Notiziario



Gli sprechi alimentari e la loro conversione per la produzione di latte

Secondo vari studi di alcune università americane, gli alimenti destinati alle bovine da latte negli Stati Uniti contengono dal 20 al 30% di avanzi alimentari di varia origine, con punte del 40%. I risultati in termini qualitativi e quantitativi di produzione di latte sono in tutto confrontabili con quelli ottenibili con cereali e semi di leguminose tradizionali. I sottoprodotti più comuni sono i residui dell’industria di panificazione e dolciaria, i residui di distilleria, scarti di frutta ed i ritagli delle verdure.
Le statistiche della “Northwest Dairy Association” riferite al 2015 indicano che circa 140 tonnellate di scarti alimentari vengono impiegate ogni giorno nell’alimentazione delle bovine da latte negli Stati Uniti. Uno studio dell’Università di Wisconsin-Madison ha identificato ben 41 diversi tipi di scarti e sottoprodotti.

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Alzheimer, Parkinson, sclerosi: così le aree verdi ci proteggono

L'emergenza sanitaria che stiamo affrontando a causa di un virus non deve farci dimenticare che le malattie non trasmissibili sono le maggiori responsabili del carico globale di malattie: uccidono 40 milioni di persone ogni anno, pari a circa il 70% di tutti i decessi a livello mondiale. Sono malattie che spesso coesistono con depressione, schizofrenia e disturbo bipolare: i due gruppi di disturbi entrano in sinergia. Da una parte il malessere psichico aumenta il rischio dell’incidenza delle malattie non trasmissibili a causa dello sviluppo di comportamenti negativi e della scarsa ricerca di aiuto. D'altra una condizione di salute fisica carente tende ad aumentare depressione e ansia.
I fattori di rischio modificabili come quelli legati agli stili di vita sono elementi chiave delle malattie non trasmissibili, ma anche le esposizioni ambientali svolgono un ruolo importante, in particolare l’inquinamento atmosferico e il rumore. C'è infatti un crescente interesse nello studio del rapporto tra il contatto con l'ambiente naturale e le condizioni di salute a lungo termine.

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Alternative ai fertilizzanti chimici da pesci e insetti: si può ma serve più attenzione a questi settori

Il 4 marzo scorso il Ministero del Commercio russo ha dichiarato lo stop all'esportazione di fertilizzanti di sintesi, di cui anche l'Italia era una forte utilizzatrice. Eppure ci sono delle soluzioni alternative che è forse arrivato il momento di incentivare.
Una di queste è l'acquaponica, ne parliamo con la Professoressa Giuliana Parisi, accademica dei Georgofili e Ordinario di Acquacoltura all'Università di Firenze.

Professoressa Parisi, come funziona l'acquaponica e come i pesci possono aiutare le piante a crescere?
Si tratta di un approccio moderno, che può raggiungere anche livelli di estrema complessità, a sistemi integrati applicati anche in epoche storiche remote. Infatti un approccio del tutto simile nel concetto veniva applicato anche dagli Aztechi e nell’antica Cina. Il principio sul quale si basa l’acquaponica consiste nell’accoppiare l’allevamento dei pesci, e quindi l’acquacoltura (acqua-), con la coltivazione dei vegetali in sistemi idroponici (-ponica), mettendo in circolo i reflui derivanti dall’allevamento dei pesci che contengono sostanze azotate e fosfatiche che, una volta mineralizzate dai microrganismi inseriti nel sistema, rappresentano nutrienti che le piante possono utilizzare. Insomma, l’acquaponica consente di trasformare un problema (quello dello smaltimento delle acque reflue, derivanti dall’allevamento dei pesci) in una opportunità, cioè il recupero dei nutrienti che possono essere sfruttati per la coltivazione dei vegetali. L’acquaponica risponde appieno a uno degli obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) dell’ONU (l’obiettivo n. 12: Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo), obiettivi ai quali tutte le nostre attività devono conformarsi. L’acquaponica rappresenta uno splendido esempio di economia circolare che valorizza gli scarti di un processo produttivo, rimettendoli in circolo. Il principio su cui si basa l’acquaponica può essere declinato a vari livelli, passando da sistemi estremamente semplici (low-tech aquaponics), che potrebbero trovare applicazione anche in contesti economici poco evoluti, per arrivare a sistemi altamente tecnologici, potenzialmente capaci di alte produttività che possono però essere ottenute attraverso un accurato controllo di tutti i fattori convolti e di tutte le fasi in cui il sistema si articola.

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Arriva la birra a base di amaranto

“Sangorache” è il marchio denominativo recentemente registrato dall’Università di Firenze per identificare la prima bevanda a base di amaranto coltivato in Italia, utilizzando una varietà di questo pseudocereale selezionata dall'Ateneo fiorentino come risultato di una sperimentazione promossa dal Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari, Ambientali e Forestali (DAGRI). Ne parliamo con il Prof. Paolo Casini,  impegnato da anni in questa ricerca.

Professore, innanzi tutto, ci ricorda che cos'è l'amaranto?
L'amaranto, con le sue diverse specie, è originario del Messico e delle zone andine dell'America del Sud. Estesamente coltivato principalmente per scopi alimentari fino all'arrivo dei Conquistadores, per secoli la sua coltivazione è stata vietata da quest'ultimi poiché legata ad alcuni riti pagani; con i semi si facevano figure antropomorfe che poi venivano consumate in occasioni rituali. Le indiscusse proprietà alimentari di questa pianta sono state riscoperte negli anni Settanta dello scorso secolo contribuendo al crescente interesse per questo pseudocereale nel settore alimentare e della ricerca anche ai fini di una sua proficua coltivazione al di fuori delle aree di origine. Le utilizzazioni dell'amaranto sono moltissime. Le principali caratteristiche di questa specie sono l’elevato contenuto di proteine (13-21%), di lisina e di calcio, oltre a essere caratterizzata dall’assenza di glutine e quindi idoneo all’alimentazione dei celiaci. Le proteine, con una digeribilità vicina al 90%, costituiscono un altro degli elementi caratterizzanti. Infatti, oltre alla già citata ricchezza in lisina, i semi di amaranto costituiscono una preziosa fonte di triptofano ed in genere di aminoacidi solforati.
I semi contengono in media 6-8% di lipidi. Una delle caratteristiche più importanti dell’olio di amaranto è il suo elevato contenuto di squalene (4-8%), un triterpene, composto strutturalmente molto simile al β-carotene, metabolita intermedio nella sintesi del colesterolo. Si tratta quindi di un’importante fonte di questa sostanza superiore a quella contenuta in altri vegetali come la crusca di riso, il germe di grano e l’olio di oliva. Recenti studi hanno messo in evidenza come lo squalene possa rientrare nella composizione di farmaci per la riduzione del colesterolo ematico. Quest’ultima proprietà, unita a quella antiossidante dei tocoferoli, composti generalmente indicati come vitamina E, viene sfruttata dall’industria cosmetica soprattutto nel settore della cura della pelle e dei capelli e, più genericamente, nei formulati anallergici. Le proprietà riconosciute sono attribuite all’elevato potere antiossidante “anti invecchiamento”.
L’amaranto, oltre a costituire la base di un gran numero di preparazioni alimentari, viene impiegato soprattutto utilizzando i semi soffiati per la formulazione di barrette, snack vari, muesli, granola, estrusi e, ridotti in farina, nell’ambito della pasticceria secca o fresca. Altra particolare utilizzazione sia nel settore non alimentare che alimentare, è quella dell’impiego dell’amido, caratterizzato da granuli molto piccoli (in media inferiori a 1 μm) in confronto a quelli del riso (3-8 μm), del frumento (3-34 μm) e del mais (5-25 μm) e di forma poliedrica. A causa delle loro dimensioni, e quindi della grande superficie specifica (rapporto superficie sviluppata/volume) per unità di peso, le particelle di amido di amaranto possiedono un’elevata capacità di assorbimento e possono essere utilizzate come base per aerosol anallergici e anche come sostituto del talco in cosmesi. Inoltre, questo tipo di amido, riduce la temperatura di gelatinizzazione e la resistività. L’insieme di queste caratteristiche conferiscono all’amido di amaranto ottime proprietà gelatinizzanti ed una buona stabilità congelamento/scongelamento molto apprezzata nell’industria alimentare ultimamente anche orientata per quella degli animali domestici.
L’assenza del glutine nei semi di amaranto e l’elevata digeribilità, ne consiglia l’impiego nell'alimentazione delle persone affette non solo da celiachia ma anche da problemi digestivi e intestinali, e utile nei bambini in fase di svezzamento, di convalescenti e di anziani; sono inoltre stati rilevati benefici nelle persone affette da artrite, diabete, gotta e reumatismi, oltre che nelle donne in gravidanza.
Qualche cenno merita anche l’amaranto da ortaggio consumato alla stessa stregua degli spinaci. Ha un valore alimentare molto alto per la ricchezza di proteine, vitamina C, carotene ed elementi minerali. Il consumo deve prevedere però l’allontanamento dell’acqua di cottura ricca di ossalati e di nitrati.

