Lo scorso 10 novembre, il Parlamento europeo e il Consiglio europeo
hanno raggiunto un accordo politico sul prossimo quadro finanziario
dell’UE per il periodo 2021-2027 (il bilancio dell’Unione) e sul fondo
speciale per rispondere alla crisi economica dovuta alla pandemia del
Covid-19. L’accordo politico sui testi giuridici è stato
raggiunto, ma tutto questo pacchetto legislativo e le risorse
finanziarie, dipendono dall’approvazione finale del Parlamento
europeo e del Consiglio europeo. Quello che poteva sembrare un
passaggio istituzionale pro-forma, rischia invece un blocco a causa del
veto di Polonia e Ungheria che rifiutano che i fondi UE siano
condizionati dal rispettoo dello Stato di diritto. Sono in corso
negoziati per superare questo impasse procedurale che mette a
repentaglio una vera occasione di rilancio dell’UE e di ripresa
post-crisi Covid-19
In cosa consiste questo accordo
Il
fondo denominato NextGenerationEU è uno strumento dotato di 750
miliardi di euro, tra prestiti e sovvenzioni, destinato a stimolare la
ripresa e a riparare i danni economici e sociali causati dalla
pandemia. Il suo fulcro è costituito da 672,5 miliardi di
euro in prestiti e sovvenzioni disponibili per sostenere le riforme e
gli investimen: intrapresi dai Paesi dell'UE. NextGenerationEU opererà
inoltre apportando fondi aggiuntivi ad altri programmi o fondi europei
come Horizon 2020, InvestEU, Just Transition Fund (JTF) ed il Fondo per
lo sviluppo rurale (FEASR).
Per l’agricoltura
NextGenerationEU prevede di destinare globalmente per le misure
di sviluppo rurale un supplemento di 8,07 miliardi di euro. Il
Parlamento europeo e la Presidenza tedesca hanno modificato
l’iniziale proposta della Commissione, innanzitutto anticipando la
disponibilità delle risorse già al 2021, vista l’urgenza di contrastare
la crisi, e poi aggiungendo dei criteri di condizionalità per spendere
questi fondi supplementari.
Si prevede che circa il 30% degli 8,07
miliardi di euro di aiuti saranno disponibili già nel 2021, e il
restante 70% lo sarà nel 2022. Per una ripresa economica solida e con
un respiro di lungo periodo, è stato previsto nei testi di regolamento
che almeno il 55% di queste risorse sia destinato ad
investimenti di sostenibilità e di digitalizzazione delle aziende
agricole. Più specificatamente saranno privilegiati quegli
investimenti che mireranno all’ottimizzazione degli input per
un’agricoltura intelligente e di precisione, che favoriranno la
digitalizzazione e la modernizzazione dei macchinari e delle
attrezzature di produzione.
Inoltre, si darà risalto alle energie
rinnovabili come il biometano e allo sviluppo e sostegno di filiere
corte e sostenibili. Anche i giovani agricoltori potranno beneficiare di
questa importante parte di risorse supplementari.
Fin dall’antichità, le api mellifere, per la loro organizzazione e
laboriosità, hanno destato l’interesse di naturalisti, di sacerdoti, di
politici e, soprattutto, di artisti, dei quali sono state fonte
d’ispirazione per la creazione di opere d’arte figurativa, di saggistica
e di poesia, nonché di opere cinematografiche e teatrali. La maggior
parte delle rappresentazioni teatrali, nelle quali sono presenti le api,
si rivolge a un pubblico di giovani, in grado di recepire messaggi
semplici ma efficaci.
Nel testo teatrale “Il Mistero delle api scomparse”, le fate,
preoccupate dell’improvvisa moria di api chiedono aiuto ai bambini di
tutto il mondo i quali rivolgono l’appello agli adulti, spiegando loro
che le api stanno morendo e che, senza l’impollinazione, tutta l'umanità
è a rischio. Ma non venendo ascoltati, mettono in atto "lo sciopero
delle caramelle", che metterà in crisi le industrie dolciarie. Per
scongiurare la quale i maggiori capi di stato si riuniscono per
discutere della situazione e trovare una soluzione all'improvvisa
scomparsa delle api. La decisione è presa: incentivare l'agricoltura
biologica evitando i pesticidi dannosi. In breve tempo le api ritornano e
con loro i colori, i germogli, le piante, i pollini.
