Kalòs kai agathòs, bello è anche buono. Secondo gli antichi Greci questa equazione tra i due termini indica l'ideale di perfezione umana e la bellezza è considerata un dono divino. Per Platone (428 a. C. – 348 a. C.) il bello è lo splendore del vero e Immanuel Kant (1724 – 1804) è convinto che il bello sia il simbolo del bene etico. Il binomio bello uguale a buono è ancora vero per il cibo?
Le alluvioni e il disastro idrogeologico e umano avvenuto nei giorni scorsi nelle Marche ci fanno giustamente preoccupare: cosa avverrebbe dove abito io se arrivasse una bomba d’acqua simile? Ogni volta che sentiamo soffiare forte il vento e vediamo avvicinarsi il mal tempo temiamo che il consueto temporale di una volta si trasformi in una catastrofe. Anche le persone meno informate e più scettiche ormai possono constatare direttamente le conseguenze dei cambiamenti climatici e osservare come il territorio diventi sempre più fragile e a rischio di dissesto. Una volta il dissesto interessava soprattutto le campagne e i villaggi, ma sempre più di frequente interessa le città. L’urbanizzazione in Italia aumenta a un ritmo forsennato (più di 2 metri quadri al secondo, nel 2021 il valore più alto degli ultimi 10 anni) e gli insediamenti coprono territori sempre più vasti e sempre più densamente urbanizzati, contribuendo ad aumentare il rischio di disastro per persone e cose.
Si richiede giustamente una maggiore cura del territorio e manutenzione delle opere idrauliche, ma ai suoli si pone poca attenzione. In occasione del recente disastro si è detto che a motivo della grande siccità estiva i suoli non hanno consentito alla pioggia di infiltrarsi e hanno favorito lo scorrimento superficiale. In realtà, non è tanto la condizione di suolo secco che impedisce l’accettazione delle piogge, ma il suo compattamento! Un suolo ben strutturato, anche se secco, consente all’acqua di infiltrarsi in profondità, ma non se è compattato. Il compattamento avviene in conseguenza della distruzione della struttura superficiale causata dalla mala gestione agricola. I suoli marchigiani sono spesso molto poveri di sostanza organica, che favorisce la strutturazione del suolo, e quando sono interessati dal passaggio di macchinari pesanti si costipano per molti centimetri. Perdono così un servizio ecologico importante: la regimazione dei deflussi idrici. Abbiamo visto e sentito come in occasione del disastro il livello dell’acqua sia aumentato in pochi minuti; se i suoli avessero trattenuto l’acqua anche solo per poche ore avrebbero dato alle persone il tempo di salvare loro stessi e di limitare i danni. Bisognerebbe davvero realizzare una transizione ecologica nella gestione agricola del territorio agricolo e forestale, basata su una agricoltura sostenibile e di precisione.
Analogamente, nelle città e nei paesi i danni sono stati aumentati dalla cementificazione e quindi dalla impermeabilizzazione del suolo. Guardando il territorio urbano nel dettaglio, si nota la scarsità di aree verdi. E’ vero che nel caso di eventi alluvionali così notevoli, i pochi terreni liberi da insediamenti e drenanti non sarebbero stati sufficienti a infiltrare tutta l'acqua, ma avrebbero certamente contributo a limitare i danni. Un aspetto urbanistico che viene poco considerato infatti è che i suoli delle aree verdi nei centri urbani svolgono importanti servizi ecosistemici, tra cui quello di assorbire le acque in eccesso.
La nuova Politica agricola comune che entrerà in vigore nel 2023, e che accompagnerà di riflesso anche tutti i cittadini europei almeno fino al 2027, ha una grande ambizione ambientale. Destinerà come minimo un quarto degli aiuti diretti ai cosiddetti ‘eco-schemi’ e il 35% dei fondi per lo Sviluppo rurale a misure ad alto valore ambientale. Risultati, questi, che determineranno il contributo fondamentale della Pac e dei nostri agricoltori al raggiungimento degli obiettivi che l’Unione si è posta con il Green Deal e con le due Strategie ‘Biodiversity’ e ‘Farm to Fork’. Target di alto profilo che in linea di principio, anche noi al Parlamento europeo, abbiamo condiviso e sostenuto fin dall’inizio.
Il problema è che a tre mesi dall’avvio di questa grande riforma mancano ancora i testi legislativi che supportino gli agricoltori nel tradurre in pratica la sostanza di quanto indicato dalla Commissione Ue per raggiungere la neutralità climatica nel 2050 e, prima ancora, di ridurre fortemente la chimica nei campi e negli allevamenti e aumentando fino a un minimo del 25% le superfici coltivate con metodo biologico. Tutto questo in un contesto climatico sempre più difficile, con una siccità ormai cronica che impone il ricorso a nuove tecnologie e pratiche agricole da sdoganare a stretto giro sul piano legislativo.