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I funghi e il microbiota, “organo dimenticato”

I primi funghi, apparsi sulla terra circa ottocento milioni di anni fa, sono divenuti estremamente abbondanti con una grandissima diversità che oggi è stimata in circa tre milioni di specie delle quali solo poco più di centomila circa sono state descritte, ma non manca chi pensa che il numero delle specie di funghi esistenti sulla terra possa essere cinquanta volte maggiore. I funghi sono stati a lungo utilizzati come alimento da animali e dall’uomo e come medicinali da quest’ultimo.

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L’agricoltura urbana e il vertical farming

La distribuzione dei prodotti agricoli freschi ha subito una forte variazione negli ultimi decenni e grazie a una logistica ottimizzata si è riusciti a collegare aree di produzione e mercati anche molto distanti tra loro. Le condizioni ambientali e i costi di produzione più bassi hanno portato alla delocalizzazione delle coltivazioni nelle aree più vocate indipendentemente dalla stagionalità.
L’emergenza sanitaria del Covid-19 ha messo in evidenza come la logistica, seppure ben organizzata, può diventare labile sulle lunghe distanze. A seguito di questo, la produzione locale è stata riconsiderata e sta assumendo una importanza strategica per garantire l’approvvigionamento dei prodotti freschi in caso di interruzioni della filiera distributiva.

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Trasformazione agroalimentare: «Industria gentile» e «obiettivo 25%» per il consumo di prodotti locali

Il futuro del cibo potrebbe essere come ce lo ha rappresentato il regista coreano e premio Oscar Bong Joon-ho nel film Snowpiercer: una barretta a base di alghe, zucchero e gelatina, ovvero quel minimo di nutrienti necessario a tenerci in vita. Secondo Jacques Attali si tratterebbe di uno scenario possibile, almeno per quanto riguarda il cibo dei poveri, standardizzato e processato sino a negare qualsiasi soddisfazione al palato, agli antipodi di quello riservato ai ricchi, che invece probabilmente sarà sano, variegato e dotato di sapori e profumi.
D’altra parte, nutrire un pianeta che presto sarà abitato da 10 miliardi di umani richiede di aumentare le rese e incrementare i livelli produttivi. Se questo è lo scenario dell’agricoltura, la trasformazione a valle potrebbe finire per essere gestita da poche multinazionali - i signori del cibo - interessate a ridurre i costi unitari e consegnare pochi prodotti standardizzati al mercato mondiale, tramite una distribuzione profondamente semplificata che non competerà più a livello di gamma ma soltanto di ubicazione del punto vendita. Questo almeno per le masse.
Andrà così? Non necessariamente. Possiamo ancora fare qualcosa per evitarlo.
I consumatori, ce lo dice l’Unione Europea, desiderano «cibi freschi, meno lavorati, provenienti da fonti sostenibili e da filiere più corte». Analizzando la composizione media dello scontrino di una spesa alimentare, queste aspirazioni si rivelano in buona parte «idealizzate». In Italia come all’estero finiscono nel carrello una quantità elevata di piatti pronti, cibo confezionato, conserve e snack. Dovendo necessariamente rinunciare al progetto di autoprodurre il proprio cibo, il consumatore trova oggi riscontro a questo bisogno di natura away from home: per esempio negli agriturismi con ristorazione a filiera corta, nei ristoranti iper-locali o al desco di chef stellati che curano direttamente il proprio orto.
In questo contesto, l’industria alimentare è ancora percepita come il principale responsabile della perdita di naturalezza degli alimenti, l’artefice del processare e dello standardizzare. Si dimentica troppo spesso che la trasformazione ha risolto la questione dell’igiene, perfezionato e ampliato i metodi di conservazione e contribuito a nutrire una popolazione mondiale passata dai 3 miliardi di persone del 1960 agli 8 miliardi del 2022, in cambio di una quota decrescente del loro reddito disponibile. L’industria alimentare italiana, comunque, si rispecchia poco nel modello «multinazionale»: le oltre 50.000 imprese attive nel nostro Paese hanno una dimensione media di 8 dipendenti.
In questo momento, con la transizione ecologica alle porte, con il Green Deal e la Strategia Farm to fork della Commissione Europea che premono sui principali snodi della filiera in nome della sostenibilità, dell’economia circolare, dell’impatto climatico 0, il nostro modo di produrre il cibo si confronta con un cambio di paradigma. Fondi consistenti saranno stanziati per la riconversione verde. Sulle modalità di questa transizione ancora si ragiona. Per l’Italia si tratta di un’occasione imperdibile di rafforzare anche e nel medesimo tempo il collegamento tra agricoltura, trasformazione, distribuzione e aspirazioni dei consumatori.

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L’agricoltura che produce cibo per gli astronauti

Professoressa Adamo, è di questi giorni la notizia che sono germogliati per la prima volta dei semi sul terreno lunare portato sulla Terra dagli astronauti di alcune missioni Apollo. Lo studio, finanziato dalla NASA, è stato pubblicato sulla rivista "Communication Biology" (https://www.nature.com/articles/s42003-022-03334-8).
Perché è importante condurre questo tipo di ricerche?

