori emissioni di CO2 nell’aria, ottenere alimenti salubri ricercati da un consumatore sempre più attento.
Produrre cibo salvaguardando al contempo l’ambiente
L’agricoltura, perciò, al pari di altre attività, deve contribuire alla riduzione del livello complessivo delle emissioni e può farlo sia in modo diretto, che indiretto. Nel primo caso, utilizzando con criteri più razionali i mezzi tecnici (combustibili, lubrificanti, concimi, fertilizzanti, fitofarmaci), nel secondo caso, sfruttando le prerogative delle piante verdi di sottrarre CO2 dall’atmosfera e trasformarla, mediante fotosintesi, in biomasse vegetali, che vengono trasferite (totalmente o in parte) al terreno (“sequestro” del carbonio). Perciò, la riduzione del global warming operata dall’agricoltura si attua anche attraverso rimboschimento, ripristino delle terre degradate, aumento dell’accumulo di carbonio nel suolo, riciclo e valorizzazione dei rifiuti per la produzione di energie rinnovabili; ovvero, attraverso modelli colturali sostenibili in grado di valorizzare le interazioni biologiche tra tutte le componenti degli agro-ecosistemi e ridurre gli sprechi, secondo i principi dell’economia circolare (compostaggio dei rifiuti organici, trattamento controllato delle acque di scarico, riciclo dei rifiuti).
L’accrescimento radicale è condizionato dalla disponibilità di carboidrati e dalla produzione di bioregolatori endogeni provenienti dalla porzione epigea. Un’eccessiva crescita della parte aerea, rispetto all’apparato radicale, genera un aumento di auxine, le quali vengono trasferite per via floematica alle radici dove indurranno una risposta, attraverso un maggior sviluppo delle radici, per compensare le esigenze vegetative della pianta. All’opposto, un eccessivo sviluppo dell’apparato radicale, rispetto alla parte aerea, provoca un aumento di citochinine che verranno trasferite per via xilematica alla parte aerea, determinando così un maggiore sviluppo vegetativo e una crescita delle gemme laterali, che consentiranno di “smaltire” l’eccesso delle risorse assorbite per via radicale.
Superata ed in buona parte abbandonata la fase delle tecniche chimiche, oggi sono le tecniche fisiche che hanno maggiore successo, anche per la loro sicurezza e versatilità e tra queste ultime le tecniche pressorie, positive (iperpressioni) e negative (vuoto più o meno spinto), stanno avendo un gran successo. In una rassegna sulle nuove frontiere dell’Europa, la prestigiosa rivista Time (ottobre 2006, pag. 56 – 57) ha dedicato ampio spazio alla cosiddetta “cucina del vuoto” o, meglio, “cucina a basse pressioni” o “cucina delle ipopressioni” e su questa cucina esiste ora una buona bibliografia anche con ricette.
Nella sfida ai cambiamenti climatici emergono le potenzialità di specie minori, sottoutilizzate rispetto ad altre, ma particolarmente interessanti per caratteristiche di rusticità, resistenza alla siccità e quindi capaci di valorizzare le aree meridionali dell’Italia. In che senso il carrubo fa parte di queste piante?
Il carrubo rappresenta un fruttifero minore che sta facendo registrare negli ultimi anni un rinnovato interesse per l’utilizzo dei prodotti derivati dal seme nell’industria agroalimentare. Inoltre riscuote crescente interesse per le caratteristiche di resistenza e adattamento a condizioni pedoclimatiche marginali. La specie, sebbene sia una leguminosa, non è in grado di fissare l’azoto atmosferico come erroneamente ritenuto in passato ma manifesta livelli molto elevati di utilizzo dell’azoto grazie all’elevato tasso di fotosintesi a carico delle foglie più giovani. Anche con riferimento all’utilizzo dell’acqua, il carrubo si caratterizza per una fisiologia contrassegnata da meccanismi di adattamento agli stress idrici sia attraverso la riduzione delle richieste evapotraspirative che per le caratteristiche dell’apparato radicale. Questo, anche a causa della propagazione per seme, tipica della specie, è in grado di esplorare il suolo in profondità e, pertanto, di ricercare acqua anche in strati meno superficiali.