Per ridurre del 50% i fitofarmaci di sintesi per difendere le piante e gli antibiotici per curare gli animali, diminuire almeno del 20% i fertilizzanti – come indicato dall’esecutivo – servono insomma regole forti e chiare: norme che vanno prodotte in tempi molto rapidi facendo leva su tecnologie già esistenti, come le Tecniche di evoluzione assistita, e che il Parlamento e il Consiglio dovranno votare in tempi altrettanto rapidi per dare concreto avvio alla tanto agognata ‘Agricoltura 4.0’.
La gestione sostenibile delle foreste finalizzata alla conservazione
della loro multifunzionalità rappresenta attualmente componente
dominante della Strategia Forestale Nazionale (art.6 c.1 d.lgs.3 aprile
2018, n.34) comprendente, tra gli obiettivi più urgenti, anche la
riduzione della concentrazione atmosferica di CO2 il gas serra
principale responsabile dell’innalzamento globale delle temperature.
L’andamento climatico degli ultimi anni, caratterizzato da
precipitazioni ridotte, anche nel periodo invernale e primaverile,
quando normalmente si registra il picco delle piogge e mal distribuite
(forti temporali alternati a lunghi periodi siccitosi) e da elevate
temperature (ogni anno viene registrato un nuovo record) ha notevolmente
influenzato la fisiologia delle piante, soprattutto di quelle messe a
dimora in ambienti avversi come quelli urbani e ha causato la morte o,
comunque, un forte stato di stress sia in piante affermate, sia,
soprattutto, nei nuovi impianti.
Professore Gucci, nota dolente per tutta l'agricoltura, i
cambiamenti climatici hanno avuto le loro conseguenze anche nel settore
olivicolo. Quali sono le principali e come si stanno affrontando?
Per
comprendere quali sono gli effetti potenziali dei cambiamenti climatici
sull’olivicoltura basta riferirsi all’annata in corso. La primavera e
l’estate sono state contraddistinte da temperature molto elevate
soprattutto in alcune aree normalmente non abituate a questi estremi
termici per cui le temperature nel nord, centro e sud sono state simili.
E’ venuta meno quindi più la tradizionale distinzione tra aree dal
clima fresco o caldo, che di solito viene utilizzata per caratterizzare
l’olivicoltura italiana. Per fare qualche esempio, in Toscana le massime
assolute registrate nei mesi giugno e luglio hanno raggiunto 39,1 °C a
Braccagni (GR) e 39,3 °C a Greve in Chianti (FI) valori molto vicini ai
41,4 °C misurati a Corato (BA) o a Castelvetrano (40,6 °C). Durante i
mesi di giugno e luglio si sono verificate temperature medie massime
superiori a 35 °C per 25 giorni su 61 a Braccagni e a Greve in Chianti,
per 32 a Castelvetrano (TP) e per 25 a Corato (BA). Inoltre, colpisce
l’assenza o quasi di precipitazioni non solo in Sicilia ma nelle
suddette località toscane, in cui la siccità è stata più grave che in
Puglia fino a metà agosto.
Tanti sono gli effetti causati dai
cambiamenti climatici. Sebbene l’olivo sia una specie resistente a
siccità ed alte temperature in presenza di lunghi e intensi periodi di
stress da caldo e carenza idrica si hanno conseguenze negative sulla
produttività. Temperature superiori a 30 °C deprimono l’antesi,
l’impollinazione e la fecondazione. Se la primavera è mite si ha un
anticipo di fioritura, quantificabile quest’anno in 7-15 giorni.
Condizioni di deficit idrico durante lo sviluppo della mignola
diminuiscono il numero di infiorescenze, il numero di fiori (in
particolare di fiori perfetti), e lo sviluppo dell’ovulo. Se la siccità
colpisce anche durante le due-tre settimane prima della fioritura è
possibile osservare la disidratazione dei petali, che cadono
precocemente ancora chiusi e lasciano esposto lo stimma non più
recettivo per l’impollinazione. Sintomi visibili dello stress termico
sono la necrosi di interi frutticini che si possono manifestare già dai
primi giorni dopo l’allegagione. Il problema persiste anche in frutti
più grandi, fino all’indurimento del nocciolo, perché questi organi
mantengono una certa attività degli stomi e quindi la capacità di
termoregolare e contenere l’innalzamento termico entro certi limiti. I
danni sono comunque più comuni sui frutticini nelle prime settimane di
sviluppo, ma ovviamente dipende dalle condizioni di temperatura
atmosferica e dallo stato idrico dell’albero. Il permanere di condizioni
di carenza idrica e alte temperature porta anche a progressive ondate
di cascola dei frutti con conseguenze negative sulla produzione. Come
scritto per la fioritura, siccità e alte temperature soprattutto verso
la fine dell’estate ed inizio autunno conducono ad un anticipo della
maturazione del frutto.
L’annata in corso ha evidenziato quello che
dobbiamo aspettarci per gli anni a venire anche in olivicoltura.