La nota dal titolo “La risposta di Carni Sostenibili a quanto sostenuto
da Greenpeace”, pubblicata sul notiziario della nostra Accademia del 4
novembre scorso, dal titolo “No, agricoltura e allevamenti non consumano un’Italia e mezza all’anno” ,
oltre a sollecitare l’irritazione del collega Giuseppe Pulina, mi ha
indotto ad alcune considerazioni che mi permetto di fare qui di seguito.
Partiamo
dai bollettini FAO del 2006 e del 2019, secondo i quali il contributo
dell’agricoltura alla produzione di CO2 sarebbe del 18%. Già da questo
dato consegue logicamente che l’82% proviene da altre fonti.
La scorsa estate, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa sullo
sviluppo a lungo termine delle aree rurali che, perlomeno in Italia, non
risulta aver suscitato il dibattito che merita. L’idea di rilanciare il
territorio rurale è stata formulata autorevolmente dalla Presidente Von
der Leyen, la quale, nel suo documento strategico intitolato
“Orientamenti politici per la prossima Commissione Europea 2019-2024”,
si è così espressa: “Le zone rurali sono il tessuto della nostra società
e il cuore pulsante della nostra economia. La varietà di paesaggi,
cultura e patrimonio è uno dei principali e più notevoli tratti
distintivi dell’Europa. Queste regioni sono una parte fondamentale della
nostra identità e del nostro potenziale economico. Avremo a cuore le
zone rurali, le tuteleremo e investiremo nel loro futuro”.
La
Presidente è stata di parola ed ha avviato un percorso che è iniziato il
22 luglio scorso con la pubblicazione di una Roadmap, con la quale è
stata fornita una informativa della iniziativa e dei fondamentali
passaggi che la compongono.
Successivamente, all’inizio di settembre,
è stata avviata una consultazione pubblica a livello europeo, con la
quale si è inteso richiedere ai cittadini, ai portatori di interesse,
agli organismi e istituzioni interessate, di rispondere a un corposo
questionario, da consegnare entro il 30 novembre 2020.
Nel contempo,
sono stati programmati tre eventi pubblici dove l’argomento è stato
affrontato e descritto. Sono stati inoltre organizzati dei gruppi
tematici all’interno della rete europea sullo sviluppo rurale.
I
prossimi appuntamenti in ordine cronologico sono una conferenza
programmata per il mese di marzo 2021, nel corso della quale, si
ritiene, possano essere illustrati e discussi i risultati della
consultazione pubblica e la conclusione di alcuni lavori preparatori
affidati a strutture interne ed esterne all’Unione europea (analisi di
scenario e previsionali ed altri lavori analitici).
Infine, a
coronare questa prima fase preparatoria, ci sarà la pubblicazione di una
Comunicazione della Commissione europea sulla visione a lungo termine
per le zone rurali, programmata per il secondo trimestre del prossimo
anno.
La Comunicazione è uno strumento di fondamentale importanza
nell’ambito del cosiddetto “diritto d’iniziativa” della Commissione
europea. Lo si è visto di recente con il Green Deal, il Farm to Fork e
la Strategia della biodiversità. Con tale documento ufficiale inizia un
processo politico che sfocia in atti legislativi ed in decisioni
operative destinate ad incidere sui cittadini, le imprese, le
Istituzioni e le organizzazioni private.
Questo è ciò che emerge da una ricerca pubblicata lo scorso anno su Scientific Reports.