Coltivare piante superiori di interesse alimentare in ambienti extraterrestri utilizzando le risorse disponibili in situ, ed in particolare il suolo lunare e marziano, è un obiettivo fondamentale per rendere possibile e sostenibile in futuro l’esplorazione umana dello spazio. La produzione di cibo fresco in-situ garantirebbe, infatti, l’autonomia e la sopravvivenza degli astronauti nelle missioni di lungo termine. Tuttavia, il suolo “extraterrestre” è molto diverso dal suolo terrestre. In particolare, è completamente privo di materiale organico e quindi di elementi nutritivi essenziali alla vita delle piante quali azoto, fosforo e zolfo, e manca di una struttura capace di trattenere e contenere acqua e aria elementi indispensabili per lo sviluppo radicale. La preparazione di un substrato chimicamente e fisicamente fertile per la crescita di piante ad uso alimentare a partire da suolo, o più precisamente, da regolite lunare e marziana rappresenta pertanto una delle principali sfide della ricerca scientifica in campo spaziale.
La produzione di cibo fresco attraverso un approccio di utilizzo in-situ delle risorse è di fondamentale importanza per garantire l'autonomia e la sopravvivenza dell'equipaggio nelle missioni spaziali di lungo termine. L'uso della regolite marziana come suolo per la crescita delle piante sarebbe una pratica sostenibile per ottenere cibo, anche se il "suolo extraterrestre" è di gran lunga diverso dal suolo vitale e fertile che abbiamo sulla Terra.
All’interno di un sistema bio-rigenerativo di supporto alla vita (BLSS) extraterrestre, per trasformare la regolite (da intendersi come una roccia amminutata) in un substrato idoneo alla crescita delle piante si potrebbe aggiungere un materiale organico compostato derivante dai rifiuti dell'equipaggio e dagli scarti vegetali. Ciò consentirebbe di fornire nutrienti alle piante, assenti nella regolite, e di favorire la formazione della struttura del “suolo”, con la sua rete di pori, adatti ad ospitare acqua ed aria, elementi indispensabili per lo sviluppo radicale. Considerando che la regolite marziana non è disponibile sulla Terra, gli studi di ricerca spaziale vengono comunemente condotti su simulanti di regolite, che tendono a replicare le proprietà

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Ancora invasioni di cavallette in Sardegna

In questi primi caldi giorni della tarda primavera del 2022, la notizia di una perdurante, ormai quadriennale, invasione di cavallette nel centro della Sardegna rimbalza tra diversi, lontani e talvolta “insospettabili” mezzi d’informazione. Dalla media valle del Tirso, l’area più colpita dell’isola, giungono immagini e filmati impressionanti. Niente di nuovo in realtà, gli annali registrano “orde” di questi insetti dai tempi più remoti. “Con una periodicità assolutamente irregolare, ad intervalli di lustri, la specie [Dociostaurus maroccanus, il cosiddetto Grillastro crociato] si moltiplica in misura straordinaria e le orde di saltellanti e volanti voracissimi ortotteri invadono non soltanto i prati e i dossi dove sono nati ma anche le zone coltivate contermini migrando su vasti fronti in varie direzioni ed interessando superfici estesissime, costituendo fonti di perdite economiche ingenti e assillo di popolazioni e di autorità, sino a diventare problemi nazionali inquietanti, onerosi e complessi.” [Athos Goidanich, Enciclopedia Agraria Italiana: intorno al 1960].

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Strade “verdi”: futuro possibile?

Le strade sono la linfa vitale delle nostre comunità e il fondamento delle nostre economie urbane. Esse costituiscono oltre l'80% di tutto lo spazio pubblico in città e hanno il potenziale per promuovere attività di business, servire da spazio condiviso per i residenti, e di fornire un posto sicuro per la gente per passeggiare o andare in bicicletta. La vivacità della vita urbana richiede, tuttavia, un approccio progettuale sensibile al ruolo poliedrico che le strade svolgono nelle nostre città.

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Il trasferimento dell’innovazione attraverso le “demofarm”

Il trasferimento della innovazione rimane un elemento essenziale al fine di dare prospettive alle aziende agricole che, cogliendo le opportunità delle nuove tecnologie e della gestione dei dati, possono aggiornarsi e aumentare la loro competitività.
Lo sviluppo della innovazione nel settore agricolo, tuttavia, non avviene attraverso un semplice trasferimento di “tecniche”, ma attraverso l’applicazione di un modello che modifica anche il sistema gestionale e si occupa di pianificazione del lavoro, interessando in modo integrato sia le tecniche di produzione, ma anche il rapporto con la Pubblica Amministrazione nonché il marketing e il ciclo delle vendite.
Diversi studi, supportati anche da specifici progetti europei, hanno accertato che la modalità con cui si trasferisce l’innovazione nel settore agricolo è cambiata nel tempo e ha sempre più bisogno di linguaggi nuovi che sappiano catturare l’attenzione dell’imprenditore agricolo, ma soprattutto stimolare la sua capacità imprenditoriale. Dalle esperienze di chi si occupa di innovazione in agricoltura sembra non più sufficiente mostrare una attrezzatura o una tecnica, ma occorre proporre un modello, un sistema innovativo applicato e funzionante. L’innovazione, per essere applicata, deve essere compresa nel suo utilizzo e conosciuta nei suoi costi da parte dell’imprenditore agricolo che può così valutare la sostenibilità economica e la sua utilità, in un nuovo modello gestionale simulato all’interno della propria azienda.
Alcune aziende agricole già lo fanno o hanno le potenzialità per svolgere questo ruolo di demofarm, perché dotate di vocazione e capacità organizzativa. Sono in grado infatti di dimostrare soluzioni, rivolgendosi agli imprenditori, non solo con prove sperimentali, ma anche con modelli gestionali innovativi, anche di pieno campo. Si evidenzia poi l’efficacia dell’apprendimento tra colleghi (peer to peer learning) che amplifica la sua ricaduta positiva specialmente nelle aziende agricole demofarm che diventano così un luogo di mediazione tra la ricerca e il tessuto imprenditoriale agricolo, favorendo una applicazione effettiva delle migliori tecniche e quindi una crescita innovativa del settore. Le demofarm sono un luogo, ma anche un metodo di analisi, dove confrontarsi in modo semplice e diretto su aspetti concreti, stimolando l’arricchimento innovativo attraverso anche la simulazione di nuovo modelli operativi che devono adattarsi ai diversi contesti e comparti produttivi; luoghi che possono contribuire a ridurre il senso di diffidenza - spesso ancora diffuso negli agricoltori - verso le nuove tecnologie.

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Terreni più resilienti e produttivi con il biochar

Lunedì 20 giugno prossimo l’Accademia dei Georgofili di Firenze ospiterà un incontro per approfondire le basi scientifiche e le prospettive economiche dell’uso del biochar e di altre azioni del comparto agricolo per riportare carbonio nel suolo. 

Prof. Chiaramonti, perché è importante riportare il carbonio nei suoli?
Il Carbonio è un elemento fondamentale per la salute dei suoli e per la vita in generale. Purtroppo, uno degli effetti del cambiamento climatico è proprio quello di impoverire i terreni di questo prezioso elemento, in particolare l'area del Mediterraneo e del Sud Europa. E'  dunque essenziale mettere in atto tutte le misure in grado di riportare Carbonio e sostanza organica là dove dovrebbe essere presente, in particolare nei primi 30 cm del terreno, dove può svolgere una serie di funzioni importanti. Ad esempio, aumentare la capacità di ritenzione idrica del terreno, consentire il lento rilascio dei nutrienti, ed in generale migliorare la struttura creando condizioni favorevoli alla vita microbiologica. Ovviamente, il biochar deve essere prodotto in modo corretto e controllato per garantire le caratteristiche desiderate (e regolate da norme e standard specifici).

