Notiziario


L’economia al tempo della pandemia: il vincolo burocrazia

Dopo tante previsioni formulate nei mesi scorsi sulle conseguenze economiche della crisi provocata dalla Covid-19, diverse ma concordi su un calo record del Pil,  nella prima settimana di maggio l’Istat ha reso nota la stima sull’andamento dell’economia nel primo trimestre 2020. Come era logico attendersi il calo calcolato su dati reali è consistente e pari al 4,7% rispetto allo stesso periodo del 2019 ed al 4,8% sull’ultimo trimestre 2019. Su base annua giungerebbe al 4,9%. L’andamento risente del rallentamento degli ultimi 2019 e della dinamica di marzo, con il blocco totale, rispetto a gennaio e febbraio. Il dato relativo all’Ue si traduce in una contrazione del 3,8%.

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“OGM” “fallimentari”? Parole e fatti

In un suo recente intervento (www.georgofili.info/contenuti/biotecnologie-e-miglioramento-genetico-riuscir-il-genome-editing-dove-hanno-fallito-gli-ogm/14970), il prof. Mario Enrico Pè dichiara il “sostanziale fallimento degli OGM in agricoltura”, adducendo alcuni argomenti logicamente ed empiricamente insostenibili.
La radicale affermazione è che “di fallimento si tratta, nonostante i milioni di ettari coltivati nel mondo con OGM.” Se le parole hanno un senso, “fallimento” significa fallimento: non ci verrà rimproverato se usiamo una mera tautologia, perché ci sembrerebbe offensivo per qualsiasi lettore trascrivere una definizione da un dizionario. La bizzarra proposizione che unisce la nozione di “fallimento” con la diffusione mondiale della tecnologia (solo dove è permessa, benché non manchino casi di vendite sottobanco e contrabbando di sementi transgeniche dove sono proibite) ha già costretto qualche commentatore ad acrobazie semantiche, con espressioni tipo “fallimento di successo” (www.stradeonline.it/scienza-e-razionalita/4208-un-fallimento-di-successo#).
L’autore rileva che “le varietà OGM di successo si limitano all’introduzione di un numero di caratteri che si può contare sulle dita di una mano. Un risultato ben magro per una tecnologia che si proponeva di rivoluzionare il modo di fare miglioramento genetico.“ E’ vero. Non poteva essere altrimenti, visto che la regolamentazione anti-scientifica (Ammann 2014) adottata in molti paesi, in particolare in Europa, e ancor più in Italia, ha imposto agli sviluppatori dei cosiddetti “OGM” – acronimo senza senso, non dimentichiamolo: un ingannevole e tendenzioso meme virale, non un concetto – irragionevoli carichi burocratici e asfissianti restrizioni alla sperimentazione delle colture transgeniche: generando così un oligopolio dovuto al fatto che solo multinazionali con le spalle finanziariamente larghe possono sostenere i costi connessi (Miller e Conko 2003) – aziende che, ovviamente, hanno puntato solo sui tratti commercialmente più redditizi (soprattutto resistenza agli insetti e tolleranza agli erbicidi).
Quindi, dire che “il loro fallimento sia dipeso in buona parte anche dall’incapacità di questa tecnologia di proporre quella gamma di caratteristiche ‘migliori’ necessarie a rendere fortemente desiderabili le piante OGM anche al di fuori dell’agricoltura intensiva” è scorretto: non si tratta di “incapacità della tecnologia”, ma di camicia di forza legalistica imposta (non dappertutto) a chi quella tecnologia voleva svilupparla.

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Zuppa Inglese, invenzione italiana

Un tormentone da tempo agita la gastronomia italiana, quello dell’origine e della denominazione della zuppa inglese, un dolce al cucchiaio a base di pan di Spagna, imbevuto di liquori quali l'alchermes o il rosolio, con crema pasticcera, spesso con aggiunta di cioccolata. Molte sono le leggende, favole e dicerie riguardanti la zuppa inglese, tutte prive di solide documentazioni. Secondo una prima leggenda, la preparazione nasce nel XVI secolo presso la corte Estense, quale rielaborazione del trifle, dolce anglosassone di pasta lievitata, bagna alcolica, panna, confetture e biscotti e che un diplomatico della casa reale inglese avrebbe stata portata a Ferrara dove sarebbe stata modificata sostituendo la pasta di pane con una ciambella morbida e in seguito ingentilita usando pan di Spagna e poi biscotti savoiardi, crema pasticcera e cioccolata.