Forse sembrerà banale questa affermazione, ma la ricerca ha bisogno di
prove sperimentali ripetibili e non può basarsi sulla semplice
percezione personale ed è sciocco dire: “ah beh, hanno scoperto l’acqua
calda” oppure “io l’ho sempre saputo”. La ricerca mira a estendere e
approfondire le conoscenze in modo sistematico, svolta con intendimenti e
metodi scientifici, anche quando non si applica alle “Scienze
propriamente dette”. Per cui anche la “scoperta dell’acqua calda” ha una
sua spiegazione scientifica: grazie alla ricerca di qualche secolo fa,
sappiamo che l’acqua si scalda perché, se posta a diretto contatto con
una fiamma, agitandola, esponendola ai raggi del sole oppure facendoci
passare la corrente, aumenta il movimento delle molecole che la
compongono che si spostano e cominciano a scorrere le une sulle altre e
determinano il riscaldamento.
Un numero crescente di prove
epidemiologiche indica che una maggiore esposizione o il contatto con
ambienti naturali (come parchi, boschi e spiagge) è associata a un
miglior stato di salute e un maggior benessere, almeno tra le
popolazioni urbanizzate e ad alto reddito. Pur se la quantità e la
qualità delle prove può essere variabile, vivere in aree urbane con una
dotazione elevata di aree verdi è quasi sempre associato a minori
probabilità di malattie cardiovascolari, obesità, diabete,
ospedalizzazione per asma, disagio mentale e, in ultima analisi,
mortalità tra gli adulti e minori rischi di obesità e miopia nei
bambini.
Tuttavia, la quantità di spazio verde nel proprio quartiere
(ad esempio, la percentuale di verde in un raggio di 1 km dalla casa), o
la distanza della propria casa dallo spazio verde o dal parco più
vicino accessibile pubblicamente è solo un modo per valutare il livello
di esposizione alla natura. Un'alternativa è misurare la quantità di
tempo che le persone effettivamente trascorrono all'aperto in ambienti
naturali, a volte denominata esposizione "diretta”. Entrambi gli
approcci sono potenzialmente informativi e si completano l’un l’altro.
La
vicinanza della propria abitazione ad aree naturali o ad aree verdi può
essere correlata a fattori di promozione della salute come il ridotto
inquinamento atmosferico e acustico (sebbene le relazioni siano
complesse); e può anche fornire un'esposizione "indiretta" tramite la
visione di ambienti “verdi” da casa. La vicinanza residenziale è
generalmente correlata positivamente anche all'esposizione "diretta";
cioè le persone nei quartieri con più spazi verdi generalmente
dichiarano di visitarli più spesso rispetto alle persone per le quali
questo accesso non è diretto.
La sulla (Sulla coronaria) è una Fabaceae originaria del Bacino
del Mediterraneo, nota per la sua ampia adattabilità a vari stress
ambientali e la sua capacità di prosperare senza sintomi di clorosi in
terreni aridi e alcalini fino a pH 9,6. Una caratteristica morfologica del suo apparato radicale, unica e poco
conosciuta, è la produzione di “pale o palette”, radici laterali
modificate che acquisiscono una forma curva e appiattita.
I consumi in questo secondo atto della pandemia non stanno andando bene.
Frustrazione, rabbia, sgomento, disillusione e portafogli sempre più
vuoti dei consumatori fanno prevedere consumi sempre più ridotti e
comunque concentrati nella fascia di primo prezzo dei prodotti.
Sarà
un caso, ma in questi giorni sta esplodendo la guerra dei prezzi e delle
promozioni nelle catene della Distribuzione moderna, con molte
iniziative ‘sottocosto’.