Che cos' è in parole semplici il biochar? Quali tecnologie sono attualmente disponibili per poterlo utilizzare?
Il biochar è un prodotto carbonioso ottenuto tramite il trattamento termico della biomassa lignocellulosica in condizioni di assenza totale (o talvolta presenza parziale) di ossigeno: questo processo si chiama pirolisi o carbonizzazione. La struttura del biochar è porosa, con pori di dimensione, e quindi volume e superficie, variabile a seconda della materia prima utilizzata e delle condizioni di processo. Il biochar "stabilizza" il Carbonio: tecnicamente si usa spesso il termine "recalcitrante" proprio per indicare la sua elevata resistenza alla degradazione nel terreno. Assieme a questo prodotto solido il processo genera un gas rinnovabile, il pyrogas, che può essere utilizzato per fornire energia al processo stesso, oppure essere valorizzato in vario modo con processi più complessi, sia per la parte incondensabile che per quella condensabile.
Le tecnologie di pirolisi, normalmente operanti a temperature comprese tra i 400 ed i 600 °C negli impianti industriali, sono ormai mature e disponibili in varie configurazioni reattoristiche, dai cosiddetti letti fissi ai reattori a forno rotante ed altri. Ciascuna tipologia di impianto presenta caratteristiche diverse, da considerare alla luce della tipologia di biomassa immessa in alimentazione e della costanza delle caratteristiche chimico-fisiche.
ll biochar può essere prodotto anche in impianti di gassificazione, nei quali comunque il prodotto primario è un gas destinato alla generazione di energia elettrica e/o cogenerazione. Le caratteristiche del biochar così ottenuto sono anche leggermente diverse rispetto a quello ottenuto in pirolisi.

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Inaugurazione dell’anno accademico UNASA

Nella Lectio Magistralis dell’inaugurazione su “Il paradigma della produttività in agricoltura e il rischio di gettare il bambino con l’acqua sporca”, il professor Dario Frisio ha sottolineato che per fare fronte alla crescente domanda alimentare, nell’impossibilità di mettere a coltura nuove terre, se non disboscando, sia indispensabile ricorrere all’intensificazione produttiva attraverso il ricorso alle più moderne tecnologie, da quelle dell’agricoltura di precisione alle Tecniche di Evoluzione Assistita per il miglioramento genetico.

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L’agricoltura dei microappezzamenti

In un articolo apparso su “La Repubblica” il 30 aprile u.s., si affermava che l’1% delle imprese agricole sfrutta il 70% della superficie coltivabile. Nell’articolo veniva citato un rapporto dell’ONU secondo il quale l'80% delle aziende agricole nel mondo lavora su microappezzamenti che non superano i 2 ettari. L’articolo in questione sottolineava anche che la proprietà in poche mani però non sta portando a un utilizzo razionale delle risorse del pianeta Terra.

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I “bio-distretti”, un’opportunità per i territori

La Commissione europea ha definito per l’Unione un piano d’azione per l’agricoltura biologica attraverso cui, nell’ambito della strategia Farm to Fork del Green Deal, dovrà essere raggiunto l’obiettivo del 25% dei terreni agricoli coltivati con il sistema biologico entro il 2030, contemporaneamente ad un aumento significativo dell’acquacoltura biologica; in tale ambito l’azione 14 del piano è volta ad incoraggiare gli Stati membri a sostenere lo sviluppo dei “Bio-Distretti”.
Cosa si intende per Bio-Distretto? Un Bio-Distretto è un’area geografica in cui agricoltori, cittadini, operatori turistici, associazioni ed Enti pubblici stipulano un accordo per la gestione sostenibile delle risorse locali, basata sulla produzione e il consumo di prodotti biologici (filiera corta, gruppi di acquisto, mense biologiche negli uffici pubblici e nelle scuole). Nei Bio-Distretti, la promozione del prodotto biologico è indissolubilmente legata alla valorizzazione del territorio e delle sue peculiarità affinché possa esserne realizzato tutto il potenziale economico, sociale e culturale.
Secondo la mappa dei bio-distretti europei, creata e recentemente aggiornata da IN.N.E.R.- International Network of Eco-Regions -, in Italia i distretti biologici sono attualmente 42 (di cui alcuni in via di costituzione). L’ultimo realizzato in ordine di tempo (dicembre 2021) è il Distretto Biologico della Regione Marche, creato dall’amministrazione regionale e che coinvolge tutto il territorio marchigiano
La loro creazione si è dimostrata efficace nell’integrare l’agricoltura biologica e le attività locali, per migliorare il turismo locale anche nelle aree a minor vocazione turistica, a rafforzare la lavorazione locale dei prodotti, favorire il mantenimento e l’incremento di realtà produttive e di trasformazione anche di piccola dimensione economica, promuovere circuiti commerciali corti e la vitalità rurale, concorrere ad evitare lo spopolamento delle campagne, con influenze positive sullo stile di vita, sull’alimentazione, sull’uomo e sulla natura, con grande apprezzamento da parte dei consumatori, dare un’identità specifica a un’area geografica.
È di tutta evidenza l’attrattiva che può avere un territorio in grado di presentarsi come “pulito” e in grado di offrire produzione agroalimentari tipiche, non rinvenibili altrove, produzioni che sono in grado di associare alla qualità organolettica l’immagine di una alimentazione più sana.
La creazione e promozione dei distretti biologici è sostenuta dal ‘Fondo per l’agricoltura biologica’, una legge del 2019 che finanzia misure per favorire forme di produzione agricola a ridotto impatto ambientale. Il Fondo ha avuto una dotazione di 5 milioni di euro annui a partire dal 2020, a cui si sono aggiunti ulteriori 15 milioni con un accantonamento aggiuntivo nel 2021. Il 30% delle risorse finanziarie del Fondo è dedicato ai bio-distretti, e il Ministero delle Politiche Agricole (Mipaaf) sta ora attuando le procedure per l’emanazione dei bandi pubblici per l’assegnazione dei fondi previsti.
E’ molto importante, per la loro realizzazione ed il loro successo, il ruolo delle amministrazioni locali che, attraverso le loro scelte, sono in grado di influenzare le abitudini dei consumatori e dei mercati locali.

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L’afide che minaccia i cipressi di Bolgheri

Questa non è la prima volta che i cipressi di Bolgheri si ammalano. Qual è la causa e come si manifesta la malattia?
Va ricordato in primo luogo che in questo caso non si tratta di una malattia, come ad esempio per le infezioni del Cancro del Cipresso il cui agente patogeno è un fungo, ma bensì degli attacchi di un Insetto l’Afide del Cipresso. Detto questo si evidenzia che gli arrossamenti e disseccamenti di porzioni di chioma sono determinati da incrementi improvvisi delle popolazioni dell’Afide le cui popolazioni possono in breve tempo aumentare in modo esplosivo in quanto una sola femmina può dare origine in un anno a 2 milioni di miliardi di Afidi capaci di occupare 6 miliardi di m2 ovvero una superficie di 60.000 ha, pari a circa 6 volte l’intero Comune di Firenze che complessivamente occupa poco più di 10.000 ha.

Quali sono i rimedi possibili? E' davvero necessario abbattere e rimuovere le piante malate, danneggiando un paesaggio famoso nel mondo? 
Anche nel caso di infestazioni anche gravi di Afide del Cipresso, con estesi disseccamenti di porzioni delle chiome della Conifera, di norma non è saggio procedere subito con abbattimenti in quanto solo in limitate occasioni gli attacchi di questo Insetto compromettono del tutto la vitalità delle piante colpite. Può essere invece utile come prima cosa l’immediato lavaggio delle chiome con acqua addizionata di saponi per ripulirle dalle fumaggini che si sviluppano sulla melata prodotta dall’Afide e ricoprono le parti verdi ostacolando respirazione e fotosintesi.

