L’agricoltura intensiva e la pandemia da Covid-19

di Giuseppe Bertoni
  • 29 July 2020

Nei mesi scorsi, a seguito del drammatico diffondersi della Covid-19 causata dal virus SARS-CoV-2, numerosi sono stati gli interventi giornalistici – spesso definibili come “fake news” - sulla possibile relazione fra agricoltura moderna, squilibri ambientali ed emersione di nuove zoonosi potenzialmente pandemiche. In particolare: agricoltura intensiva = deforestazione e comunque impatto negativo sull’ambiente (PM10 e cambiamenti climatici) = passaggio dei virus dagli animali all’uomo = pandemia.
Sul tema sono recentemente intervenuto per ricordare che le zoonosi sono malattie antiche quanto l’uomo, non solo virali, ma anche batteriche e parassitarie; la sola via ragionevole di prevenzione è controllarle e bloccarle sul nascere, intensificando le buone norme di bio-sicurezza negli scambi mondiali e sicuramente con una adeguata sorveglianza nelle aree a rischio (circostanza mancata in toto a Wuhan per la Covid-19). Che vi possa essere una relazione con gli squilibri ambientali non è da escludere in toto, mentre meno credibile è che ciò sia in relazione con l’agricoltura, specie intensiva. Infatti, non è stata l’agricoltura in sé, quanto piuttosto l’aumento della popolazione, a determinare la progressiva occupazione della superficie terrestre: dai 370 mila ettari in epoca romana ai 4,5 miliardi attuali (di cui coltivati rispettivamente 170 mila e 1,5 miliardi di ettari) in stretta relazione con la popolazione: da 170 milioni a 7,6 miliardi. Men che meno si può parlare di agricoltura intensiva quale concausa di tale occupazione; infatti, questa forma ha avuto grande diffusione dagli anni ’60 e – in coincidenza a ciò – la superficie agricola mondiale non è più aumentata (benché la popolazione sia passata da 3 a 7,6 miliardi, mentre il n° degli affamati sia proporzionalmente diminuito). D’altra parte, è ben vero che in questi ultimi decenni sono vieppiù aumentati gli squilibri ecologici, in particolare i processi di deforestazione e i cambiamenti climatici, nonché l’inquinamento atmosferico da polveri sottili, tutti fenomeni interconnessi e ritenuti fra le cause delle pandemie. Tuttavia, anche questi sono fenomeni riconducibili all’andamento demografico e ai processi di sviluppo degli ultimi due secoli, ma in misura modesta all’agricoltura.
Dunque, a provocare il crescente aumento del prelievo di risorse (rinnovabili e non), sono state la numerosità delle bocche e la loro voracità (senza intento irriverente, anche perché molte delle accresciute esigenze, e non solo alimentari, sono connesse ai diritti di ogni uomo che l’Umanità ha voluto sancire nel 1948). Indiretta conferma del ruolo marginale dell’agricoltura si desume dal fatto che il suo contributo ai gas serra e al PM10 non raggiunge il 20%, che i 2/3 dell’acqua da essa utilizzata è quella verde (da pioggia senza usi alternativi) e che  i Paesi con agricoltura intensiva stanno riducendo le superfici coltivate con avanzamento del bosco (al contrario delle agricolture di sussistenza dei PVS e dell’agricoltura biologica in quelli sviluppati).
Se ai più, tutto questo potrebbe sembrare una "difesa d’ufficio" dell’agricoltura intensiva, in tutta onestà non vi è finalità assolutoria nei sui confronti; netta è infatti la consapevolezza che molto è possibile e deve essere migliorato. Nei Paesi con agricoltura intensiva sono ormai numerose le conoscenze che, purché applicate (rotazioni, no tillage, cover crops, sistemi di precisione nei campi e negli allevamenti ecc.), consentirebbero di avere l’agricoltura conservativa con: rese elevate, mantenimento della fertilità dei suoli, minore impatto ambientale in termini di gas serra e di inquinanti, minor occupazione dei suoli e quindi mantenimento della biodiversità complessiva. In buona sostanza, si arriverebbe alla intensificazione sostenibile perorata dalla FAO col motto: produrre di più con meno. Semmai, l’auspicio è che non manchino sforzi per far progredire anche l’agricoltura di sussistenza (che riguarda oltre il 40 % della popolazione mondiale e quindi costituisce una esigenza strategica nell’ambito di un futuro migliore per l’intero pianeta).
Ciò detto, non possiamo che esprimere l’auspicio di un diverso modo, per il futuro, di approcciare (e condividere il più largamente possibile) due dei problemi strategici per la sopravvivenza sulla terra:
- quello della salute umana che significa produzione di cibo sufficiente per tutti, ma anche sicuro e nutrizionalmente appropriato;
- quello della salute del pianeta (o Creato per i credenti) che, proprio perché in buona salute e avendo conservato la capacità di auto-rigenerazione, potrà garantire (in eterno) il cibo di cui sopra.
Si tratta di due esigenze fra loro in competizione, ma che possono e debbono essere ricondotte all’unità; per far questo è anzitutto indispensabile riconsiderare il concetto biblico di coltivazione abbinato a quello di cura o custodia che da un lato non deve significare puro sfruttamento agricolo della terra, ma neppure utopica concezione di “rispetto per la natura”, aprioristicamente ritenuta inalterabile (la qualcosa contraddice, oltretutto, il significato comune di coltivazione già presente nella Bibbia). Ci si deve tuttavia chiedere a chi debba essere affidato il compito di definire i criteri per queste scelte, al tempo stesso critiche, ma anche strategiche (fra l’altro da non limitare agli aspetti agricoli); logica vorrebbe che siano i detentori di specifiche competenze: scientifiche e tecniche, semmai non disgiunte da giuste motivazioni etiche. Scelte il cui obiettivo è la sostenibilità, una sorta di fiore con 4 petali, tutti ugualmente essenziali: economia, ecologia, etica e il più recente salute- nutrizione; semmai con alcune precisazioni: nella voce economia non potrà destare scandalo il profitto, sia pure aggettivato con giusto, motivato e ben utilizzato (per il bene comune); nella voce ecologia non vi potrà essere spazio per una natura intonsa, ma per una situazione equilibrata; nella voce etica dovrà trovare spazio il rispetto di tutte le componenti: quelle umane e quelle naturali; infine, nella voce salute-nutrizione dovrà trovare posto la lotta alla malnutrizione (da deprivazione e da eccesso alimentare).
Premesso che un ulteriore vincolo è quello della sostenibilità energetica vera spada di Damocle per la sopravvivenza del pianeta, possiamo a questo punto concludere con l’auspicio di una possibile convergenza fra agricoltura e mondo dell’ambientalismo; quest’ultimo ritiene: “urgente e doveroso ricercare un nuovo e più rispettoso equilibrio con il Pianeta che ci ospita.” (G. M. Crespi), la qual cosa non è così lontana dagli interessi dell’agricoltura (e della società nel suo complesso), purché si possa concordare sul significato della parola equilibrio, che sia cioè fondato su Scienza e Coscienza con cui, i veri esperti-competenti ne possano assumere la responsabilità, seppure per il tramite del decisore politico.


L’articolo è una sintesi di quello pubblicato sulla Rivista della FIDAF al seguente link:
http://www.fidaf.it/index.php/lagricoltura-intensiva-e-la-pandemia-da-covid-19/

Giuseppe Bertoni è Professore Emerito di Zootecnica Speciale, Università Cattolica del S. Cuore, Piacenza e membro del Comitato Scientifico Centro di Ricerca IRCAF