Esaù vende la sua progenitura per una zuppa di lenticchie narra la
Bibbia, di polta e cioè zuppe e non pane vivono per molti secoli gli
antichi romani afferma Plinio il Vecchio, le zuppe sono il cibo dei laboratores
medievali, nel Rinascimento le zuppe accolgono i nuovi cibi americani
come i fagioli e le patate, Francesco I di Francia fatto prigioniero a
Pavia da una contadina è rifocillato con una zuppa che diviene celebre
come zuppa alla pavese e nell’Ottocento nella pasticceria italiana non
manca la zuppa inglese. Infinite sono le zuppe nella cucina contadina
che la donna di casa prepara raccogliendo dall’orto, dai campi e dalle
boscaglie ogni tipo di verdure, quindi un piatto stagionale e a
chilometro zero come la ribollita, il cui nome deriva dal fatto che le
contadine toscane ne cucinano una gran quantità, soprattutto il venerdì
essendo piatto magro, che poi è ribollito in padella nei giorni
successivi o, come avviene in altre regioni, è trasformato in polpette
vegetali fritte nello strutto.
Nel corso dei tempi, la cucina
popolare inventa ogni sorta di zuppe di verdure e legumi e diverse
qualità di ortaggi dando origine alle zuppe alla certosina, contadina o
alla paesana, di fagioli, piselli, fave, ceci, lenticchie ecc. e nei
paesi di mare non mancano zuppe con aggiunta di vongole, alla marinara o
di pesce che nelle varie regioni hanno i nomi di boiabessa, brodetto,
buridda, cacciucco ecc. Zuppe non mancano in altri paesi mediterranei (sopa in spagnolo, soupe in francese, suppe
in tedesco) o la ratatouille francese e sono presenti nei paesi
asiatici. Tutte le zuppe sono mangiate in una ciotola o in tazza usando
il cucchiaio e nel passato hanno dato origine a proverbî popolari come
quello che "chi vuol far l’altrui mestiere fa la zuppa nel paniere".
Nella
grande famiglie delle zuppe, odiernamente si tende a distinguere i
minestroni e le vellutate, il primo per un maggiore numero di verdure,
le seconde sono passati di verdura dalla consistenza cremosa, inoltre le
zuppe a base di verdura sono consistenti, non contengono pasta e sono
anche accompagnate con fette di pane, mentre le minestre sono più
liquide, hanno più brodo e comprendono anche pasta o cereali.
Le zuppe della cucina popolare tradizionale da mangiare in una tazza o
ciotola sembravano scomparse ma da una decina di anni sono in forte
ripresa anche per merito delle zuppe fresche diverse dal minestrone in
lattina, che hanno una scadenza ravvicinata, vanno conservate in
frigorifero, sono costituite da ingredienti semplici, hanno un
trattamento termico e sono spesso proposte anche in versione biologica.
In Italia il mercato delle zuppe fresche ha un fatturato che supera i
190 milioni di Euro con una crescita di oltre venti milioni di Euro
nell’ultimo anno e queste preparazioni rappresentano più della metà dei
primi piatti pronti all’interno dei punti di vendita della distribuzione
moderna italiana. Questi incrementi sono dovuti una diversificata
varietà di condizioni: da una parte sono particolarmente gradite dalle
persone anziane e da un’altra parte la diversità di composizioni e
gusti, per cui non si può dire che “è la solita zuppa”, conquista nuovi
consumatori di ogni età, anche i giovani che non conoscevano le zuppe e
la loro presentazione in tazze o ciotole.
Tra gli argomenti da discutere proposti dalla FAO, in occasione della
recente Giornata mondiale dell’Alimentazione, c’era quello della scelta
dei prodotti di stagione; semplice a dirsi un po’ più complesso a farsi.
L’urbanizzazione
massiccia che ha caratterizzato la società italiana nel secondo
dopoguerra, ha fatto sì che la grande maggioranza dei giovani di oggi
non conosca la campagna come luogo di produzione agricola e abbiano
un’idea vaga e confusa di come e quando i prodotti che trovano in
vendita e sulla tavola siano prodotti e raccolti nel nostro Paese anche
perché la maggior parte della frutta tradizionale italiana è in vendita
quasi tutto l’anno.
La realtà produttiva è enormemente cambiata
negli ultimi decenni e con essa il concetto di frutta di stagione. Le
ragioni di questi cambiamenti sono diverse: coltivazione in serra,
coltura protetta, coltura fuori suolo, miglioramento genetico,
globalizzazione dei commerci.