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Come sarà il “dopo Covid-19”?

La reclusione domiciliare di questi mesi mi ha permesso di intensificare l’attività di aggiornamento tecnico-scientifico sui possibili collegamenti fra zootecnia, gas serra e riscaldamento globale e, ultimamente, sulla possibile responsabilità del particolato PM10 nei riguardi della diffusione del Coronavirus. E ciò che emerge dalla letteratura mi spinge ad alcune considerazioni, non proprio ottimistiche sul nostro futuro.

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Non solo Covid-19: l’inquinamento contribuirebbe anche alle patologie neuro-degenerative

La demenza, che comprende sia la demenza vascolare sia il morbo di Alzheimer, è la settima causa di morte in tutto il mondo (i decessi dovuti a demenza sono più che raddoppiati tra il 2000 e il 2015) tanto da arrivare a essere, nel 2018, una malattia da mille miliardi di dollari (totale mondiale di costi diretti) per la quale non esiste ancora una vera e propria cura. Pertanto, la prevenzione primaria di tutte le forme di demenza è una delle principali preoccupazioni globali per la salute pubblica e lo sarà ancora di più nei prossimi decenni.
Per il morbo di Alzheimer, la ricerca ha indagato l’influenza dello stile di vita precedente e i risultati hanno stimato che circa un terzo delle forme con cui si manifesta potrebbe essere attribuibile a fattori di rischio potenzialmente modificabili come il fumo e l'inattività fisica.
Più recentemente la ricerca si è estesa anche sul rapporto fra fattori di rischio ambientale e demenza e un'ampia revisione sistematica degli studi condotti ha evidenziato prove moderate di un'associazione con otto diversi fattori tra cui l'inquinamento atmosferico e la neurodegenerazione e sono quindi necessarie ulteriori ricerche per chiarire del tutto questi aspetti.
Mentre l'inquinamento atmosferico è un fattore di rischio consolidato per le malattie cardiovascolari e respiratorie, il suo ruolo in relazione alla demenza è, infatti, molto meno considerato e compreso. Una recente ricerca pubblicata su Environmental Health (vedi bibliografia) ha associato la vicinanza dell'abitazione a una strada trafficata all'incidenza di demenza non-Alzheimer, morbo di Parkinson, morbo di Alzheimer e sclerosi multipla. Lo stesso lavoro ha mostrato alcuni effetti positivi del verde nei riguardi dell'incidenza della patologia.

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L'economia della pandemia tra speculazioni e monopoli di Stato

Ancora non si sa quando finirà l’emergenza Covid-19 e quali saranno le conseguenze. L’incertezza  e la percezione di un ignoto che spaventa induce a subire  anche ciò che altrimenti sarebbe inaccettabile. Gli esempi non mancano, vediamone due: l’assalto a farina e pasta e  la vicenda delle mascherine.
Quando si profilava la chiusura quasi generalizzata di ogni attività, tranne di quelle necessarie a salute ed alimentazione, si verificò un vero e proprio “assalto” all’acquisto di alimentari. L’istinto di sopravvivenza riemergeva da un remoto passato e spingeva a un comportamento compulsivo nel ricordo del tempo di guerra. Significativamente la lotta al virus è definita enfaticamente “una guerra”. La paura della carestia, descritta da Manzoni in tutti i suoi effetti anche economici, spingeva a scegliere alimenti conservabili come farina, pasta, scatolame, zucchero, sale e l’ortofrutta meno deperibile. Nelle prime settimane roventi la spesa è salita del 28% per poi arretrare al 18%. Tantissimo in tempi normali, ma non abbastanza per compensare il crollo di domanda della ristorazione. Il cibo non è mai mancato, se non per ragioni logistiche, i prezzi sono saliti per i derivati del frumento, le conserve in scatola, mele, patate e carote. Il caso del frumento è stato enfatizzato, anche se l’effetto  su pane e pasta si è sentito poco. Il prezzo del grano tenero in poche settimane è tornato circa ai livelli precedenti, la farina stentava a comparire sugli scaffali per ragioni pratiche, mentre il duro, in salita già a fine 2019, ha proseguito il suo movimento che sembra essersi fermato nelle due prime settimane di maggio. Massimi sui 309-310 €/tonn., superiori agli ultimi due anni, ma inferiori a quelli precedenti. La produzione italiana di grano da tempo non soddisfa la domanda interna che si è rivolta alle importazioni condizionate oggi da problemi logistici dovuti anche ai blocchi degli scambi. La produzione mondiale, le previsioni sui raccolti dell’annata, la prevista debolezza della domanda post crisi e  le dimensioni rassicuranti degli stock hanno frenato le spinte al rialzo. Per il grano, dopo i primi sussulti  più emotivi che razionali,  prevalgono logiche di mercato e prezzi di poco superiori agli ultimi anni, ma inferiori ad esempio a quelli del 2015, in un clima di reazione composta.