Situazioni di insolite temperature estreme si sono verificate anche in
Spagna, Portogallo, Grecia e perfino nei paesi del centro e nord Europa,
come ci hanno informato i media nel corso dell’estate.
Dallo studio dei dati meteorologici collezionati nel tempo (1881 – 2000)
emerge che sono in atto alcune modifiche dei parametri microclimatici.
Da queste serie storiche si osservano modifiche in aumento nei valori
microclimatici medi e modifiche nei casi estremi. Gli effetti climatici
diventano preoccupanti per l’agricoltura se i cambiamenti avvengono più
velocemente degli adattamenti.
In generale, sono state poste in evidenza:
• variazioni della quantità di pioggia annua e stagionale
• variazione del numero di giorni piovosi e loro ripartizione infra/intrastagionale
• effetti degli stress idrici (e del ristagno) e conseguenti modifiche della profondità di falda
• una generalizzata dilatazione dei singoli periodi di assenza di precipitazione
• un significativo aumento dei casi di periodi secchi, specie di quelli molto lunghi
• i cambiamenti climatici modificano la stagione irrigua ed implicano una maggiore richiesta di risorse idriche di qualità
• un aumento della temperatura media che si accompagna allo stato di
stress idrico provoca un anticipo e un accorciamento del ciclo biologico
delle colture.
Pertanto gli interrogativi da porci sono numerosi e tra questi:
• Quali contromisure attivare per le variazioni climatiche?
• Quanto può essere necessario impostare specifici programmi di breeding?
• Necessità di programmi di breeding per obiettivi a volte opposti a quelli praticati fino
ad ora; infatti disponiamo di varietà selezionate sostanzialmente sulla base di “ideotipi”.
• Quali decisioni agronomiche assumere nel breve periodo?
Un recente studio del centro comune di ricerca della Commissione europea (JRC) ha stabilito che l’etichetta a semaforo sugli alimenti (Nutriscore) è da preferire a quella a batteria (Nutrinform Battery) in quanto più immediata alla comprensione dei consumatori. La tesi è che “le persone preferiscono informazioni semplici e colorate fronte pacco”.
Il problema è che le informazioni fornite dall’etichetta a semaforo sono spesso fuorvianti e scorrette dal punto di vista scientifico, tant’è che penalizzano molti prodotti alimentari italiani, da sempre fiore all’occhiello dieta mediterranea, riconosciuta universalmente come la più sana. Il Nutriscore è infatti un sistema che premia gli alimenti con meno zuccheri, grassi e sale, senza contare l’effettiva quantità del prodotto utilizzata nella dieta; considerando il valore dei nutrienti per 100 grammi, il Nutriscore finisce per scoraggiare il consumo di prodotti salutari come l’olio extravergine d’oliva, considerato paradossalmente meno sano di una bibita gassata senza zucchero.
La notizia del parere favorevole all’etichetta a semaforo ha dunque scatenato un fronte compatto di reazioni negative da parte di tutto il settore agroalimentare italiano. "Il consumatore deve avere il maggior numero di informazioni possibili su cosa sta acquistando, non essere condizionato nelle proprie scelte da una lettera o da un colore, peraltro stabilito in base a un algoritmo sbagliato, fuorviante e superficiale", ha affermato in un comunicato il sottosegretario al Mipaaf Gian Marco Centinaio, commentando le conclusioni dello studio del JRC. Anche Coldiretti, sulla stessa linea, ha sottolineato che “il Nutriscore è un sistema di etichettatura fuorviante, discriminatorio ed incompleto che finisce paradossalmente per escludere dalla dieta alimenti sani e naturali che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali di cui in alcuni casi non è nota neanche la ricetta, mentre, al contrario, l'equilibrio nutrizionale non va ricercato nel singolo prodotto ma nel bilanciamento tra i diversi cibi consumati nella dieta giornaliera e per questo non sono accettabili etichette semplicistiche che allarmano o scoraggiano il consumo di uno specifico prodotto”.
Lo scorso anno nel commentare il consueto rapporto annuale dell’ISPRA
sul consumo di suolo, affermammo che non c’era niente da fare: tale
consumo non si arrestava a dispetto della tanto invocata inversione di
tendenza. Infatti, l’ultimo rapporto ISPRA del 2022 rivela non solo che
nel 2021 non si è arrestato ma, anzi, è addirittura il più alto degli
ultimi 10 anni! Infatti, detto consumo ha viaggiato ad una media di 19
ettari al giorno e una velocità che supera i 2 metri quadrati al
secondo, aggirandosi intorno ai 70 chilometri quadrati.
Il prossimo 22 settembre si svolgerà all'Accademia dei Georgofili un
evento formativo su "I nodi del giornalismo agroalimentare tra
divulgazione e scienza", organizzato da ASET (Associazione Stampa
Enogastroagroalimentare Toscana" in collaborazione con i Georgofili e
l'Ordine dei Giornalisti (per informazioni: https://www.georgofili.info/eventi/i-nodi-del-giornalismo-agroalimentare-tra-divulgazione-e-scienza/22164).