Professore Pulina, innanzitutto congratulazioni per la sua recente nomina tra i 1000 Top Animal Scientist del mondo. E' un importante riconoscimento che conferisce autorevolezza al suo lavoro e in particolare all'Associazione Carni Sostenibili, di cui è Presidente, che ha tra gli obiettivi primari quello di fornire informazioni attendibili ed equilibrate su salute, alimentazione e sostenibilità.
Grazie, ma non sono solo. Per fortuna una folta pattuglia di scienziati dei settori zootecnico e veterinario è stata inclusa in questa graduatoria (25 in totale) e ben 63 animal scientist sono stati inclusi nel top 2% del ranking compilato dal database dell'Esevier pubblicato nell'ottobre 2021. Molti di questi Colleghi sono Georgofili, a conferma della qualità scientifica degli Accademici.
Come riporta il sito di Carini Sostenibili (https://www.carnisostenibili.it/), secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio permanente Censis-Ital Communications sulle Agenzie di comunicazione, in Italia circa 14 milioni gli italiani usano Facebook come fonte di informazione e 4,5 milioni si informano esclusivamente sui social network. Ma non solo, secondo lo Science Post, il 70% degli utenti che leggono notizie online si limita al titolo.
Stando così le cose, il rischio di cadere vittime di bufale e fake news sul consumo di carne diventa sempre più concreto. Quali sono le più comuni? A suo giudizio i consumatori italiani sono così sprovveduti?
Le fake news più comuni riguardano la sostenibilità ambientale delle produzione della carne (una vacca inquina più di un auto, i bovini sono la principale fonte di impatto ambientale, ecc...) e la salubrità dei prodotti carnei (la carne rossa provoca il cancro, consumare carne porta all'obesità, ecc..), informazioni non solo infondate, ma pericolose per la salute pubblica e per lo stato nutrizionale delle persone appartenenti soprattutto alle fasce estreme (bambini, adolescenti e anziani) e deboli (soggetti fragili e convalescenti) della popolazione. I consumatori italiani per fortuna "si bevono poco" questa battaglia martellante, portata avanti sfortunatamente non solo dai social, ma anche dai legacy media (soprattutto quotidiani) per i quali veganesimo e antispecismo sono temi "cool". La stragrande maggioranza degli italiani consuma carne in maniera responsabile e la considera parte integrante della dieta mediterranea, per fortuna.
Una popolazione in crescita, un miglioramento del tenore di vita, una continua tendenza verso i beni usa e getta, un'industria dell'abbigliamento che produce collezioni ispirate all'alta moda messe in vendita a prezzi contenuti e rinnovate in tempi brevissimi sta provocando un esaurimento delle materie prime non rinnovabili e problemi nella produzione di fibre naturali. La produzione globale annua di fibre nel 2017 è stata di oltre 105 milioni di tonnellate delle quali poliestere e cotone costituiscono il 76% del totale con una produzione di circa 3,3 miliardi di tonnellate di CO2 e il rilascio incontrollato di microfibre che rappresentando oltre un terzo di tutta la plastica che raggiunge l'Oceano, con effetti pervasivi in tutti gli ecosistemi e potenzialmente più dannosi per i processi biogeochimici, le specie viventi e la salute umana rispetto ad altri rifiuti di plastica.
Il Blog del 13 aprile scorso dell’International Food Policy Research Institute (IFPRI) riporta un interessante pezzo che non avremmo voluto leggere, a cominciare dal titolo: “Di male in peggio, come le restrizioni all’export alimentare conseguenti alla guerra Russia-Ucraina stanno esacerbando l’insicurezza alimentare globale”, a firma dei ricercatori Joseph Glauber, David Laborde e Abdullah Mamun.