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Lo scarto alimentare può diventare mangime per animali

Secondo uno studio condotto dalla FAO nel 2011, intitolato Global Food Losses and Food Waste, ogni anno, nel mondo, vengono sprecati circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo di cui l’80% ancora consumabile e solo il 43% dell’equivalente calorico dei prodotti coltivati a scopo alimentare umano a livello globale viene effettivamente consumato. Le tonnellate di cibo che vengono sprecate nei soli Paesi industrializzati sono circa 250 milioni. Una cifra che, da sola, sarebbe sufficiente a sfamare l’intera popolazione dell’Africa Subsahariana!
Nel nostro Paese, nella spazzatura finiscono 700 grammi di cibo pro capite a settimana, quasi l’uno per cento del prodotto interno lordo (progetto “Reduce”, 2019).
Da più parti si avanzano proposte per “riciclare” quanto viene incoscientemente buttato via con conseguenze negative anche nei riguardi della sostenibilità ambientale, trasformandolo in alimenti per animali.

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Della Scienza e dell’Utopia

La storia ci insegna con ineludibile evidenza che la nobile spinta verso un modello ideale non può prescindere da una approfondita e completa analisi della sua realizzabilità. E’ evidente, quindi, che anche nel confronto dialettico fra scienziati, che è caratteristica specifica e fondamentale della crescita dei nostri saperi, è importante mantenere grande lucidità ed equilibrio per evitare i condizionamenti della realtà che circonda.
Ciò è di particolar importanza oggi, in questo opulento pezzetto di umanità – il più protetto, longevo, meglio nutrito e curato che abbia mai calcato la faccia della terra - nel quale l’agricoltura ha perso il suo ruolo di settore “primario”, la sua funzione di fattore essenziale alla sopravvivenza dell’uomo,  per diventare un fatto prevalentemente edonistico con un’accurata liturgia celebrata  da nuovi “maître à penser” e da grandi chef. E’ così che gli agricoltori vengono guardati con sospetto, l’allevamento animale spesso criminalizzato, mentre forti tendenze antiscientifiche si diffondono nella società e guaritori, no-vax, negazionisti, ecc. trovano crescente spazio nei media.

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È ora il momento di puntare su nuovi paradigmi per tutelare ecosistemi e biodiversità

Il 22 aprile scorso si è svolto il 50° Earth Day e a distanza di un mese, il prossimo 22 maggio, celebreremo la giornata mondiale della biodiversità. Queste date rappresentano un’occasione strategica per sottolineare l’importanza di preservare la Terra, i suoi ecosistemi e la biodiversità da un declino senza precedenti.
In particolare, in un periodo come quello attuale fortemente segnato dalla crisi sanitaria legata al Coronavirus, diventa ancora più importante tutelare le risorse naturali e gli agroecosistemi, preziosa fonte di biodiversità.
Molti approfondimenti di studiosi e di organizzazioni di varia natura indicano la stretta connessione tra le attività dell’uomo e il loro impatto sulla natura come una delle ragioni principali della crisi che stiamo attraversando.
Queste analisi sono basate sui dati di numerosi rapporti a livello internazionale che evidenziano la ricaduta delle diverse attività umane sull’ambiente.
Uno dei più recenti, il rapporto IPBES (Intergovernamental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services dell’ONU) del 2019, fotografa un declino della natura senza precedenti. Dall’indagine emerge infatti che il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino sono stati modificati in modo significativo e che circa 1 milione di specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Circa un ottavo degli 8 milioni di specie presenti sulla Terra è dunque destinato a scomparire a causa delle conseguenze dell’impronta impressa dall’uomo sugli ecosistemi, tra cui urbanizzazione, metodi di sfruttamento delle terre e delle risorse naturali, agricoltura intensiva e uso di pesticidi di sintesi chimica.
Il rapporto evidenzia una rapida accelerazione del tasso di estinzione delle specie, in particolare i vertebrati. Ricerche approfondite rivelano che un terzo delle api e degli insetti è a rischio estinzione.

