Ricerche di etnobotanica alimentare nel Mezzogiorno: la dieta mediterranea nascosta?

L’articolo è una sintesi della lettura, tenuta lo scorso 19 febbraio dal Prof. Andra Pieroni dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo/Bra (CN), presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa, ed organizzata dall’Associazione Amici dei Georgofili in Collaborazione con la Sezione Centro Ovest dei Georgofili.

di Andrea Pieroni
  • 09 March 2016
Le erbe spontanee alimentari, che raccoglievano e forse ancora raccolgono le nostre nonne, sono ritornate in auge: non passa settimana che alla TV o nei rotocalchi si parli di piante selvatiche nel piatto e di foraging (la ricerca di piante alimentari in natura). Molte di queste nuove tendenze però non riescono a connettersi con una colonna portante della gastronomia popolare italiana: la raccolta e cucina tradizionale a base di erbe spontanee, un tempo nota come fitoalimurgia, e che ha rappresentato per molti secoli, soprattutto nel Mediterraneo, la base della nutrizione delle società contadine, specialmente durante l’inverno, e talvolta anche il tardo autunno.
Le piante selvatiche sono quelle piante che crescono senza essere coltivate, ma è pur vero che nel Mediterraneo le erbe delle cucine popolari sono sempre state specie che in etnobiologia consideriamo semi-domesticate, quelle che per troppo tempo gli agronomi hanno chiamato malerbe o erbacce, insomma erbe spontanee commensali degli spazi agricoli generatisi a partire dal Neolitico. In altre parole, le erbe spontanee della dieta mediterranea non sono erbe rare delle foreste o di altri luoghi poco antropizzati, ma sono le erbe che crescono agli angoli delle nostre case, ai margini delle nostre strade di campagna e delle siepi.
Prendiamo ad esempio alcuni casi di studio nel Mezzogiorno italiano, a dimostrazione di questa sconnessione, questo divorzio apparente tra la moda dell’andar per erbe e dei suoi costosi annessi corsi di riconoscimento e di ars culinaria con le tradizioni dell’etnobotanica italiana, in cui piante e culture popolari hanno da sempre interagito all'interno di un dato contesto ambientale e sociale, in modo unico ed irripetibile. La raccolta delle verdure spontanee nella storia dell'alimentazione mediterranea è l’esempio forse più plastico di una cucina di territorio e stagionale, dove non solo gli ingredienti “erano” quel territorio, ma sottendevano percezioni, usi e modi di gestione di quel territorio che erano il risultato di una lunga co-evoluzione tra quella natura e quelle comunità umane.
Quando si parla di erbe e tradizioni popolari, i non addetti ai lavori lamentano di solito lo sconcerto di fronte al numero di specie botaniche, soprattutto Asteracee, e loro relativi epiteti dialettali, anche a carico di una singola specie. Spesso uno stesso fitonimo popolare descrive più specie botaniche: questo fenomeno va sotto il nome di "under-differentiation" in etnobiologia.  Nelle culture tradizionali taxa diversi, che presentano però una morfologia simile, o crescono nello stesso ambiente, o presentano un sapore o uso identico, vengono raggruppate in uno stesso livello cognitivo e definite da un unico lessema (folk generic).
Questo è stato da sempre un modo elegante ed efficace per “semplificare” il mondo vegetale e per saperne trasmettere la conoscenza oralmente di generazione in generazione.   Ogni territorio italiano si caratterizza ancor oggi per una sua particolare predilezione per determinate erbe spontanee alimentari, spesso ignorate o appena considerate in altre zone. E così abbiamo le ajucche (Phyteuma spp.) nel Canavese, i barbabucchi (Tragopogon pratensis) per i cuneesi, i bruscandoli (Humulus lupulus) per i veneti, il terracrepolo (Reichardia picroides)  delle mesticanze e i vezzadri (Clematis vitalba) delle frittate primaverili per i toscani), la cicoria (Cichorium intybus) per i lucani e nel Mezzogiorno, la galazzida (Reseda alba) per le comunità grecaniche dell’Aspromonte, i cauliceddi (Brassica fruticulosa) per i contadini etnei.
Nel caso di studio in Lucania si dimostra come le traiettorie etnobotaniche alimentari divergano tra autoctoni e comunità Arbershe (comunità albanesi insediatesi nel Mezzogiorno italiano circa 500 anni fa), e come, a dispetto della costanza del fattore ambientale, la raccolta delle erbe alimentari segua traiettorie diverse dettate dalla cultura, dalla lingua, dalle percezioni dell'oikos.
Questo patrimonio di conoscenze e pratiche legate ai saperi popolari naturalistici, che l'UNESCO ha incluso nel 2003 incluso nel Patrimonio Culturale Intangibile, è oggi uno scrigno di cui ancora poco la scienza conosce: gli studi sulle potenzialità nutraceutiche delle nostre erbe alimentari sono ancora sporadici, per non parlare di una sistematica documentazione di quello che rimane delle pratiche fitoalimurgiche nel nostro paese, che sta lentamente avanzando, grazie all’impulso di alcuni gruppi di etnobotanici, ma che ancora presenta moltissime zone non ancora mappate.
Comunque: le "tradizioni" gastronomiche non sono mai statiche e rappresentano processi dinamici e fortemente meticciati che hanno a che fare con l'adattamento umano. In questo modo si spiega la presenza da più di un secolo di una melanzana africana nella gastronomia del Pollino a Rotonda e la presenza del rafano (cren) negli orti e nella cucina di Carnevale della Lucania Centrale. 
Questi processi di scambio sono favoriti dai fenomeni migratori, quelli che abbiamo anche sotto gli occhi in queste settimane. Nelle nostre zone rurali e peri-urbane sono spesso proprio i migranti provenienti da altre aree del Mediterraneo, dall'Est europeo e dall'Asia che, magari assieme alle poche nonne rimaste ed ai nuovi foragers, raccolgono piante selvatiche e ci insegnano molte storie di erbe in cucina a noi sconosciute: dal borsch verde a base di acetosella ucraino, alle sarmale di foglie di tussilagine o romice rumene, all’insalata di portulaca selvatica e yogurt dei nostri vicini turchi e curdi.


Food ethnobotany research in southern Italy: the hidden Mediterranean diet?
The spontaneous edible herbs our grandmothers used to and perhaps still pick are once again in vogue. Not a week passes without wild edible plants and foraging being mentioned on TV or in glossy magazines. Many of these new trends, however, are not related to a mainstay of popular Italian gastronomy: the picking of spontaneous herbs, (once known as fitoalimurgia, i.e. edible wild plants), and their use in traditional cooking that, for many centuries, especially in the Mediterranean, represented the basis of the peasant diet, especially in winter and sometimes also in late autumn.
Wild plants are those that grow without being cultivated. However, it is also true that ethnobiology has always considered the herbs used in everyday Mediterranean cooking to be semi-domesticated species. These are the same ones that agronomists have called weeds for too long. In short, edible spontaneous herbs have been growing in agricultural lands since the Neolithic. In other words, the spontaneous herbs used in the Mediterranean diet are not rare herbs found in forests or other places little altered by humans, but rather are those herbs that grow near our houses, at the edge of our country roads, and along hedges.
In the history of Mediterranean food, picking spontaneous greens is perhaps the clearest example of local and seasonal cooking in which the ingredients not only “were” the area, but also underlay the perceptions, uses and ways of managing the area that were the result of a long co-evolution between nature and human communities.