Secondo gli Autori, la prima conseguenza delle restrizioni all’esportazione di alimenti è l’aumento del loro prezzo, cosa che mette in difficoltà in prima istanza i Paesi importatori. In secondo luogo, la tendenza alle restrizioni tende ad essere “contagiosa”, nel senso che anche altri Paesi esportatori possono seguire e stanno seguendo l’esempio.
Professore Ferrante, si sta sempre più diffondendo sia in Italia che a livello globale l'agricoltura fuori suolo, ovvero idroponica, aeroponica e acquaponica. Ci può spiegare le differenze tra queste tre tipologie e quali sono a suo avviso i motivi di questa tendenza?
I sistemi di coltivazione fuori suolo o idroponici sono spesso utilizzati come sinonimi dove le piante hanno le radici all’interno di substrati colturali o di soluzioni nutritive o sospese in aria. Nelle coltivazioni fuori suolo le piante non hanno le radici nel terreno ma in substrati organici o inorganici come ad esempio torba o perlite. Questi substrati hanno solo la funzione di sostegno delle piante, mentre la nutrizione viene effettuata mediante fertirrigazione, ossia l’acqua è un vettore per la distribuzione degli elementi nutritivi mediante sistemi di microirrigazione. Le coltivazioni idroponiche derivano dalla parola idroponica di origine greca: "hidro” acqua e “ponos”, che significa lavoro, ossia il lavoro dell’acqua per la coltivazione delle piante. Le piante hanno le radici immerse nella soluzione nutritiva ed esempi di questi sistemi di coltivazione sono il floating system e Nutrient Film Technique (NFT). L’aeroponica è sempre un sistema idroponico dove le piante hanno le radici sospese nell’aria e l’apporto di nutrienti e di acqua avviene mediante una soluzione nutritiva che viene nebulizzata attraverso ugelli direttamente sulle radici.
L’acquaponica è una combinazione di un sistema idroponico e di un sistema per l’allevamento dei pesci. I due sistemi sono integrati e l’acqua dell’allevamento dei pesci con i suoi residui organici e nutrienti viene filtrata e inviata in un sistema idroponico per la nutrizione delle piante.
I sistemi idroponici si stanno diffondendo soprattutto per la produzione di ortaggi con la possibilità di aumentare l’efficienza d’uso dell’acqua e dei nutrienti. Nei contesti urbani per l’assenza del terreno agrario diventano la sola opzione possibile, così come le coltivazioni indoor o in vertical farm.
Dottor Pozzi, Lei, insieme al Prof. Orazio La Marca, è coordinatore del Progetto Do.Na.To per la creazione di una filiera toscana del legno di douglasia. Ci può innanzi tutto spiegare la tipologia di questo abete e il motivo di questo interesse per la sua coltivazione in Toscana?
La Douglasia (Pseudotsuga menziesii var. menziesii Mirb.Franco) è una conifera originaria della parte occidentale del continente nord americano, con areale che si distende seguendo l’asse delle Montagne Rocciose dalla Columbia Britannica al Nuovo Messico. Fa parte delle cosiddette conifere giganti del Nord America, un gruppo di specie capaci di raggiungere dimensioni imponenti e formare boschi con elevatissime provvigioni legnose. Questa specie fu introdotta in Europa nella seconda metà del 1800 come curiosità botanica e poi, una volta esperite con successo le verifiche di acclimatazione, tenuto conto delle condizioni di sovrasfruttamento dei boschi italiani, si pensò che l’introduzione di una specie altamente produttiva potesse migliorare il nostro patrimonio boschivo. Negli anni ’20 del secolo scorso, dopo uno studio approfondito delle condizioni pedoclimatiche dell’area di indigenato della Douglasia ad opera del Prof. Aldo Pavari, furono impiantate 86 parcelle a scopo sperimentale, distribuite in quasi tutta l’Italia, con prevalenza in zone dell’Appennino centrale che manifestavano buone affinità climatiche con le aree di indigenato della specie. I primi impianti su vasta scala ebbero inizio nel primo dopoguerra soprattutto nell’Appennino settentrionale