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Agricoltura sostenibile: serve alleanza tra Università e mondo produttivo

Da settimane, ormai, stiamo vivendo una forzata “reclusione” da coronavirus che se da un lato è molto pesante per le restrizioni che ci impone, dall’altro ci lascia una notevole quantità di tempo per chiederci cosa ci riservi il futuro prossimo in termini di qualità della vita; a noi stessi, ai nostri figli, ai nostri nipoti e alla società tutta, nella nostra città, nel nostro Paese, in Europa e nel mondo intero. Anche io, da vecchio docente di Agronomia, mi sono soffermato più volte a pensare a dove, come e quanto l’agricoltura italiana (o, meglio, le diverse agricolture italiane) avrebbe sofferto della crisi in atto e, di conseguenza, a come si potesse fin da subito approfittare di un “evento” così traumatico per mettere a punto dei nuovi modelli di sviluppo di tutto il comparto agroalimentare.
Come sopra accennato, a tutti i livelli decisionali interessati si dovrà finalmente tener conto del fatto che non c’è e non può esserci “una” sola agricoltura in Italia. In un Paese così “variegato” per le sue caratteristiche naturali, storiche, economiche, sociali - e per la “naturale” diversa potenzialità produttiva - la messa a punto degli specifici modelli di agricoltura “sostenibile” oltre che prevedere gli elementi tecnici ed economici più consoni alle diverse aree agricole (a livello locale) deve proporre con la massima efficacia possibile (e con più contenute difficoltà burocratiche) anche tutti gli interventi esterni a sostegno della produzione primaria e delle filiere produttive locali. In primo luogo, comunque, ritengo non più differibile la messa a punto di una credibile politica di salvaguardia delle nostre aree interne; riconoscendo - una volta per tutte - che in queste aree l’esercizio dell’agricoltura è senz’altro un’attività basilare per realizzare un’adeguata conservazione “attiva” dell’intero territorio. In molti dei comprensori di che trattasi era da tempo apparso evidente che, senza una visione strategica definita sulla base del complesso delle caratteristiche locali (e non solo agronomiche), non saremmo riusciti a frenare il crescente abbandono dell’attività agricola (Terres, 2015). Qualche anno fa, ad esempio, trattando della possibilità di introdurre colture agrarie da biomassa a destinazione energetica nelle aree marginali, in sede di Accademia dei Georgofili sostenni che “qualunque coltura agraria è migliore dell’abbandono anche dal punto di vista ambientale e della conservazione del territorio rurale”. La mia “uscita” non trovò allora tutti d’accordo (a taluni parve che il tutto entrasse troppo in conflitto con la produzione di cibo), ma oggi anche la statistica ufficiale (dal 1971 al 2010 abbiamo perso ben 5 milioni di ettari di SAU dei 18 totali e peggio sarà con il prossimo censimento) ci rammenta l’entità del problema e rende soprattutto evidente che per evitare l’abbandono delle aree coltivate “qualche cosa di più” rispetto al recente passato (ed al presente) lo dobbiamo comunque fare (colture poliennali, zootecnia estensiva, cerealicoltura di qualità, biomasse da energia, agroforestazione, agriturismo, ecc).

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Rendez vous degli insetti

Gli insetti sono animali tipicamente a sessi separati, l’unico caso noto di ermafroditismo è quello della cocciniglia australiana Icerya purchasi, i cui individui ovideponenti sono considerati ermafroditi sufficienti. Nelle specie in cui i maschi sono rari, o assenti, è diffusa la partenogenesi. Gli incontri fra i due sessi non avvengono quasi mai per caso, ma sono la fase finale di un vero e proprio corteggiamento con il quale, di norma, il maschio si rende accetto alla femmina; le parate nuziali hanno un ruolo importante nella biologia riproduttiva di molte specie di insetti poiché consentono a maschi e femmine di maturare sessualmente, di sincronizzare le fasi sessuali e alla femmina recettiva, di accettare il maschio per lei evolutivamente confacente. Al primo approccio seguono modelli comportamentali più o meno complessi; ovvero del tutto assenti. Il riconoscimento dei sessi può avvenire mediante stimoli visivi, tattili, sonori e chimici. L’accoppiamento, che può verificarsi in volo o su substrati, in alcune specie è preceduto, o accompagnato, da offerte di cibo da parte dei maschi.