Ne parliamo con Stefano Tesi, giornalista ASET, che modererà l'incontro.
Stefano, da cosa è nata l'esigenza di una specifica opportunità di formazione in campo agroalimentare per i giornalisti?
Da
ormai alcuni decenni temi come alimentazione, agricoltura, paesaggio,
agroalimentare, cibo, enogastronomia e critica enogastronomica, tutti
intrecciati tra loro, hanno trovato nelle cronache giornalistiche, anche
generaliste, uno spazio prima sconosciuto. Le ragioni sono note, ma il
punto davvero saliente è che l'opinione pubblica mostra un interesse
sempre maggiore su questi argomenti e il sistema dell'informazione cerca
di assecondare questa domanda. Per motivi lunghi da spiegare, che però
gli addetti ai lavori conoscono bene, gli italiani hanno quasi del tutto
dimenticato il loro passato rurale e perduto quelle nozioni in materia
che, per le generazioni del passato, facevano parte della "cultura
generale". Questo gap culturale coinvolge non solo i lettori ma,
ovviamente, anche i giornalisti chiamati a intermediare le notizie. Da
qui l'idea di aiutare i colleghi con un corso "di metodo" che offra loro
alcuni strumenti per colmare, almeno in parte, questa lacuna.
Che cosa causa, secondo te, le maggiori e più frequenti inesattezze che si leggono o sentono di questi tempi?
Direi che ci sono due concause. La prima è che, quanto più un argomento necessita di approfondimento, tantopiù trattarlo comporta la necessità di conoscenze tecniche specifiche: conoscenze che spesso, per le ragioni spiegate sopra, non ci sono e spingono ad affrontare le cose con una fretta, un'ingenuità o una superficialità che generano topiche, abbagli, leggende metropolitane o vere e proprie sciocchezze. La seconda, conseguente, attinge alla natura intrinsecamente "generica" del lavoro giornalistico: al di là degli stretti specialisti, per forza di cose rari, la trattazione della cronaca è per definizione affidata appunto ai cronisti, chiamati spesso a occuparsi di tutto (e in ciò sta la loro bravura) basandosi essenzialmente su intuito, esperienza, "mestiere". Di tale bagaglio professionale, però, quasi mai fanno parte anche i temi agricoli e "periagricoli". Con un ulteriore pericolo: i giornali hanno una catena di controllo e di comando, basta che uno di questi step si inceppi per vanificare qualunque ricerca di accuratezza.
I ratti sono un alimento base in Cambogia, Laos, Myanmar, parti delle
Filippine e Indonesia, Tailandia, Ghana, Cina e Vietnam. In Sud e Centro
America diverse specie di roditori sono molto apprezzate in cucina
anche in preparazioni gastronomiche e alcune specie sono allevate in
modo simile a maiali, bovini e altri animali domestici. In alcuni paesi
asiatici la carne di roditori è nei supermercati e nelle Filippine le
carni di ratti in scatola sono venduti con la sigla STAR (rats scritto al contrario).
Agli inizi del mese di luglio l’industria dell’acqua minerale e delle bevande gassate si è trovata a corto di anidride carbonica di grado alimentare e alle crisi e carenze che hanno caratterizzato l’estate 2022 si è aggiunto l’allarme per l’acqua gassata.
Sembra una piccolezza e per certi versi di fronte a difficoltà ben più importanti lo è sicuramente, ma la storia delle bevande gassate e delle bollicine ha radici antiche e come è avvenuto anche per molti altri “piaceri” mascherati da benefici, si è intrecciata ai suoi esordi con quella della farmacia.
Negli ultimi mesi il legislatore nazionale ha emanato due diverse leggi
con l’intento di arricchire la disciplina normativa in tema di “filiera
corta”, agevolando e valorizzando, da un lato, l’acquisto dei prodotti
agroalimentari locali e, dall’altro, i prodotti “a chilometro zero”.
Dapprima,
in data 22 aprile 2022, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale (G.U.
Serie Generale n. 94 del 22.4.2022) la nuova legge n. 30 del 1 aprile
2022, recante “Norme per la valorizzazione delle piccole produzioni agroalimentari di origine locale” (
“P.P.L.”) composta da quattordici articoli, volta a promuovere e
valorizzare la produzione, la trasformazione e la vendita, da parte
degli imprenditori agricoli e ittici, di limitati quantitativi di
prodotti alimentari primari e trasformati, di origine animale o vegetale
“ottenuti a partire da produzioni aziendali, riconoscibili da una
specifica indicazione in etichetta”, fatte salve le disposizioni già
vigenti in materia di vendita diretta al dettaglio da parte degli
imprenditori agricoli.