Le fragole , quando io ero un ragazzo,
erano il tipico frutto della primavera e nella mia Regione erano
chiamate con il nome dialettale di “magiostri”, per indicare la loro
raccolta nel mese di maggio; oggi le fragole si raccolgono 12 mesi
l’anno e sono sempre presenti sui banchi di vendita. Ciò è possibile
grazie alla coltivazione in serra, alla coltura protetta e alle
innovazioni di tecnica colturale, così come avviene anche per il lampone
e per i mirtilli.
A metà degli anni ’60 iniziarono le prime
esperienze di protezione dell’uva da tavola con film di polietilene per
anticipare il germogliamento e , di conseguenza, la maturazione, con
grandi vantaggi economici per i migliori prezzi spuntati sui mercati.
Insieme con l’anticipo, si osservò che l’uva, protetta dalla pioggia ,
era anche meno soggetta agli attacchi di muffa grigia e nacque l’idea di
proteggere le varietà tardive, Italia in primo luogo, per poter
posticipare la raccolta senza incorrere nei gravi danni da Botrytis
dovuti alle piogge autunnali. Oggi, in Italia, la quasi totalità
dell’uva da tavola è in coltura protetta ampliando il calendario di
raccolta di circa 3 mesi rispetto al pieno campo. La stessa tecnica per
anticipare la raccolta fu poi applicata al pesco e all’albicocco.
Stiamo entrando in un mese decisivo per la lotta al virus con misure che
saranno comunque via via più stringenti e limitanti alla nostra
libertà, mobilità e ai trasferimenti delle persone. Già si stanno
delineando gli stili di acquisto che già abbiamo visto durante il
precedente lockdown. Stanno ripartendo alla grande gli acquisti nella
Distribuzione moderna e le grandi catene si preparano alla battaglia dei
prezzi. Ismea prevede, con la nuova ‘stretta’ su bar, ristoranti e alberghi, un arretramento della spesa per consumi alimentari fuori casa del 48%
rispetto al 2019.
La filiera dei prodotti a base di legno rappresenta una delle più
rilevanti attività economiche del nostro Paese, con un fatturato annuo
di oltre 40 miliardi di euro. Essa, peraltro, risulta fortemente
dipendente dall’estero per l’approvvigionamento della materia prima, per
oltre due terzi derivante da importazioni. Ciò è causa di numerose
problematiche, quali la relativa fragilità dell’industria nazionale di
trasformazione, sempre più legata dalle scelte di mercato di Paesi
stranieri (wood insecurity), e il rischio di attività illegali di
importazione basate su prezzi più competitivi e sulla distribuzione di
materiale non gestito in termini di sostenibilità ambientale nelle zone
di origine.
In anni recenti abbiamo assistito ad un progressivo cambiamento
dell’atteggiamento dei consumatori nei confronti del cibo, che viene
maggiormente apprezzato quando può essere riferito a un territorio
particolare e a un modo di produzione specifico o tradizionale. E il
pane non fa eccezione. Abbiamo pani a denominazione di origine protetta
(DOP), come il pane di Altamura in Puglia, la pagnotta del Dittaino in
Sicilia, il pane Toscano, ma anche pani a indicazione geografica
protetta (IGP), come il Pane casareccio di Genzano nel Lazio e il Pane
di Matera in Basilicata. A livello regionale, solo in Toscana troviamo
ben 12 diversi pani denominati PAT (prodotti agroalimentari
tradizionali), dalla Bozza di Prato ai pani di Altopascio e di
Montegemoli, al pane di patate della Garfagnana. Tali pani sono spesso
prodotti utilizzando quello che viene definito “lievito madre” o
“impasto acido”, in inglese "sourdough", che è rappresentato da
complesse comunità di lieviti e batteri lattici che, insieme al tipo di
acqua e di farina, conferiscono al prodotto caratteristiche sensoriali e
nutritive uniche. I lieviti più frequentemente isolati dagli impasti
acidi sono rappresentati non solo da Saccharomyces cerevisiae, il lievito utilizzato a livello globale per la produzione di pane, ma anche da specie appartenenti ad altri generi, quali Kazachstania humilis, Wickerhamomyces anomalus, Torulaspora delbrueckii, Kazachstania exigua, Pichia kudriavzevii e Candida glabrata.