Gli interventi necessari sono molto costosi? E' possibile prevenire questa avversità prima di doverla curare con interventi drastici?
Come spesso succede anche in altri settori prevenire è sempre meglio che intervenire tardivamente, quando ormai anche i non specialisti possono rendersi conto dei danni guardando i cipressi con chiome più o meno arrossate a chiazze. Quello che è importante sottolineare è che sarebbe necessario un monitoraggio periodico, condotto annualmente da personale addestrato e competente, per rilevare lo sviluppo delle popolazioni di Afide del Cipresso e la loro entrata in fase di supermoltiplicazione: questo permetterebbe di fare per tempo interventi mirati di costo contenuto, con prodotti a basso impatto ambientale, prima del verificarsi di danni gravi, salvaguardando in modo corretto ed efficace questo patrimonio naturale e storico.

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Sedici anni dopo la messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale

Sedici anni dopo la messa al bando degli antibiotici in alimentazione animale in Europa, l’argomento continua ad essere globalmente attuale. L’uso troppo “disinvolto” di queste sostanze come promotori di crescita ha causato il deleterio fenomeno della resistenza microbica agli antibiotici (AMR), con la conseguenza che molti microrganismi patogeni, anche per l’uomo, sono divenuti resistenti alle terapie antimicrobiche.

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A 100 anni dal Convegno di San Donà di Piave: i Consorzi di bonifica fra passato e futuro

Nel marzo del 1922 San Donà di Piave ospitò un congresso che rappresentò l’inizio di una ampia riflessione sul ruolo della bonifica in Italia. Nel giro di alcuni anni la legislazione italiana si evolse arrivando all’adozione del Regio Decreto n. 215 del 13 febbraio 1933, noto come “legge Serpieri” che introduceva nell’ordinamento italiano il concetto di bonifica integrale e dava un ruolo fondamentale per i Consorzi di bonifica.

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La certificazione tutela produttori e consumatori

Dottor Liberatore, ci può raccontare innanzitutto brevemente come è nata Valoritalia?
Valoritalia è stata costituita nel 2009 su iniziativa di Federdoc, la federazione nazionale dei consorzi di tutela vitivinicoli, e di CSQA uno dei più importanti organismi di certificazione in ambito agroalimentare in Italia, attiva prevalentemente in settori diversi dal vino. Il know how dei consorzi, insieme all’expertise di CSQA ci hanno permesso di diventare in pochi anni la società di certificazione leader nel settore enologico. Oggi certifichiamo i vini di 216 denominazioni di origine italiane che nel loro insieme danno vita a una produzione annua a 1,7 miliardi di bottiglie, pari a circa il 60% di tutta la produzione italiana dei vini di qualità e con un fatturato di 9,4 miliardi di euro. Siamo certi che il modello di certificazione italiano, soprattutto nell’ambito vitivinicolo, sia quello che garantisce meglio il consumatore e le aziende. La certezza di rappresentare un esempio per gli altri Paesi ci sta facendo riflettere da tempo su un possibile salto nel panorama internazionale. Per perseguire questa finalità, contiamo sul supporto di , DNV AL, uno degli organismi di controllo più importanti al mondo, con sedi in tutti i continenti e quartier generale in Norvegia, che da due anni è entrato nella nostra compagine societaria.
Il nostro percorso di crescita è solo all’inizio!

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Suolo: come invertire la rotta verso il degrado?

Dottor Costantini, il recente rapporto Onu “Global Land Outlook 2” sull’uso del suolo, lancia un chiaro allarme e sottolinea il ruolo, tutt’altro che positivo, del sistema della produzione alimentare sul degrado delle terre. Ad oggi, l’uomo avrebbe alterato il 70% del suolo su cui ha messo piede e ne avrebbe degradato fino al 40%, in tanti modi: la deforestazione, l’agricoltura intensiva, gli incendi, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico del suolo, le guerre, la costruzione di infrastrutture. Siamo veramente a un punto di non ritorno?
Certamente se facciamo una valutazione globale e facciamo riferimento alla fertilità e allo stato di salute dei suoli coltivati in riferimento alle condizioni naturali, non antropizzate, la situazione è allarmante. Le attività dell’uomo hanno interessato circa il 40% della superficie terrestre e quasi il 92% delle praterie/steppe naturali è stato destinato all'uso umano, compresi i pascoli e i terreni coltivati. Attualmente si hanno 1.426 milioni di ha di terreno coltivato, 165 di colture permanenti e 3.275 di pascoli e pascoli. Solo per avere un’idea, si stima che con la messa a coltura delle praterie naturali si sia perso circa il 40% della loro dotazione di carbonio organico, elemento essenziale della fertilità del suolo.
Però vorrei ricordare che il processo di degradazione della fertilità naturale del suolo è complesso e va inquadrato in un contesto storico e geografico. Vi sono marcate differenze tra le aree del mondo da più tempo coltivate e quelle che solo più di recente sono state messe a coltura. Nelle terre di più antica coltivazione, in particolare, l’impatto dell’uomo sul suolo non è stato uniforme nel tempo e nello spazio, ma ha visto fasi di intensa degradazione alternate a fasi di recupero e anche di miglioramento della fertilità. La prima crisi ambientale si è avuta con l’avvento dell’era dei metalli, circa 5000 anni fa. Con l’aiuto dei metalli l’uomo ha compiuto estesi disboscamenti per la messa a coltura di suoli anche molto fragili. L’avvento dei metalli ha anche aumentato la diffusione degli incendi e delle guerre, con le conseguenti ampie devastazioni. Ne sono conseguiti intensi fenomeni di erosione idrica, ma anche eolica, aggravati in concomitanza di periodi o eventi climatici aridi. Intere civiltà sono scomparse, come l’impero accadico in Medio Oriente. Testimonianze di tali processi di erosione e deposizione di coltri eoliche sono diffuse e documentate anche in Italia. L’agricoltore però ha reagito. L’inizio della diffusione dei terrazzamenti in tutto il mondo si è avuta proprio in quel periodo storico, come risposta alle evidenti perdite di suolo e di fertilità dei campi coltivati in pendio.
Fasi alternate di degradazione e di recupero di fertilità del suolo si sono avute anche successivamente, in particolare in epoca classica, nel medioevo, e intorno al piccolo glaciale (1600-1800) nell’emisfero boreale. Il recupero di fertilità è stato ottenuto attraverso tutta una serie di pratiche agronomiche che, come è noto, anche studiosi dell’Accademia dei Georgofili hanno contribuito a diffondere, non solo in Italia.
La situazione è profondamente cambiata a partire dalla metà del secolo scorso, con la diffusione di una agricoltura sempre più impattante sul suolo, basata sull’uso di macchinari sempre più pesanti, sull’introduzione di sistemi colturali sempre più intensivi, basati su poche specie e varietà coltivate, spesso accompagnati dall’abuso di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi e su un eccessivo ricorso all’irrigazione, non di rado con uso di acque salmastre. L’impatto di questo modello di sfruttamento intensivo del suolo è stato ed è particolarmente grave nei suoli di limitata fertilità naturale, con conseguenze ambientali, economiche e sociali, anche gravissime. La degradazione più grave porta alla desertificazione, che purtroppo si sta diffondendo particolarmente proprio nelle aree di più recente messa a coltura, a causa dell’uso sconsiderato (o disperato) dei suoli più fragili. Adesso ci troviamo quindi in un’altra fase cruciale, dove c’è bisogno di una reazione collettiva e di un cambiamento di modello di riferimento.