Con la dizione PPL, in particolare, si definiscono
“i prodotti agricoli di origine animale o vegetale primari o ottenuti
dalla trasformazione di materie prime derivanti da coltivazione o
allevamento svolti esclusivamente sui terreni di pertinenza
dell'azienda, destinati all'alimentazione umana, ottenuti presso
un'azienda agricola o ittica, destinati, in limitate quantità in termini
assoluti, al consumo immediato e alla vendita diretta al consumatore
finale nell'ambito della provincia in cui si trova la sede di produzione
e delle province contermini”.
Le PPL, per essere definite tali, devono rispettare un insieme di principi cardine, dettagliatamente individuati all’art. 1. In particolare:
a) il principio della salubrità, in quanto tali produzioni devono attenersi ai requisiti di sicurezza igienico-sanitaria per l’alimento prodotto. In quest’ottica, è interessante rilevare che, ai sensi dell’art. 1, co. 3 della medesima normativa, i prodotti ottenuti da carni di animali provenienti da aziende agricole devono derivare da animali regolarmente macellati in un macello registrato o riconosciuto che abbia la propria sede nell’ambito della provincia in cui si trova la sede di produzione e delle province contermini.
b) il principio della localizzazione, secondo cui è possibile commercializzare, in ambito locale, i prodotti che derivano esclusivamente dalla propria produzione primaria;
c) il principio della limitatezza, secondo cui è possibile produrre e commercializzare esclusivamente ridotte quantità di alimenti in termini assoluti;
d) il principio della specificità, che consente di produrre e commercializzare esclusivamente le tipologie di prodotti individuate per mezzo del decreto MIPAAF, rientranti nel c.d. “paniere PPL”.
Dott. Pecchioni, il grano è diventato un elemento chiave del
conflitto scoppiato il 24 febbraio con l’invasione russa dell’Ucraina.
Si rischia una tragedia mondiale, a partire dai Paesi in via di
sviluppo. In Italia, anch'essa dipendente dalle importazioni di cereali
dall'Est, non sarà facile sopperire alle limitazioni dell’import da
Ucraina e Russia, anche perché mancano terreni e i costi dei
fertilizzanti sono alti. Potrebbe dirci se lo stato della ricerca
attuale nel settore cerealicolo è tale da permetterci di aumentare la
nostra produttività e in quali tempi?
In questo momento anche
l'opinione pubblica e i media si stanno accorgendo di quanto sia noto
da molto tempo agli addetti ai lavori, cioè che la sicurezza alimentare
intesa come "food security", cioè sicurezza di approvvigionamento, sia
un asset strategico molto delicato per l'Italia e per l'Europa. Questo è
un bene da un certo punto di vista, perché noi tutti ricercatori e
addetti ai lavori speriamo che il decisore politico si accorga sia
dell'importanza del comparto agri-food, e non solo per la sua parte
industriale, che della gravità del continuo consumo di suolo, che deve
essere arrestato definitivamente nel nostro paese.
La ricerca oggi ci
può consentire di aumentare la produttività cerealicola senza pesare
sulle risorse energetiche e ambientali. Per arrivare al risultato è
necessario integrare e trasferire un'ampia serie di risultati ottenuti
negli ultimi dieci anni dalle diverse discipline scientifiche.
Trasferire alle aziende la capacità di intensificazione sostenibile,
grazie ad un uso preciso degli input nella coltivazione, non esclusa
l'acqua, trasferire al miglioramento varietale tecnologie di "speed
breeding", o di generazione accelerata, per raggiungere in minor tempo
successi genetici, nonché tecnologie di selezione genomica e di guida
molecolare alla selezione che si basano su conoscenze del genoma dei
cereali; nonché trasferire al miglioramento varietale le potenzialità
del genome editing, o inserimento di mutazioni mirate, oggi chiamate in
Italia con il nome di TEA o Tecnologie di Evoluzione Assistita.
Tom Gleeson et al. (2020) in un recente articolo intitolato “La
dimensione planetaria dell'acqua: analisi e revisione” afferma che il
quadro dei confini planetari propone delle barriere quantificate alla
modifica umana dei processi ambientali globali che regolano la stabilità
del pianeta. Detto quadro d’insieme è stato considerato in termini di
sostenibilità, nella governance e nella gestione aziendale. Il limite
all'uso umano dell'acqua dolce è stato criticato come singolare misura
che non tiene conto di tutti i tipi di interazione umana con il
complesso ciclo globale dell'acqua e il Sistema Terra. Si suggerisce che
il confine planetario dell'acqua renderà questo limite scientificamente
più solido e più utile nei quadri decisionali se viene riprogettato
considerando più specificamente come il clima e gli ecosistemi viventi
rispondono ai cambiamenti nelle diverse forme terrestri di acqua: acqua
atmosferica, acqua ghiacciata, acque sotterranee, umidità del suolo e
acque superficiali. Lo studio di Gleeson et al. fornisce un'ambiziosa
roadmap scientifica per definire un nuovo confine planetario dell’acqua
composto da sottoconfini che rappresentano una varietà di cambiamenti
nel ciclo dell'acqua.
