Agricoltura e acqua: quando le parole contano

di Donatello Sandroni
  • 24 June 2020

Il mondo occidentale produce tanto, ma consuma solo una quota di ciò che ha prodotto. Il resto non è però detto sia da considerare spreco in senso stretto, dato che sono le moderne catene distributive a implicare perdite di prodotti che al momento non sembrano comprimibili con le tecnologie attuali. Sia come sia, però, ogni chilo di cibo che non raggiunge le bocche dei cittadini manda comunque in fumo ogni sforzo fatto per produrlo, inclusa l’acqua necessaria a generarlo, quel cibo. Non è però colpa dell'agricoltura se insieme al cibo che si perde lungo le filiere alimentari o nelle case degli Italiani si va a perdere anche l'acqua servita per produrlo. Vi sono infatti alcune precisazioni da fare già sulle terminologie comunemente usate. Per esempio "consumare" ha davvero poco senso, visto che l'acqua non si "consuma", bensì si trasforma. Il ciclo dell'acqua esiste da quanto l'acqua stessa è presente sul Pianeta, quindi pensare che un turno irriguo la "consumi" è del tutto fuorviante. Semmai, vanno considerati gli usi alternativi che necessitavano della medesima acqua. Se si ragiona di un'area semi-desertica ha del criminale utilizzare dell'acqua per allevare bovine da latte quando la popolazione stessa non ha magari risorse idriche potabili. Idem per il tipo di colture: seminare colture idrovore anziché sparagnine non può fare altro che aggravare le carenze idriche necessarie a sostenere altre attività agricole. Vi è cioè in tal caso un uso della risorsa idrica irrazionale e controproducente. Se però si ragiona su un'area in cui la risorsa idrica non è fattore limitante, come accade per esempio in diversi areali europei o nord americani, ogni discorso quantitativo cade, restando valido solo quello qualitativo: se quell'acqua la inquino al punto da renderla inutilizzabile in altro modo, allora sì che ho fatto un danno. Non a caso l'acqua viene classificata in tre forme, cioè la Verde, di origine piovana, la Blu, in fiumi, laghi e falde, infine la Grigia, cioè quella restituita dall'uomo dopo essere stata utilizzata nei processi produttivi. Molta dell'acqua utilizzata dalle colture è del tipo Verde, specialmente nelle aree a clima continentale ricche di pioggia. Questa non solo coprirà in tali zone la maggior parte dei fabbisogni colturali, bensì gonfierà anche laghi, fiumi e falde, contribuendo anche a rimpolpare i ghiacciai in quota, importante riserva di acqua per i mesi estivi. Per tali ragioni appare alquanto inappropriato considerare sprecata l'acqua piovana caduta su un pascolo, oppure servita a irrigare i foraggi per il bestiame in un’area ad alta piovosità. Dopo la pioggia o l'irrigazione, che sempre dalla pioggia parte, quell'acqua tornerà infatti nel proprio ciclo attraverso l'evapotraspirazione da terreno e fogliame, rendendosi nuovamente disponibile per piogge successive. Ecco perché ha poco senso comparare i consumi idrici per produrre un chilo di carne o un chilo di patate se non si contestualizza l'uso stesso dell'acqua. I famosi 15mila litri necessari per ottenere un chilo di carne, per esempio, deriverebbero da alcuni studi dell'università olandese di Wageningen i cui autori ricordano però come la quasi totalità di quei volumi sia il semplice fabbisogno idrico delle colture foraggere e non il consumo da parte degli animali come viene fatto a volte credere. Di fatto, quei 15mila litri non sono cioè né tanti, né pochi: dipende sempre dall'area geografica in cui si opera. Se si parla di Pampas argentine, quell'acqua è tutta piovana. Se si tratta invece di un allevamento intensivo olandese può essere in parte anche irrigua, ma prelevata da canali e fiumi perennemente gonfi e prosperosi. Se infine si ragiona di Etiopia, va da sé che ogni litro investito in carne avrebbe potuto produrre decine di chili di cereali. E in una zona dove si muore di fame ciò apparirebbe giustamente uso scellerato. Puntare il dito contro l'allevatore argentino od olandese, quindi, appare alquanto bizzarro. In fondo, nemmeno produrre noci appare scelta “water-friendly”, visto che per un chilo di noci servono alle piante circa novemila litri di acqua (1). Non per questo, però, chi coltiva i gustosi gherigli può essere considerato un criminale, visto che gli areali in cui crescono e fruttificano i noci sono solitamente molto ricchi di acqua. Così ha voluto proprio quella natura spesso citata a sproposito da chi abbia ormai la fobia per tutto ciò che è agricoltura e zootecnia. Sia che questa c'entri, sia il suo esatto contrario. Ergo, se il benestante cittadino occidentale butta via un salume perché se l'è dimenticato nel frigo fino a farlo scadere, si dia la responsabilità a lui e solo a lui, anziché demonizzare chi con tanta fatica è riuscito a darglielo, quel salume.

1) Marta Antonelli e Francesca Greco (2013) : "L'acqua che mangiamo" Edizioni Ambiente


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