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Agro-zootecnia integrata e sua intensificazione sostenibile: ragioni di una apparente riscoperta

L’obiettivo della sicurezza alimentare, necessaria per la salute dell’uomo grazie a diete corrette per quantità e qualità, implica la presenza di alimenti di origine animale (AOA), ma non può prescindere dall’impatto ambientale di questi ultimi; di qui l’approccio One Health che integra le esigenze di salute del pianeta, con quella degli animali (e piante), entrambe importanti per garantire la salute degli uomini. Tuttavia, per evitare false interpretazioni, è anzitutto necessario correggere talune informazioni assai diffuse e non sempre del tutto corrette.

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Autofertilità e portinnesti nanizzanti alla base del successo mondiale della cerasicoltura

Tra le drupacee, il ciliegio è la specie che da più lungo tempo gode di un positivo trend di crescita in tutti i continenti. Le principali ragioni di un tale successo sono due: la diffusione delle cultivar autofertili, più costantemente produttive delle vecchie cultivar autoincompatibili e i nuovi portinnesti nanizzanti che hanno consentito una sensibile riduzione dei costi di produzione. Molte sono le istituzioni e i privati impegnati nell’ attività di miglioramento genetico sia delle varietà che dei portinnesti, ma il maggior merito di questa rivoluzione colturale va a due istituzioni: la Stazione Sperimentale di Summerland in British Columbia (Canada) per le cultivar autofertili e l’Università Justus Liebig di Giessen in Germania per i portinnesti.  Il primo programma è legato a Karlis O. Lapins, il secondo a Werner Gruppe e Hanna Schmidt.
La storia di Lapins è piuttosto singolare e merita di essere raccontata: è nato in Lettonia nel 1909 dove ha studiato agricoltura presso la locale Università; durante la seconda guerra mondiale ha vissuto 4 anni come rifugiato in Germania e alla fine della guerra emigrò in Canada dove ha lavorato come operaio agricolo presso la Stazione Sperimentale di Summerland e poi come tecnico presso l’Associazione Frutticoltori della British Columbia. Ha infine conseguito il Master Degree presso l’Università di Vancouver e, nel 1953, è stato assunto dalla Stazione Sperimentale di Summerland come breeder, dedicandosi, in particolare, al miglioramento genetico del ciliegio dolce. Al tempo tutte le varietà di ciliegio coltivate erano autoincompatibili che, per fruttificare, hanno necessità di impollinazione incrociata e, pertanto, la consociazione di due o tre cultivar interfertili. Presso il John Innes Institute di Norwich (UK), all’inizio degli anni ’50, dall’incrocio Emperor Francis x polline irraggiato di Napoleon era stata ottenuta la selezione autofertile JI2420, di nessun valore colturale ma portatrice del carattere prezioso dell’autofertilità.  Lapins ne intuì il grande valore per il suo programma di breeding e, nel 1956, la incrociò con Lambert introducendo, nel 1968, la prima cultivar commerciale autofertile cui diede il nome di Stella.
Il programma di Summerland è stato per molti anni il più importante a livello mondiale e ha dato cultivar di grande valore come Celeste, Samba, Cristalina, Sunburst, Sweetheart, Skeena, Canada Giant, Lapins e tante altre, diffuse nei cinque continenti e ben note ai cerasicoltori italiani. La cv Lapins, dall’incrocio Van x Stella e selezionata da Lapins prima del pensionamento, ma introdotta come cultivar successivamente, gli è stata dedicata su proposta unanime dei cerasicoltori canadesi, riconoscenti per il contributo dato dal dr. Lapins all’economia agricola del territorio. Il merito di Lapins va, comunque, ben aldilà delle cultivar da lui costituite; le sue varietà, Stella in primo luogo, sono le progenitrici di tutti gli attuali programmi di miglioramento genetico nel mondo. Tra questi, si distingue quello dell’Università di Bologna, nella persona di Silviero Sansavini con la collaborazione di Stefano Lugli, che già alla fine degli anni ’80 aveva iniziato una collaborazione con Summerland avviando un proprio programma di miglioramento genetico per la costituzione di varietà autofertili, selezionate per le condizioni ambientali e commerciali del nostro Paese. Le prime cultivar autofertili di Bologna della serie Star (Blaze Star, Early Star, Lala Star) sono state introdotte nel 1997; successivamente è stata introdotta la serie Sweet (Sweet Early, Sweet Aryana, Sweet Dave, Sweet Gabriel, ...). Le cv di Sansavini e Lugli sono oggi coltivate in tutto il mondo e sono un vanto della ricerca italiana.

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Il verde in città è fondamentale ma va ben pianificato

Professore Ferrini, Firenze è stata recentemente selezionata dalla Ue per l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2030, Lei invece con il suo dipartimento universitario collabora al progetto Prato Forest City, per la forestazione urbano della città, ed ha più volte sostenuto nei suoi libri e in molti articoli il bisogno del verde in città: come pensa che sia possibile attuare questa “rivoluzione verde”?
Occorre partire dalla constatazione che le nostre città, pur essendo i motori della crescita economica, propulsori di idee e centri nevralgici di creatività e di innovazione tecnologica, sono purtroppo spesso caotiche, inquinate, rumorose e fonte di stress. C’è bisogno di riprendere un contatto con la natura che purtroppo il gigantismo delle realtà metropolitane ha fatto perdere, in Italia e anche all’estero.
C’è necessità di trovare aree verdi che consentano una rigenerazione a livello psico-fisico. Il verde aiuta ad accrescere non solo il benessere ambientale, ma anche quello sociale. Per questo esprimo la necessità di un’autentica rivoluzione verde. Essa deve partire dall’incremento della copertura arborea delle nostre città che, purtroppo, attualmente è molto al di sotto del “minimo sindacale” non solo in molte grandi città ma anche, soprattutto, nelle realtà medie e piccole – anche per la loro conformazione storica - dove la cementificazione e il consumo di suolo hanno allontanato il cosiddetto territorio aperto, dove è presente l’elemento naturale.
Dobbiamo creare città più verdi, ambienti concreti dove è possibile vivere bene. Quindi occorre partire dalla misurazione della copertura arborea, comprendere dove sono più sensibili le carenze di aree verdi, di alberi e da lì intervenire per creare le condizioni su misura dal punto di vista ambientale.

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Quando la guerra si combatte con l'economia

La data del 9 maggio, passaggio evocativo in cui la Russia ricorda con accentuata enfasi la fine della “Grande guerra patriottica” che per tutti è la seconda guerra mondiale, è superata. Ma il conflitto fra Russia e Ucraina prosegue il suo drammatico corso senza lasciar intravedere soluzioni possibili a una guerra in gran parte inedita e imprevedibile sviluppata su tre fronti: quello militare convenzionale con il suo corredo di morte e distruzione, quello economico fatto di sanzioni e ritorsioni, quello mediatico costituito da una serie infinita di notizie, vere o costruite ad arte. Queste hanno l’intento di agire spregiudicatamente tramite i mezzi di informazione sulle popolazioni coinvolte e sull’opinione pubblica mondiale.  Rispetto ai conflitti del Novecento ed a quelli minori di questo secolo il peso del “fronte” convenzionale, pur determinante, è inferiore a quello degli altri due più che in passato. La temuta soglia dell’estensione della guerra guerreggiata al mondo intero non è stata oltrepassata, anche se incombe sul contesto.
La scelta dei Paesi Occidentali di sostenere con lo strumento delle sanzioni economiche l’Ucraina ha assunto un rilievo che è ancora da valutare. Il ricorso ad esso non è una novità ed ha precedenti storici noti avendo colpito, ad esempio, anche l’Italia negli anni ’30 del Novecento. Di recente è divenuto tipico delle guerre commerciali, come nell’ultimo decennio dopo la fase dello sviluppo della globalizzazione e della multilateralità delle trattative e delle regole che ne scaturivano. Nel contesto Gatt/Wto l’imposizione di sanzioni si accompagna a quella di ritorsioni ed entrambe sono sottoposte, o dovrebbero esserlo, a procedura di composizione del conflitto ed alla riduzione/eliminazione delle misure adottate.
L’uso attuale a fini bellici apre una pagina nuova ancora tutta da scrivere, ma con ricadute estremamente serie, anche se talvolta paradossali, come nel caso delle materie prime energetiche in cui, pur combattendo aspramente, le parti continuano a scambiare merci e a corrispondere pagamenti.