Le diverse specie e i diversi ceppi all’interno di ciascuna specie di
lievito possiedono varie caratteristiche metaboliche che conferiscono
particolari proprietà al pane prodotto: alcuni sono capaci di
sintetizzare amminoacidi essenziali e vitamine, come tiamina, vitamina E
e folati, altri producono esopolisaccaridi prebiotici e composti
bioattivi come polifenoli, acidi organici ed enzimi. Tale biodiversità
metabolica è stata oggetto di ricerche condotte nei laboratori di
Microbiologia Agraria dell’Università di Pisa, al fine di individuare i
lieviti più efficienti dal punto di vista funzionale, per la produzione
di pane ad alto valore salutistico. 139 lieviti, isolati da vari tipi di
cibi e bevande fermentati, sono stati caratterizzati e selezionati
sulla base delle loro proprietà protecnologiche, funzionali e
molecolari, attraverso screening in vitro e in vivo. Una prima selezione
ha permesso di individuare 39 lieviti con elevata attività
antiossidante e una notevole capacità di degradare i fitati, composti
antinutrizionali contenuti nelle farine, rendendo così disponibili
preziosi elementi minerali come calcio, ferro, zinco e magnesio.
Nel complesso scenario dei cambiamenti climatici in atto a livello
globale il progetto di ricerca EWA-BELT, finanziato dal programma
Europeo Horizon 2020, raccoglie la sfida di realizzare una “cintura”
africana interregionale in grado di promuovere l’intensificazione
agricola sostenibile e lo scambio di buone pratiche tra diversi contesti
dell'Africa orientale e occidentale.
Il progetto, promosso e
coordinato dal centro interdipartimentale Nucleo di Ricerca sulla
Desertificazione (NRD) dell’Università degli Studi di Sassari, vede
partecipe un ampio partenariato che coinvolge diverse Università,
Istituti di Ricerca, ONG e società private con sede in vari paesi
europei (Italia, Regno Unito, Francia, Grecia) e africani (Etiopia,
Kenya, Tanzania, Ghana, Burkina Faso, Sierra Leone).
Nei quattro
anni di durata complessiva del progetto, iniziato ufficialmente il primo
ottobre 2020, EWA-BELT si propone di affrontare un ampio spettro di
problematiche legate alla sicurezza e qualità alimentare, come ad
esempio la scarsa produttività delle colture, l’alimentazione e il
benessere animale, la scarsa disponibilità di colture e varietà adatte
ad ambienti di coltivazione di tipo intensivo, le perdite in pre- e
post-raccolta, lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali
(erosione e perdita della fertilità dei suoli, pascolamento eccessivo,
degrado della qualità dell'acqua, etc.), le difficoltà di collegamento
tra produzione e mercato e la scarsa connessione tra ricerca e
agricoltura.
EWA-BELT si prefigge, inoltre, di promuovere un
approccio responsabile e pro-attivo delle comunità e delle istituzioni
locali rispetto alla sostenibilità dell'uso delle risorse naturali
attraverso lo sviluppo di strategie di rafforzamento delle competenze,
l'adozione di un approccio partecipativo multi-attore e il
consolidamento della cooperazione transfrontaliera tenendo in
particolare conto delle tematiche relative alla parità di genere.
