Il fenomeno dei cambiamenti climatici influenza la fisiologia delle piante

di Mimmo Ciccarese
  • 17 April 2013
Con il passaggio nell’epoca industrializzata attraverso l’invenzione della macchina a vapore, l’anidride carbonica nell’atmosfera è cresciuta da un valore di 280 parti per milione (ppm) a quello di 392 ppm. Gli esami del prelievo delle “carote di ghiaccio” ci rivelano che adesso tale dato supera di molto il ventaglio ordinario registrato negli ultimi 650 mila anni. L’attività dell’uomo è alla base dell’aumento di altri gas atmosferici e quello del naturale effetto serra, cioè a quella capacità dei gas e del vapor acqueo di assorbire la radiazione termica degli infrarossi emessi dall’estensione terrestre. Il cambiamento climatico in atto sta variando la fisiologia delle piante e il complesso rapporto che avviene tra gli spazi del loro suolo.
Ciò è conseguente all'aumento del grado di calore, alla maggiore ampiezza delle fluttuazioni della temperatura intorno al valor medio, intesi come massime e minime delle temperature giornaliere, all’interazione di tale accrescimento con i livelli di CO2 atmosferica, all’alterazione del regime pluviale e del più severo manifestarsi di eccessi atmosferici quali, ondate di caldo, uragani, allagamenti. Ci sono ormai verità che avvalorano la migrazione, indicato dal codice scientifico come “trasgressione”, verso i poli e le alte quote, di diverse specie vegetali e animali. Gli studiosi ritengono che avvenga una trasgressione di circa 125 km a nord e di 125 m a quote più elevate, di animali e piante alla ricerca di condizioni climatiche più adatte a ogni grado centigrado d'aumento della temperatura media dell'atmosfera.
Il Quarto Rapporto di Valutazione del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici del 2007 dimostra che nel corso del 21° secolo la temperatura superficiale del globo potrebbe accrescersi ancora di 1,5-1,9 °C secondo il più basso scenario di emissioni e 3,4-6,1 °C per quello più alto.
Ciò è valido anche per le specie agrarie autoctone, per quelle varietà che un tempo qualificavano la produzione di microhabitat e di società rurali. Inutile negarlo, il fenomeno della desertificazione, interessa ogni territorio, soprattutto quello del meridione d’Italia; si parla molto di più di aree vulnerabili, di resilienza, di forestazione oggi, che negli ultimi dieci anni. 
La quasi totalità delle aree del Salento, in Puglia, o della Sicilia, ad esempio, territori con regime medio pluviale più basso, sono già indicate come mediamente sensibili o molto sensibili alla desertificazione. Ipotizziamo adesso che la misura di emissioni di gas-serra in atmosfera continui al ritmo odierno. Può essere che entro la fine di questo secolo avremo un incremento della temperatura media fino a 4°C e un’altra riduzione del 30 per cento della piovosità. Olivo e vite fra molte specie agrarie e molte varietà che caratterizzano ruralità e paesaggio Salentino potrebbero subire notevoli danni; già l’olivo secolare è una pianta seriamente minacciata da decisioni spesso e volutamente più che irrazionali. Di questo passo, le fioriture di piante coltivate o spontanee, anticiperanno di qualche settimana mentre la caduta delle foglie o la dormienza invernale potrebbero posticipare; è ciò non è favorevole alla fruttificazione anche perché i fenomeni di adattamento delle specie sono molto più lenti. Condizioni termiche crescenti e precipitazioni ridotte, combinate all'abbandono delle grandi aree rurali e del gestione forestale, potrebbero avere l’effetto di accrescere la frequenza e la severità degli incendi, mentre parassiti e patogeni potrebbero diventare più aggressivi. Di certo e che si manifestano insetti mai visti prima, mentre scompaiono ogni anno i vegetali più sensibili al fenomeno. Dobbiamo forse prepararci all’invasione di specie più tolleranti a un clima sempre più caldo e siccitoso? Se non si concretano adeguate misure di adattamento al clima che cambia, non saranno molte terre dell’Italia meridionale a rischiare di diventare poco confortevoli; l’importante direzione di valorizzare alberi o spazi naturali dovrebbe essere perciò l’antidoto a qualsiasi cambiamento.