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Nuove emergenze e necessità di una programmazione di sviluppo rurale di lungo termine

Gli echi degli orrori della guerra ci rattristano, ci preoccupano notevolmente e ci fanno pensare e riflettere. Oltre ad essere coinvolto emotivamente come tutti, avverto anche un senso di frustrazione nella veste di un vecchio ricercatore che si è sempre occupato di agricoltura, o meglio di valorizzazione della risorsa suolo al fine di essere utilizzato secondo la sua vocazionalità per ottenere prodotti e, quindi, cibo di ottima qualità. All’improvviso si è scoperto una nuova emergenza e cioè che non abbiamo più materie prime per la nostra alimentazione, come il grano perché, a causa della guerra, ci manca quello importato da Russia e Ucraina. Ci sarebbe anche da riflettere su tutte quelle pubblicità che ci inondavano sui mas media circa le qualità di pasta e pane prodotti con grani e farine al 100% italiane; ci sarebbero gli estremi per stabilire se si trattava di pubblicità ingannevole? Ma tanto nel bel Paese non paga nessuno!

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I trend delle tecnologie nel settore agroalimentare e gli obiettivi del PNRR

Il CL.USTER N.AZIONALE A.GRIFOOD ha elaborato e presentato a Parma il 5 maggio scorso durante lo svolgimento di CIBUS, il position paper per la Crescita Economica e Sostenibile del settore Agroalimentare italiano basato su ricerca e innovazione, inquadrando quattro trend tecnologici progettuali, su cui si sono raccolte manifestazioni di interesse di grande imprese, PMI e associazioni agricole e industriali.

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Varietà resilienti per il contrasto ai cambiamenti climatici

Lunedì 4 aprile 2022, è stata pubblicata l’ultima parte del “VI Rapporto di valutazione dell’IPCC” (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico). Il verdetto è drammatico: se la civiltà umana non modifica radicalmente il rapporto con la natura, di qui alla fine del secolo, il riscaldamento globale potrebbe arrivare a sfondare quota 3 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali, aprendo scenari catastrofici. In altre parole, il futuro è già qui: occorre pensare la fine. Cosa significa? Significa, innanzitutto, riconoscere che eventi, un tempo remoti e poco probabili, sono ora un orizzonte vicino e definito; sappiamo cosa ci riserva un futuro ormai alle porte. Le avvisaglie sono già incontrovertibili: intere zone del mondo flagellate da siccità e desertificazione senza precedenti, estinzione di massa negli oceani (l’aumento della temperatura, la diminuzione dell’ossigeno e l’inquinamento da plastica stanno già provocando danni a vongole, gamberetti, alle barriere coralline ed a numerosi pesci), molte popolazioni che vivono in condizioni di grave siccità idrica, fenomeni meteorologici sempre più erratici e imprevedibili, 700 milioni di persone che rischiano entro i prossimi cinque anni di dover abbandonare i luoghi in cui vivono (profughi climatici).

Il paradosso dell’agricoltura
L’agricoltura contribuisce al cambiamento climatico ma, a sua volta, ne subisce gli effetti; essa deve quindi affrontare una doppia sfida: ridurre le emissioni di gas che alterano il clima (mitigazione) e, contemporaneamente, adattarsi alle nuove condizioni climatiche (resilienza).
Per ridurre l’impatto sull’ambiente è necessario un radicale cambiamento dei modelli di agricoltura fin qui perseguiti: oggi, produrre significa impiegare meno suolo, meno presidi chimici, minori emissioni di CO2 nell’aria, ottenere alimenti salubri ricercati da un consumatore sempre più attento.
Produrre cibo salvaguardando al contempo l’ambiente 
L’agricoltura, perciò, al pari di altre attività, deve contribuire alla riduzione del livello complessivo delle emissioni e può farlo sia in modo diretto, che indiretto. Nel primo caso, utilizzando con criteri più razionali i mezzi tecnici (combustibili, lubrificanti, concimi, fertilizzanti, fitofarmaci), nel secondo caso, sfruttando le prerogative delle piante verdi di sottrarre CO2 dall’atmosfera e trasformarla, mediante fotosintesi, in biomasse vegetali, che vengono trasferite (totalmente o in parte) al terreno (“sequestro” del carbonio). Perciò, la riduzione del global warming operata dall’agricoltura si attua anche attraverso rimboschimento, ripristino delle terre degradate, aumento dell’accumulo di carbonio nel suolo, riciclo e valorizzazione dei rifiuti per la produzione di energie rinnovabili; ovvero,  attraverso modelli colturali sostenibili in grado di valorizzare le interazioni biologiche tra tutte le componenti degli agro-ecosistemi e ridurre gli sprechi, secondo i principi dell’economia circolare (compostaggio dei rifiuti organici, trattamento controllato delle acque di scarico, riciclo dei rifiuti).

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Rapporto chioma/radice. Base fisiologica per produzione e longevità del vigneto

L’accrescimento radicale è condizionato dalla disponibilità di carboidrati e dalla produzione di bioregolatori endogeni provenienti dalla porzione epigea. Un’eccessiva crescita della parte aerea, rispetto all’apparato radicale, genera un aumento di auxine, le quali vengono trasferite per via floematica alle radici dove indurranno una risposta, attraverso un maggior sviluppo delle radici, per compensare le esigenze vegetative della pianta. All’opposto, un eccessivo sviluppo dell’apparato radicale, rispetto alla parte aerea, provoca un aumento di citochinine che verranno trasferite per via xilematica alla parte aerea, determinando così un maggiore sviluppo vegetativo e una crescita delle gemme laterali, che consentiranno di “smaltire” l’eccesso delle risorse assorbite per via radicale.

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La cucina del vuoto

Superata ed in buona parte abbandonata la fase delle tecniche chimiche, oggi sono le tecniche fisiche che hanno maggiore successo, anche per la loro sicurezza e versatilità e tra queste ultime le tecniche pressorie, positive (iperpressioni) e negative (vuoto più o meno spinto), stanno avendo un gran successo. In una rassegna sulle nuove frontiere dell’Europa, la prestigiosa rivista Time (ottobre 2006, pag. 56 – 57) ha dedicato ampio spazio alla cosiddetta “cucina del vuoto” o, meglio, “cucina a basse pressioni” o “cucina delle ipopressioni” e su questa cucina esiste ora una buona bibliografia anche con ricette.