Si consiglia la lettura di questo articolo per avere un’idea della complessità della questione “acqua”.
Ai sensi del regolamento UE sui Novel Food, il 10 febbraio scorso la Commissione europea ha autorizzato anche la commercializzazione del Grillo domestico, Acheta domesticus (Linnaeus, 1758), e il suo utilizzo per l’alimentazione umana.
Il Grillide era ritenuto in passato una sorta di nume tutelare della casa e la sua presenza era di buon auspicio in quanto incarnazione delle anime dei defunti; è stato oggetto di leggende e credenze popolari; inoltre ha ispirato importanti scrittori, come Dickens, ed è noto soprattutto grazie al Lorenzini, meglio conosciuto come Carlo Collodi che, nel libro Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, gli fa impersonare la voce della coscienza che tenta di guidare Pinocchio il quale, stufo dei suoi rimproveri, gli lancia un martello schiacciandolo.
I polli preferiscono mangiare in piena luce perché riescono a riconoscere e, quindi a scegliere, gli alimenti migliori, valutandone visivamente le caratteristiche di colore, forma e consistenza. E non solo i polli. Lo sanno bene gli allevatori che regolano la durata e l’intensità dell’illuminazione nei capannoni per la massima efficienza di conversione alimentare e prestazioni produttive.
Ma è della massima importanza anche il tipo ed il colore della luce, come dimostrano alcune prove sperimentali (Kim et al., 2013. Poultry Sci., 92: 1461; Parvin et al., 2014. World’s Poultry Sci. J., 70: 542 e 557).
Dottoressa Mammuccini, il recente rapporto Onu “Global Land Outlook 2” sull’uso del suolo, lancia un chiaro allarme e sottolinea il ruolo, tutt’altro che positivo, del sistema della produzione alimentare sul degrado delle terre. Ad oggi, l’uomo avrebbe alterato il 70% del suolo su cui ha messo piede e ne avrebbe degradato fino al 40%, in tanti modi: la deforestazione, l’agricoltura intensiva, gli incendi, il consumo di suolo, l’inquinamento chimico, le guerre, la costruzione di infrastrutture. Ma senza un suolo sano non si può produrre alimenti. Siamo veramente a un punto di non ritorno?
Senza un suolo sano non c’è agricoltura. Nel momento in cui la crisi internazionale mette al centro il tema dell’approvvigionamento del cibo, occorre riportare l’attenzione su questa risorsa necessaria e non rinnovabile da cui dipende oltre il 95% della produzione agroalimentare. Il suolo è fonte di vita. Rappresenta una risorsa preziosa dove si concentra il 90% della biodiversità del pianeta in termini di organismi viventi. Senza un suolo sano non è possibile avere cibi sani e acqua pulita.
Il suolo impiega fino a mille anni per rigenerare la fertilità persa per inquinamento o desertificazione e la FAO avverte che la vitalità del suolo, che si traduce soprattutto nella presenza di miliardi di microrganismi per centimetro quadrato, è messa a rischio anche dalle sostanze chimiche di sintesi utilizzate in agricoltura.
A questo proposito nell’ultimo anno FederBio ha avviato una campagna di sensibilizzazione patrocinata dall’Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – che ha attraversato l’Italia per verificare il contenuto di sostanze chimiche di sintesi nei campi coltivati, mettendo a confronto suoli convenzionali con suoli biologici. Da nord a sud sono stati analizzati 12 terreni agricoli convenzionali comparandoli con altrettanti suoli biologici contigui e adibiti alle stesse colture, in un monitoraggio a carattere dimostrativo.
I risultati della campagna dimostrano che i campi coltivati con il metodo biologico in termini di residui di sostanze chimiche sono decisamente migliori rispetto a quelli coltivati in convenzionale a conferma che il bio è un metodo di produzione che contribuisce alla tutela del suolo e della biodiversità. Per questo è importante non solo far crescere i terreni coltivati con il metodo bio ma anche diffondere le pratiche agroecologiche di cura del suolo al resto dell’agricoltura supportando gli agricoltori nell’adozione di tali innovazioni.
È opinione comune che le cucine dei paesi caldi facciano largo uso di spezie e ci si sta chiedendo se il cambiamento climatico in atto possa portarci a cucine più speziate. Considerazione non oziosa pensando che in Italia il maggior consumo di spezie si ebbe durante il periodo caldo romano (optimum climatico romano tra il 250 a. C. circa al 400 d. C.) e nel periodo medievale fino al Quattrocento quando un clima permise la coltivazione soprattutto nell’Europa settentrionale e l’espansione verso Nord di foreste là dove prima c’erano solo ghiacciai.