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Millesimi di nanogrammi e scandalismo alimentare

Nella seconda metà del secolo passato si diceva che “è il chimico che fa il contaminante” nel senso che la presenza di quest’ultimo in un alimento dipende dalla sensibilità del metodo usato per rilevarlo. Al tempo stesso valeva e continua a valere l’antico e saggio principio che “è la dose che fa il veleno”. Oggi in un periodo di fake news e di un dilagante scandalismo si sono (volutamente?) dimenticati i due principi e di fronte al continuo progresso nei metodi di analisi che con precisione rilevano quantità sempre minori di molecole si sollevano inutili dubbi sulla purezza degli alimenti e soprattutto si accendendo pericolose paure.
Recentemente con i più sofisticati metodi di analisi si trova tutto e dappertutto in quantità che non sono più di milligrammi per chilogrammo di alimento, ma microgrammi (miliardesimo per chilogrammo) e nanogrammi (miliardesimo per grammo) e millesimi di nanogrammo e loro ulteriori frazioni fino ad arrivare con il metodo di analisi denominato UHPLC-Q-Orbitrap HRMS system a qualche millesimo di nanogrammo per grammo o millilitro di alimento. Nel latte di mucca ad esempio e con questi metodi si è trovata la diffusa presenza (quasi nella metà dei campioni di latte di diversa provenienza esaminati) di infinitesime quantità di micotossine e soprattutto di insospettate sostanze attive (antinfiammatori, cortisonici, antibiotici ecc.)

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Il futuro del cibo, l’incognita Covid-19 e la lanterna dell’antropologo

La produzione e il consumo di cibo non sono “immuni” dal fenomeno pandemico Covid-19. Potremmo essere indotti a pensarlo, visto che neppure con il prolungarsi della quarantena si sono registrate interruzioni nella catena degli approvvigionamenti alimentari. Ci sono tante vittime e viviamo limitazioni delle libertà individuali paragonabili a tempi di guerra ma nell’isolamento il cibo è diventato la nostra ossessione positiva, una sorta di valvola di sfogo autorizzata. Nella confusione che questa situazione ingenera, anche chi opera professionalmente nel settore finisce col pensare per compartimenti: l’agricoltura è preoccupata dalla mancanza di operai per il raccolto, l’industria alimentare dagli accresciuti standard di sicurezza del lavoro, la grande distribuzione dalla delicatezza sociale del suo ruolo, la ristorazione dai costi che corrono a fronte di entrate svanite.
Eppure guardare oltre il breve termine è importante: per prendere decisioni strategiche, per fare nuovi investimenti, per adattarsi a una lunga convivenza con la minaccia pandemica, per innovare. Poiché non ci troviamo in una situazione di continuità con il passato, neppure possiamo affidarci all’esperienza: la minaccia pandemica Covid-19 è un evento disruptive, come ce ne sono stati pochi altri nella storia dell’umanità. Qualunque azione decidiamo di intraprendere, abbiamo necessità di dotarci preliminarmente di un piano e ancora prima di prefigurarci uno scenario. Che ipotesi possiamo formulare in merito all’influenza del fenomeno pandemico sul futuro del cibo?
Vengono oggi in soccorso della pianificazione strategica una serie di tecniche provenienti da più campi: le mappe mentali dagli studi cognitivi, i megatrend dagli studi sul futuro, seminari e indagini dalle scienze sociali. In attesa che si producano studi più approfonditi, può essere d’aiuto guardare alla realtà in divenire (da uno stato pre-Covid a uno stato post-Covid) da un altro punto di osservazione: quello dell’antropologia. Utilizzando la “lanterna dell’antropologo” (1), cercheremo qui di illuminare (con brevi flash) le tante valenze culturali del concetto di cibo per immaginare quindi le possibili conseguenze di Covid-19. Nel far ciò seguiremo una classificazione delle principali definizioni, elaborata in ambito antropologico da Mintz e Dubois e concepita per un uso interdisciplinare (2).