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Il carrubo, una risorsa per gli agroecosistemi mediterranei

Nella sfida ai cambiamenti climatici emergono le potenzialità di specie minori, sottoutilizzate rispetto ad altre, ma particolarmente interessanti per caratteristiche di rusticità, resistenza alla siccità e quindi capaci di valorizzare le aree meridionali dell’Italia. In che senso il carrubo fa parte di queste piante?
Il carrubo rappresenta un fruttifero minore che sta facendo registrare negli ultimi anni un rinnovato interesse per l’utilizzo dei prodotti derivati dal seme nell’industria agroalimentare. Inoltre riscuote crescente interesse per le caratteristiche di resistenza e adattamento a condizioni pedoclimatiche marginali. La specie, sebbene sia una leguminosa, non è in grado di fissare l’azoto atmosferico come erroneamente ritenuto in passato ma manifesta livelli molto elevati di utilizzo dell’azoto grazie all’elevato tasso di fotosintesi a carico delle foglie più giovani. Anche con riferimento all’utilizzo dell’acqua, il carrubo si caratterizza per una fisiologia contrassegnata da meccanismi di adattamento agli stress idrici sia attraverso la riduzione delle richieste evapotraspirative che per le caratteristiche dell’apparato radicale. Questo, anche a causa della propagazione per seme, tipica della specie, è in grado di esplorare il suolo in profondità e, pertanto, di ricercare acqua anche in strati meno superficiali.

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Il consumo di carne tra sostenibilità, fake news, benessere animale e crisi ucraina

Professore Pulina, innanzitutto congratulazioni per la sua recente nomina tra i 1000 Top Animal Scientist del mondo. E' un importante riconoscimento che conferisce autorevolezza al suo lavoro e in particolare all'Associazione Carni Sostenibili, di cui è Presidente, che ha tra gli obiettivi primari quello di fornire informazioni attendibili ed equilibrate su salute, alimentazione e sostenibilità.
Grazie, ma non sono solo. Per fortuna una folta pattuglia di scienziati dei settori zootecnico e veterinario è stata inclusa in questa graduatoria (25 in totale) e ben 63 animal scientist sono stati inclusi nel top 2%  del ranking compilato dal database dell'Esevier pubblicato nell'ottobre 2021. Molti di questi Colleghi sono Georgofili, a conferma della qualità scientifica degli Accademici.

Come riporta il sito di Carini Sostenibili (https://www.carnisostenibili.it/), secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio permanente Censis-Ital Communications sulle Agenzie di comunicazione, in Italia circa 14 milioni gli italiani usano Facebook come fonte di informazione e 4,5 milioni si informano esclusivamente sui social network. Ma non solo, secondo lo Science Post, il 70% degli utenti che leggono notizie online si limita al titolo.
Stando così le cose, il rischio di cadere vittime di bufale e fake news sul consumo di carne diventa sempre più concreto. Quali sono le più comuni? A suo giudizio i consumatori italiani sono così sprovveduti?
Le fake news più comuni riguardano la sostenibilità ambientale delle produzione della carne (una vacca inquina più di un auto, i bovini sono la principale fonte di impatto ambientale, ecc...) e la salubrità dei prodotti carnei (la carne rossa provoca il cancro, consumare carne porta all'obesità, ecc..), informazioni non solo infondate, ma pericolose per la salute pubblica e per lo stato nutrizionale delle persone appartenenti soprattutto alle fasce estreme (bambini, adolescenti e anziani)  e deboli (soggetti fragili e convalescenti) della popolazione. I consumatori italiani per fortuna "si bevono poco" questa battaglia martellante, portata avanti sfortunatamente non solo dai social, ma anche dai legacy media (soprattutto quotidiani) per i quali veganesimo e antispecismo sono temi "cool". La stragrande maggioranza degli italiani consuma carne in maniera responsabile e la considera parte integrante della dieta mediterranea, per fortuna.  

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La Douglasia, veloce a crescere e resistente alla siccità, è un alleato nel contrasto ai cambiamenti climatici

Dottor Pozzi, Lei, insieme al Prof. Orazio La Marca, è coordinatore del Progetto Do.Na.To per la creazione di una filiera toscana del legno di douglasia. Ci può innanzi tutto spiegare la tipologia di questo abete e il motivo di questo interesse per la sua coltivazione in Toscana?
La Douglasia (Pseudotsuga menziesii var. menziesii Mirb.Franco) è una conifera originaria della parte occidentale del continente nord americano, con areale che si distende seguendo l’asse delle Montagne Rocciose dalla Columbia Britannica al Nuovo Messico. Fa parte delle cosiddette conifere giganti del Nord America, un gruppo di specie capaci di raggiungere dimensioni imponenti e formare boschi con elevatissime provvigioni legnose. Questa specie fu introdotta in Europa nella seconda metà del 1800 come curiosità botanica e poi, una volta esperite con successo le verifiche di acclimatazione, tenuto conto delle condizioni di sovrasfruttamento dei boschi italiani, si pensò che l’introduzione di una specie altamente produttiva potesse migliorare il nostro patrimonio boschivo. Negli anni ’20 del secolo scorso, dopo uno studio approfondito delle condizioni pedoclimatiche dell’area di indigenato della Douglasia ad opera del Prof. Aldo Pavari, furono impiantate 86 parcelle a scopo sperimentale, distribuite in quasi tutta l’Italia, con prevalenza in zone dell’Appennino centrale che manifestavano buone affinità climatiche con le aree di indigenato della specie. I primi impianti su vasta scala ebbero inizio nel primo dopoguerra soprattutto nell’Appennino settentrionale e poi in quello centrale e meridionale (Bernetti e de Philippis (1990). I rimboschimenti interessarono per lo più i terreni di collina e bassa montagna, replicando anche nel nostro continente le straordinarie capacità produttive e l’adattabilità a vari tipi di ambienti. La douglasia forma attualmente i soprassuoli forestali più produttivi d’Italia e d’Europa, con produzioni che a 50 anni raggiungono i 900-1.000 mc/ha; in alcune particelle sperimentali a Vallombrosa si sono misurati, proprio nell’ambito delle indagini condotte dal progetto Do.Na.To., 1.600 mc/ha a 90 anni, tanto da considerarli verosimilmente tra i soprassuoli forestali europei con la più alta provvigione legnosa. Sempre a Vallombrosa c’è la pianta più alta d’Europa, una douglasia che nel 2017 aveva superato il metro di diametro e oltrepassava i 62 metri di altezza. La Toscana è la regione italiana in cui la douglasia è più presente, caratterizzando circa 7.000 ettari di soprassuoli, fra boschi puri e misti con altre specie. Molti dei soprassuoli di conifere presenti lungo il crinale appenninico sono costituiti da douglasia che oramai è entrata a far parte del paesaggio consolidato di ampi territori, quali il Casentino, il Pratomagno o l’alto Mugello. L’interesse per questa specie è nato da una serie di considerazioni legate alla sua straordinaria produttività associata alla elevata qualità tecnologica del legname (accoppiata questa alquanto insolita), resistenza alla siccità, facilità con cui può rinnovarsi naturalmente, la minor esposizione ai danni da brucamento rispetto a molte specie di interesse forestale, la buona resistenza a importanti fitopatie, la notevole plasticità ad ambienti pedologici alquanto diversificati, l’aspetto paesaggistico gradevole che richiama quello delle abetine presenti nel nostro Appennino e, non ultima, la straordinaria efficienza come carbon sinker, sia per la rapidità di stoccaggio (velocità di crescita) che per la durata del legname ritraibile (legno destinabile in larga misura ad usi di lunga durata). Tutto questo ne fa un importante, e probabilmente irrinunciabile, alleato per lo sviluppo della selvicoltura appenninica.

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