La Prof. Maria Lisa Clodoveo del Dipartimento Interdisciplinare di Medicina dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro è stata incaricata dall’ Associane Italiana Frantoiani Italiani – AIFO e dalla Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa- CNA di rappresentarli, il 6 Luglio 2022, nell’Audizione presso la Commissione 9^ Agricoltura e produzione agroalimentare del Senato della Repubblica sulle problematiche connesse alla realizzazione di un nuovo piano per l’olivicoltura.
In questi mesi l’università degli Studi di Firenze, nello specifico i Dipartimenti di Biologia e di Scienze e Tecnologie Agrarie, Alimentari e Ambientali e Forestali (DAGRI) e il Consorzio di Bonifica 3 Medio Valdarno, hanno dato vita ad un progetto che prevede il recupero di aree perifluviali con due finalità principali: aumentare la biodiversità delle aree perifluviali nel reticolo di competenza del Consorzio e creare un habitat più consono per gli insetti impollinatori e, in particolare, per le api selvatiche.
La sperimentazione, che durerà almeno tre anni, è la prima di questo tipo in Europa, in particolare perché i ricercatori si impegnano a valutarne gli effetti, mettendo a disposizione uno sforzo scientifico ingente, sia sul campo che in laboratorio, grazie al coordinamento della Prof.ssa Francesca Romana Dani e di Oana Catalina Moldoveanu, dottoranda presso il dipartimento di Biologia aiutata da Martino Maggioni, tesista di Laurea magistrale.
La presenza di api selvatiche si è molto ridotta negli ultimi anni e sono necessari ancora studi specifici che ne rivelino la presenza nei nostri ambienti. “In Europa ci sono ben 2.000 specie e solo in Italia” – afferma la professoressa Dani – “dove le biodiversità tendono ad essere più numerose, ne abbiamo quasi 1.100. Riuscire ad avere dati sui trend di popolazione diventa complicatissimo. Per molte specie addirittura non abbiamo nessun dato. Bisogna fare molta attenzione quindi prima di affermare che ci sono specie in via di estinzione. Va detto anche che, studiando le informazioni di alcune specie più conosciute, il fenomeno della diminuzione è evidente e innegabile. Questa è causata da vari fattori, quali i cambiamenti nell’uso del suolo, dalla riduzione di aree aperte dovuta all’espansione delle aree urbanizzate e, paradossalmente, dall’abbandono delle superfici coltivate e conseguente crescita di una copertura arbustiva e arborea che le api non amano, perché a loro servono spazi aperti con fioriture”.
Si è provveduto ad un’accurata indagine sull’andamento delle colture agrarie nelle tre regioni, Puglia, Basilicata e Molise, afferenti alla sezione Sud-Est. È da premettere che per le differenti condizioni pedoclimatiche, le tre regioni sono molto diverse tra loro nell’andamento climatico e quindi negli ordinamenti colturali. In linea di massima questa annata è stata caratterizzata non solo da una limitata piovosità nel periodo autunno-primaverile, ma anche da preoccupanti problemi di mercato nell’acquisizione dei mezzi tecnici, come l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti e dei costi energetici delle operazioni colturali. Attualmente, la carenza idrica è in parte risolta dalla discreta presenza di dighe come quelle del Fortore in provincia di Foggia e di Monte Cotugno in Basilicata. Ovviamente è norma l’irrigazione delle colture primaverili-estive, mentre sarebbe stato opportuno eseguire degli interventi di soccorso ai cereali autunno-primaverili. Le colture prese in esame sono frumento e cerali minori, leguminose da granella a ciclo autunno primaverile, pomodoro da industria, girasole e mais, a ciclo primaverile estivo. Nell’ambito delle colture arboree sono diffuse olivo, vite, da tavola e da vino, ciliegio, mandorlo. Altri fruttiferi, come il pesco, il susino e l’albicocco, sono tipici di alcune zone irrigue. In particolare è da tenere presente che le fasce costiere regionali sono interessate da colture orticole protette.
L’immunità vegetale indica la capacità di una pianta di difendersi dai
potenziali bioaggressori esterni. In campo agronomico questo concetto
vede la sua diretta applicazione nella selezione genetica e
nell’utilizzo di induttori di resistenza.
Il polpo spopola sulle tavole dei ristoranti e quarantaquattro sono
le ricette presentate su un sito informatico, dalle insalate e “carpacci”
ai condimenti per paste e via dicendo, divenendo uno dei più popolari
tra i cinquecentocinquanta animali acquatici. Diversi i motivi di questo successo in
tavola e tra questi vi sono quelli di poter trasformare il polpo in
diversi modi senza mostrare le sue forme tanto da non sembrare un pesce
che pertanto è ben accettato anche dai vegetariani.