e poi in quello centrale e meridionale (Bernetti e de Philippis (1990). I rimboschimenti interessarono per lo più i terreni di collina e bassa montagna, replicando anche nel nostro continente le straordinarie capacità produttive e l’adattabilità a vari tipi di ambienti. La douglasia forma attualmente i soprassuoli forestali più produttivi d’Italia e d’Europa, con produzioni che a 50 anni raggiungono i 900-1.000 mc/ha; in alcune particelle sperimentali a Vallombrosa si sono misurati, proprio nell’ambito delle indagini condotte dal progetto Do.Na.To., 1.600 mc/ha a 90 anni, tanto da considerarli verosimilmente tra i soprassuoli forestali europei con la più alta provvigione legnosa. Sempre a Vallombrosa c’è la pianta più alta d’Europa, una douglasia che nel 2017 aveva superato il metro di diametro e oltrepassava i 62 metri di altezza. La Toscana è la regione italiana in cui la douglasia è più presente, caratterizzando circa 7.000 ettari di soprassuoli, fra boschi puri e misti con altre specie. Molti dei soprassuoli di conifere presenti lungo il crinale appenninico sono costituiti da douglasia che oramai è entrata a far parte del paesaggio consolidato di ampi territori, quali il Casentino, il Pratomagno o l’alto Mugello. L’interesse per questa specie è nato da una serie di considerazioni legate alla sua straordinaria produttività associata alla elevata qualità tecnologica del legname (accoppiata questa alquanto insolita), resistenza alla siccità, facilità con cui può rinnovarsi naturalmente, la minor esposizione ai danni da brucamento rispetto a molte specie di interesse forestale, la buona resistenza a importanti fitopatie, la notevole plasticità ad ambienti pedologici alquanto diversificati, l’aspetto paesaggistico gradevole che richiama quello delle abetine presenti nel nostro Appennino e, non ultima, la straordinaria efficienza come carbon sinker, sia per la rapidità di stoccaggio (velocità di crescita) che per la durata del legname ritraibile (legno destinabile in larga misura ad usi di lunga durata). Tutto questo ne fa un importante, e probabilmente irrinunciabile, alleato per lo sviluppo della selvicoltura appenninica.
Uno degli effetti immediatamente percepibili della tropicalizzazione del clima è l’acclimatazione nel Bacino mediterraneo di Aleirodi di origine tropicale, verificatesi, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Non ultima in ordine di tempo è l’introduzione di Aleurocanthus spiniferus (Quaintance) che, dal 2008 è rimasto a lungo confinato in alcune zone della Puglia e, solo dopo un lustro ha iniziato a diffondersi nelle zone limitrofe a quelle in cui erano stati rilevati i primi focolai. Nel 2018 è stato riscontrato in agrumeti della Basilicata, e in aree urbane, principalmente su piante ornamentali della Campania, dell’Emilia-Romagna e del Lazio.
Nel dicembre del 2020 la Mosca bianca spinosa è stata riscontrata su agrumi in Sicilia dove si trova la più estesa superfice agrumicola italiana.
Due contrastanti idee da tempo pervadono il comune sentire su gli effetti degli antibiotici. Molte persone sono convinte che l'assunzione di un antibiotico anche in assenza di un’infezione provoca spossatezza, ma sono altrettanto convinte che negli allevamenti intensivi gli animali erano ingrassati con gli antibiotici. Antibiotici, oltre che uccidere microrganismi pericolosi, sono causa di spossatezza o di forza? Tolgono l’appetito e fanno dimagrire o fanno ingrassare? Solo opinioni o verità?
Gli Arabi tornano in Sicilia? Almeno come investimento, pare proprio di sì. Infatti il gruppo Oranfrizer, uno dei grandi player italiani degli agrumi, già a ottobre 2020 passato sotto il controllo della multinazionale Unifrutti delle famiglie De Nadai e Mondin, adesso assieme alla sua controllante è finito sotto il controllo di ADQ, società di investimento e holding con sede ad Abu Dhabi, fondata nel 2018, con un ampio portfolio finanziario di grandi imprese.