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Biotecnologie e miglioramento genetico: riuscirà il genome editing dove hanno fallito gli OGM?

Il consolidamento di metodologie molecolari di intervento mirato sul genoma cellulare, indicate complessivamente con il termine genome editing, rappresenta uno degli avanzamenti tecnologici più importanti realizzati in biologia nell’ultimo decennio. La possibilità di cambiare in modo chirurgico specifiche sequenze di DNA, una sorta di Santo Graal per generazioni di genetisti e di biologi molecolari, è talmente rivoluzionaria da aprire nuove prospettive conoscitive e applicative in tutti i campi delle scienze della vita. Tale rivoluzione promette di fornire un impulso decisivo affinché le biotecnologie diventino un asse portante dell’economia del XXI secolo. Non è difficile immaginare l’impatto potenziale del genome editing nel miglioramento genetico delle specie di interesse per l’agricoltura, contribuendo all’ottenimento in tempi brevi di nuove varietà più consone alle esigenze dell’agricoltura contemporanea. La rivoluzione del genome editing consentirebbe di rispondere alle sfide sempre più pressanti poste dai cambiamenti climatici ed a quelle legate alla necessità di ripensare la pratica agricola secondo i dettami della sostenibilità. Non è quindi sorprendente che sul genome editing nel miglioramento genetico siano cresciute grandi aspettative, ma che si siano levate anche voci di cautela e persino di contrasto alla sua applicazione. Nella narrazione a supporto del contrasto all’uso del genome editing spicca il tentativo di omologare i suoi prodotti agli OGM, sottoponendoli così ad una regolamentazione talmente restrittiva e costosa da ottemperare da renderli di fatto non utilizzabili in Italia e in Europa.
Non è scopo di questa mia nota soffermarmi sulle differenze tecniche sostanziali tra transgenesi e genome editing, né desidero entrare nel merito della diatriba sull’adozione del genome editing in Italia e in Europa nella quale la mia posizione a supporto del loro utilizzo, e anche quella di numerose società scientifiche nazionali ed europee, sono state espresse in numerosi documenti e dibattici pubblici. Piuttosto, riprendendo il titolo di questa nota, desidero argomentare come il contesto scientifico attuale, derivato dai considerevoli avanzamenti conoscitivi e tecnici prodotti dalla genomica e dalle sue applicazioni superi alcune delle limitazioni scientifiche che a mio avviso hanno contribuito al sostanziale fallimento degli OGM in agricoltura. Perché di fallimento si tratta, nonostante i milioni di ettari coltivati nel mondo con OGM.
Lo scorso novembre, in occasione di una giornata di confronto su aspetti tecnici e sociali del genome editing applicato al miglioramento genetico, organizzata a Bruxelles dalla Federazione delle Accademie Scientifiche Europee (https://allea.org/), Sir Davis Baulcombe, eminente biologo vegetale e genetista della Royal Society, nella sua prolusione citò Roy Amara, ricercatore e scienziato dell’Institute for the Future americano, e la sua legge. Nella sua prima parte la legge dice che “nel breve periodo tendiamo a sovrastimare gli effetti di una tecnologia” (S. Ratcliffe, ed., 2016). Negli scorsi decenni nel campo del miglioramento genetico si sono succeduti esempi quasi clamorosi di questa sovrastima. Molti di noi ricorderanno le grandi aspettative sorte a cavallo degli anni ’80 e ’90 sull’uso dei marcatori molecolari, tanto da indurre alcuni a decretare la fine del miglioramento genetico fino ad allora conosciuto. Ci vollero vent’anni prima che l’applicazione dei marcatori molecolari fosse inglobata come metodologia ausiliaria, seppur importante, nel miglioramento genetico attuale. Il caso degli OGM è ancora più eclatante. Anche dove ampiamente utilizzate, le varietà OGM di successo si limitano all’introduzione di un numero di caratteri che si può contare sulle dita di una mano. Un risultato ben magro per una tecnologia che si proponeva di rivoluzionare il modo di fare miglioramento genetico.