Quelli che, come me, sono nati prima della seconda guerra mondiale,
devono fare i conti con tanti neologismi o con vecchi termini dei quali è
cambiato o è stato aggiornato il significato. Ci dobbiamo adeguare
pressoché in continuazione e, spesso, non è facile. Uno degli esempi più
comuni è il significato del sostantivo “sostenibilità” e del relativo
aggettivo “sostenibile”. Vado a cercare le due voci sul vocabolario Zingarelli del 1995. Mi si rimanda al verbo “sostenere”, per il quale si danno ben dieci significati: reggere un peso, prendere un impegno, mantenere alto qualcosa (i prezzi, la voce), aiutare qualcuno, nutrire, affermare un’idea, resistere, soffrire, indugiare, trattenere. Wikipedia mi aggiorna aggiungendo un undicesimo significato, riuscendo così a colmare la mia lacuna culturale. La precisazione di Wikipedia recita: “la sostenibilità è il processo di cambiamento nel quale lo sfruttamento delle risorse, il piano degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e le modifiche istituzionali sono tutti in sintonia e valorizzano il potenziale attuale e futuro al fine di far fronte ai bisogni e alle aspirazioni dell'uomo”.
La recente tragedia della Marmolada ha portato alla ribalta mediatica un tema che gli studiosi del clima già da molti anni stanno monitorando con preoccupazione. Aumento o perdita di massa per i ghiacciai sono infatti processi normali su scale temporali molto ampie, ovvero di secoli. Ma se le temperature crescono più rapidamente, come sta avvenendo da alcune decine di anni a questa parte, anche la velocità di fusione del ghiaccio aumenta, ed è questo il problema attuale. È da ricercare su questa linea il collegamento fra il distacco sul ghiacciaio della Marmolada e i cambiamenti climatici in corso. Ne parliamo con il professore Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr.
Professore, alcuni hanno parlato di "tragedia «imprevedibile", almeno in queste dimensioni. Glaciologi, nivologi, volontari del soccorso alpino e habituée della Marmolada sembrano tutti d’accordo nel considerare il crollo del seracco di ghiaccio sommitale di Punta Rocca – che ha interessato la via normale sulla quale alcune cordate erano impegnate per salire – un evento fuori dalla portata di previsione di cui si dispone attualmente. Ma è davvero così?
Certamente, come per tutti i fenomeni fisici “a soglia”, anche un crollo di questo tipo non è prevedibile in maniera deterministica. Ciò significa che non siamo in grado di prevedere il distacco del seracco per una certa ora o neanche per un certo giorno. Questo non vuol dire, però, che non si possano prevedere le condizioni favorevoli a fenomeni di questo tipo. Nel nostro caso attuale, la poca neve invernale e il fatto che per il riscaldamento globale nevichi sempre a quote più elevate hanno fatto sì che questo seracco non sia stato protetto da uno strato di neve fresca, ma si sia trovato “nudo” a risentire della forte radiazione solare in un lungo periodo di “bel tempo”, con punte di temperatura giornaliera estreme, mai osservate a quelle quote, ma soprattutto con la persistenza duratura di un forte anticiclone africano che ha portato per almeno due mesi a temperature elevate. In queste condizioni, rotte alpinistiche generalmente sicure sono diventate pericolose. In inverno il Meteomont fa un ottimo lavoro di previsione delle condizioni di rischio per le valanghe. Io credo che ora, con l’aggravarsi del riscaldamento, occorra studiare a fondo le situazioni che si vengono a creare nel semestre caldo, affinché si possa arrivare a bollettini di quel tipo anche per la stabilità dei ghiacciai o almeno delle loro parti più a rischio. Ciò necessiterà di una stretta collaborazione tra scienziati ed esperti locali per il monitoraggio, anche con strumenti innovativi, e lo sviluppo di modelli di rischio.
La SIGA (Società Italiana di Genetica Agraria) ha ritenuto opportuno pubblicare una risposta ad un articolo intitolato “L’Ue valuta nuovi alimenti: arrivano gli NGT per sostituire gli OGM” , pubblicato su La Repubblica lo scorso 1 giugno a firma di Giorgio e Caterina Calabrese.
(Leggi QUI.pdf l’articolo in PDF)
La
SIGA condanna l’approssimazione del messaggio e i numerosi errori di
carattere scientifico che rendono l’articolo un “pessimo esercizio di
divulgazione”. E sottolinea: “Come è è possibile che uno dei quotidiani
più letti ed autorevoli ospiti interventi di questo genere, dove il dato
scientifico si mescola in maniera indistinguibile con il sentito dire e
con spiegazioni tecniche inadeguate, producendo messaggi ingannevoli?”.
L’Accademia
dei Georgofili condivide pienamente quanto sostenuto dalla SIGA e per
tale motivo pubblica anche su “Georgofili INFO” il suo messaggio,
facendo tesoro di quanto sostenuto da Luigi Einaudi durante la prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico dei Georgofili nel 1957: “sono
persuaso che la figura retorica della ripetizione sia una delle
pochissime armi consentite agli studiosi per combattere l’errore”.