I suoi investimenti abbracciano settori chiave dell’economia diversificata degli Emirati Arabi Uniti, tra cui energia e servizi pubblici, cibo e agricoltura, sanità e scienze della vita, mobilità e logistica. “Come partner strategico del governo di Abu Dhabi – dice una nota stampa ufficiale – ADQ è impegnata ad accelerare la trasformazione degli Emirati in un’economia globalmente competitiva e fondata sulla conoscenza”.
Unifrutti parla di un “nuovo capitolo” per una nuova fase di crescita del gruppo. Per ADQ Gil Adotevi, direttore esecutivo per i settori “Food and Agriculture”, commenta: “Stiamo sviluppando il nostro portfolio di prodotti alimentari e agricoli con l’obiettivo di generare forti rendimenti finanziari, rafforzando al contempo la resilienza alimentare negli Emirati Arabi Uniti”. Insomma un grande investimento finanziario che lascerà il management di Unifrutti (e quello di Oranfrizer) liberi di continuare a fare il loro mestiere: crescere sui mercati internazionali, presidiare il segmento delle produzioni di qualità, dei processi e dei prodotti, l’attenzione alla sostenibilità, e quindi realizzare buoni guadagni per gli azionisti.
Nel recente webinar su Ortofrutta e Finanza organizzato dal nostro giornale (Corriere Ortofrutticolo – ndr) abbiamo parlato proprio di questo, dei capitali che i fondi di private equity investono nelle aziende non per fare beneficenza, ma per trarre profitti e magari rivendere le quote dopo che si sono valorizzate. Il tema c’è tutto e abbiamo visto lontano affrontandolo per primi. La partecipazione al webinar di primarie imprese del settore ha confermato l’interesse. I capitali che guardano anche al settore dell’ortofrutta sono ossigeno per la crescita, a maggior ragione in questo momento di squilibrio mondiale. L’ortofrutta è considerata un settore ‘resiliente’, in linea con le esigenze di benessere della moderna alimentazione, ed è e resta un settore globale, un business planetario, come sta dimostrando il ritorno degli operatori a Fruit Logistica.
L’ingresso dell’investitore del Golfo Persico, supportato (non avversato) dal management e dal board di Unifrutti, dovrebbe consentire all’azienda di avviare un ulteriore sviluppo internazionale. Lo stesso (penso) si possa dire per Oranfrizer. Quando nell’ottobre 2020 Oranfrizer entrò in Unifrutti il ceo Sebastiano Alba dichiarò: “Per crescere all’estero ed ovviamente in Italia potenzieremo l’intera filiera della produzione. Il nostro lavoro, avviato circa 60 anni fa, per valorizzare gli agrumi della Sicilia ed altri frutti coltivati in zone vocate della nostra Isola, continua”. Più chiaro di così.
Dottor Croce, Lei è direttore dell’associazione Chimica Verde Bionet, capofila del progetto Cobraf (Coprodotti da bioraffinerie), basato sui prodotti derivabili da 4 colture oleaginose: camelina, canapa, cartamo e lino. Ci spieghi meglio in che cosa consiste il progetto e chi altro ne fa parte.
Il progetto Cobraf ha avuto per obiettivo prioritario l’avvio di un modello di bioeconomia regionale sulla base dei prodotti derivabili a cascata delle 4 colture oleaginose che lei ha menzionato.
Tutte specie coltivate da millenni in Europa, ma in realtà innovative per gli attuali ordinamenti colturali toscani, e italiani, e per i loro molteplici impieghi. I 19 partner del Gruppo Operativo COBRAF - aziende agricole, imprese industriali di vari settori (oli e grassi, edilizia, accessori per camper, tessile, alimentare, farmaceutica), enti di ricerca e associazioni – nell’arco del progetto hanno sviluppato e testato vari prodotti e processi innovativi, verificando la sostenibilità ambientale ed economica delle filiere dal campo al prodotto finito.