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L’economia ai tempi della pandemia: il caso Ateco

Non sappiamo nemmeno quante volte in questo nero avvio di primavera abbiamo sentito ripetere il concetto che tutto è cambiato e nulla potrà essere più come prima. Il concetto contiene un messaggio di speranza e di volontà di riscossa e ciò può spiegare perché abbia avuto tanta presa. Allo stesso tempo è liberatorio, nel senso che esprime la diffusa convinzione  che tutto quanto avviene abbia trovato spazio grazie alle pecche del sistema sociale e politico italiano. Nei difficili giorni in cui prevale ancora la lotta al virus e si inizia a parlare del dopo si riconosce che vi è un costume da cambiare per rendere più forte ed efficiente la nostra società in futuro, nell’ordinarietà della vita quotidiana e nella straordinarietà di eventi come l’epidemia. Non crediamo che tutto cambierà, non è necessario, né che nulla sarà più come prima: non è utile distruggere ogni cosa. Non siamo all’anno zero, ma più semplicemente al punto in cui, sotto l’incalzare di due crisi gigantesche, sanitaria e economica, bisogna por mano con urgenza, prudenza ed intelligenza al nostro sistema sociale.
Partiamo dagli strumenti usati, con colpevole frequenza, per dettare regole e comportamenti ai fini di contenere le crisi e preparare il dopo: i decreti emanati a raffica in adunate virtuali di popolo davanti ai teleschermi  come in altri tempi nelle piazze. La prima osservazione è che servono provvedimenti urgenti che devono essere diffusi tempestivamente, quindi in linea di principio c’è poco da eccepire. Quella successiva è che il tono e il modo sono viziati da almeno due limiti: il primo è il criterio di apparire in tempi sfasati fra il momento della”comunicazione” e quelli della “emanazione” e della “applicazione”. Basterebbe un solo decreto direttamente operativo con le norme che ora vengono demandate ad un nuovo decreto dopo pochi giorni, da una conferenza stampa all’altra, causando confusione e ritardi. Il secondo, più legato ai contenuti, è lo stile burocratico che li permea. L’impressione è che vi sia un irresistibile bisogno di agganciarsi alla solida e immobile potenza della burocrazia, arcigna e cieca più della giustizia, regina di regole e riti, ma anche serva di un potere che non ha capacità di prevedere e gestire e si aggrappa a complicazioni e barriere che tengono lontano il cittadino dalla burocrazia.
Così nascono l’economia e la politica dell’Ateco. La decisione di vietare/autorizzare l’esercizio delle diverse attività a partire da quelle economiche, nella confusione di un decreto tempestivo, ma non operativo perché non sa quali ragionevolmente può/vuole aprire o lasciare chiuse, viene demandata ad una entità poco nota  e inattaccabile. È misteriosa, quasi magica ed ha il privilegio di una costruzione burocratica: il codice Ateco. Di fronte ad esso, velato di esoterici significati arretrano persino i mezzi di comunicazione. Ateco è un sistema di classificazione utilizzato per catalogare ogni attività produttiva o di servizio ai soli fini statistici. Ecco il problema: l’impiego improprio di uno strumento creato e utilizzato per altri scopi.


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Allevamenti intensivi al tempo del Covid-19

Le informazioni che ci sono arrivate dalla visione del programma “Report” del 13 aprile scorso, su Rai 3, si possono riassumere nei seguenti punti:
    a) le zone della pianura padana dove si è avuta la maggior diffusione del virus sono caratterizzate dalla presenza di molti allevamenti intensivi che producono enormi quantità di liquami, ricchi di ammoniaca, liquami che vengono sparsi sui campi come fertilizzanti, spesso irresponsabilmente;
    b) le attività zootecniche sono responsabili del 51% dell’inquinamento da gas serra, quindi più delle attività industriali e dei trasporti messi insieme;
    c) le stesse zone, dove il Covid19 si è diffuso in maniera più violenta, sono caratterizzate dalle concentrazioni più elevate di PM10;
    d) lo spandimento dei liquami favorisce la formazione del particolato PM10;
    e) gli allevamenti intensivi possono rappresentare un rischio di incubazione e trasmissione del Covid19.
Ne consegue il facile sillogismo, che coincide con il messaggio percepito dai telespettatori: il Covid19 viene veicolato dalle particelle PM10; il particolato si forma in conseguenza dello spandimento del letame prodotto dagli allevamenti intensivi; ergo la responsabilità della epidemia in Lombardia è, in massima parte, delle attività zootecniche.

Tutto ciò ci impone di dare delle risposte con argomenti, questa volta, documentati.

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