Nelle
diverse aree agro-climatiche distribuite tra i paesi dell’Africa
dell’Est (Etiopia, Kenya e Tanzania) e dell’Ovest (Burkina Faso, Ghana e
Sierra Leone) saranno individuati 38 casi studio in cui le attività di
ricerca saranno guidate da un approccio gender-sensitive di tipo partecipativo e integrato, realizzato tramite la costituzione di Farmers’ Field Research Units
(FFRUs). Le FFRUs saranno concepite come uno spazio di dialogo e di
interazione i fra diversi attori (agricoltori, ricercatori e altri
portatori di interesse) in cui saranno promosse e realizzate, oltre alle
attività di ricerca e innovazione, attività di disseminazione dei
risultati e di capacity-building (workshop, visite sul campo
etc.). Verrà, dunque, posta la massima attenzione all’inclusione e alla
cooperazione tra partner, portatori di interesse e istituzioni locali,
così da garantire piena efficacia del progetto e sostenibilità nel lungo
periodo.
Dal 29 settembre scorso è disponibile on line un articolo pubblicato dalla rivista Poultry Science dal titolo:
“Organic cranberry pomace and its ethanolic extractives as feed
supplement in broiler: impacts on serum immunoglobulin titers, liver and
bursal immunity”, autori Quail Das et al. dell’università di Guelph, Canada. Il
lavoro è stato condotto su polli da carne ed ha riguardato le risposte
del loro sistema immunitario alla somministrazione del pastazzo di
mirtilli rossi e del suo estratto alcolico nel mangime a diversi livelli
di concentrazione.
Presso il Centro di Eccellenza per le Stability Police Units
(CoESPU) di Vicenza, nato dopo l’accorpamento del Corpo Forestale dello
Stato con l’Arma dei Carabinieri, è stata istituita una Cattedra di
“Polizia per la Tutela Ambientale, Forestale e Agroalimentare”. La
nuova disciplina ha arricchito ulteriormente l’offerta formativa del
Centro, che svolge attività formativa addestrativa a favore di personale
di polizia, civile e militare, proveniente da ogni continente.
L’attività
della Cattedra si estrinseca nella predisposizione, formulazione e
somministrazione di lezioni di “consapevolezza ambientale” durante i
diversi corsi che hanno luogo al CoESPU, rispettando e applicando i
principi dell’andragogia. La didattica si arricchisce e si integra con
una parallela e costante analisi della dottrina e dei suoi sviluppi in
materia ambientale che possono poi diventare oggetto di divulgazione.
Lo
studio delle politiche ambientali consente innanzitutto di capire quali
indirizzi le organizzazioni internazionali considerino prioritari e
strategici: si fa riferimento in primis alle Nazioni Unite che,
nell’ultimo decennio, hanno saputo elevare qualitativamente in maniera
esemplare la propria performance ambientale. Dalla situazione di fine
millennio scorso, nella quale l’impronta ambientale della complessa
macchina delle Nazioni Unite produceva un inquinamento annuo pari a
quello della città di Londra, sono stati fatti consistenti passi avanti.
Nel
codice di condotta dei “caschi blu” (forze internazionali di pace delle
NU) è stata inserita la regola che recita: “Mostra rispetto e promuovi
l’ambiente – compresa flora e fauna- del Paese che ti ospita”. Frase
semplice ma ricca di significato, il “mostrare rispetto” è la traduzione
del basico principio “Do no harm”, non fare danni. Il
“promuovere”conferisce invece all’azione delle forze ONU una valenza di
ben più ampio respiro: promuovere significa infatti rendersi
protagonisti di un atteggiamento proattivo, ponendo in essere concrete
azioni di tutela e salvaguardia dell’ambiente.
L’evoluzione, in seno
alle Nazioni Unite e alle sue articolazioni, è assolutamente singolare e
di valore: dalla priorità individuata nella mitigazione dell’impatto e
nella diminuzione dell’inquinamento creato da ogni attività condotta
(dal Palazzo di Vetro alle basi di Missione nelle aree più remote e
fragili del globo) il concetto è stato ulteriormente elaborato:
l’ambiente richiede ad ogni operatore di essere responsabile delle sue
azioni e delle conseguenze derivate, coinvolgendo direttamente quindi
anche la sfera personale oltre a quella professionale.