La scelta delle quattro colture è dettata dal fatto che hanno tutte elevate proprietà nutrizionali e salutisti-che, a partire dagli acidi grassi polinsaturi contenuti nei semi e molti altri metaboliti presenti nei semi ma anche nelle infiorescenze, come vitamine, proteine, polifenoli, terpeni, glucosilati, cannabinoidi, ecc. Nutraceutica, farmaceutica e cosmesi rappresentano infatti alcuni degli impieghi a più alto valore aggiunto per le aziende agricole.
Ma oltre a queste destinazioni si possono ottenere molti altri prodotti, come ad esempio adesivanti per legno o dalle paglie di canapa e lino materiali da costruzione, materiali compositi per il settore automotive, tessuti tecnici e così via. E, dato fondamentale, tutti questi impieghi in alternativa ai materiali tradizionali consentono un notevole risparmio di emissioni e di consumi energetici.
Non è raro che proprio negli allevamenti rurali e familiari ben tenuti e
senza alcun apparente motivo le galline depongano uova che in modo più o
meno evidente puzzano di pesce. Questo grave difetto è comparso anche
negli allevamenti industriali nel secolo scorso, ma non più oggi, quando
si è scoperta l’origine e che non era, come alcuni avevano creduto, la
presenza di farine di pesce nell’alimentazione delle galline. La
scoperta dell’origine di questo grave difetto che rende non usabili le
uova che puzzano di pesce è avvenuta solo con la conoscenza di due
diversi componenti: l’alimentazione e la genetica delle galline, e il
concomitante studio di persone che puzzano di pesce.
La Pizza Napoletana Verace è uno dei prodotti italiani più apprezzati in tutto il mondo.
Il
Regolamento della Commissione Europea n. 97/2010 ha iscritto la
denominazione Pizza Napoletana nell’albo delle specialità tradizionali
garantite (STG). Inoltre, nel 2017 l’Organizzazione delle Nazioni Unite
per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO) ha iscritto l’arte
del pizzaiolo napoletano nella Lista Rappresentativa del Patrimonio
Culturale Immateriale dell’Umanità.
In Italia operano attualmente circa 127.000 aziende con attività di pizzeria che impiegano circa 100.000 dipendenti, che raddoppiano nei fine settimana. A fronte di un consumo giornaliero intorno a 8 milioni di pizze, il fatturato del settore ammonta a 15 miliardi di euro/anno. La produzione di pizza artigianale in ristoranti, pizzerie, bar o gastronomie copre circa l’80% delle vendite di pizza, mentre il restante 20% è coperto dalla pizza surgelata. Circa otto italiani su dieci scelgono la pizza margherita, marinara o capricciosa.
Una review pubblicata nel marzo 2021 (Menossi M, Cisneros M.,. Alvarez
V.A., Claudia Casalongué C. Current and emerging biodegradable mulch
films based on polysaccharide bio-composites. A review. Agronomy for Sustainable Development (2021)
41: 53) ha messo in evidenza limiti e vantaggi della possibile
sostituzione dei tradizionali teli pacciamanti con una nuova generazione
di pacciamature ottenuta da polisaccaridi. La pacciamatura ha iniziato a
diffondersi già alla fine della prima metà del secolo scorso con la
plastica: già allora gli agricoltori avevano percepito a proprio
vantaggio le capacità di isolamento, stabilità meccanica e ad alte
temperature, resistenza a corrosione e degrado, allontanamento di alcuni
patogeni, processamento semplice e poco costoso. Al di là delle
considerazioni ecologiche-estetiche legate alla “agricoltura della
plastica”, occorre rimarcare come le pacciamature abbiano un ruolo
importante sulla conservazione dell’acqua, la riduzione delle malerbe,
il riscaldamento del terreno ed anticipo del raccolto, qualità del
raccolto, ed abbiano quindi anche attualmente un significato importante
sulla sostenbilità ed efficienza dal punto di vista della gestione delle
risorse.
La rimozione dei film dai campi, così come il loro
riciclo, PE incluso, sono però costosi, e si assiste quindi ad accumuli a
bordo campo, combustioni incontrollate, episodi di contaminazione in
micro e macroplastiche. Alla fine della stagione, invece, le nuove
pacciamature potranno essere incorporate direttamente nel terreno ed
essere mineralizzate senza rischi ambientali. I polimeri che le
costituiscono includono polisaccaridi come amido e cellulosa fornite da
piante, proteine, alginati estratti dalle alghe, chitosano dallo
scheletro di artropodi e crostacei, ad esempio. Tutti quanti, comunque,
sono polimeri complessi che includono molti gruppi funzionali e
strutture chimiche atte a conferire un’alta versatilità, annoverando
alcuni svantaggi dovuti a basse performance meccaniche e fragilità.
Dottor Pasti, lei conduce con fratelli e cugini, nel Basso Piave,
un’azienda agricola di 600 ettari e fa parte di una famiglia dedita
all’agricoltura da oltre tre generazioni. Dal dicembre 2001 al luglio
2017 è stato presidente dell’AMI, Associazione maiscoltori italiani.
Qual è il suo punto di vista sull'attuale congiuntura negativa per i
cereali causata dalla guerra in Ucraina, come riusciremo ad affrontarla e
in quali tempi?
La guerra in Ucraina è un tragico evento che
in Italia ha messo in luce la crisi del settore cerealicolo e maidicolo
in particolare. Questa crisi tuttavia nasce da lontano ed è frutto di
una serie di scelte fatte dal 2003 fino ad ora col Piano Strategico
Nazionale. La guerra ha impedito le importazioni dal Mar Nero e spinto
l’Ungheria, reduce da un’annata agraria poco produttiva, a mettere un
blocco temporaneo alle esportazioni; quest’ultimo ha inciso in maniera
più drammatica sulla disponibilità di mais sul mercato nazionale e ha
spinto le quotazioni sulle principali piazze italiane oltre i 400
euro/tonnellata. Alcuni hanno additato la speculazione finanziaria per
questi aumenti, ma in realtà le quotazioni a Chicago sono aumentate meno
del 20% mentre sul mercato fisico in Italia sono aumentate di oltre il
40%, a testimoniare la carenza di prodotto e la scarsità delle scorte
presenti nel nostro paese. Fortunatamente l’Ungheria ha parzialmente
sospeso il blocco delle esportazioni e i rifornimenti per la produzione
di mangimi sono ripresi. Prezzi così alti del mais hanno messo in crisi
la zootecnia ed il settore del latte in particolare, che proviene da
anni di prezzi bassi dopo la fine delle quote latte.
Allargando lo
sguardo è interessante vedere come sono cambiati i prezzi negli ultimi
40 anni al netto dell’inflazione. Scopriamo così che il mais nel 1982
valeva 28.000 lire/qle che corrispondono a 590 euro/tonnellata di oggi,
ma il latte alla stalla veniva pagato 81 centesimi al litro mentre al
consumatore costava 1.46 euro al litro, più o meno come ora. In pratica
nella catena del valore i margini si sono spostati a valle della fase di
produzione agricola.
Affrontare la crisi attuale non è banale perché
in realtà era già in atto prima della guerra e quest’impennata di
prezzi colpirà duramente i consumatori più poveri dei Paesi in via di
sviluppo del nord Africa, medio oriente e altri paesi asiatici. E’ di
questi giorni lo scoppio di manifestazioni di piazza per i rincari di
cibo e carburanti in Sri Lanka, Paese già provato dal crollo del turismo
a seguito della pandemia e dal calo della produzione agricola a seguito
della scelta del governo di imporre a tutti il metodo di produzione
biologica. Se nella stagione entrante dovesse esserci un clima
sfavorevole in uno dei principali bacini produttivi di cereali (USA,
Cina ed EU) nei prossimi mesi ci troveremo di fronte ad una mancanza di
cereali ben peggiore del periodo 2007-10 che diede poi origine alle
primavere arabe. Già oggi l’indice del prezzo del cibo elaborato dalla
FAO ha toccato un nuovo massimo storico