Notiziario




















Crisi climatica: piantare alberi non basta

Un articolo pubblicato pochi giorni fa sul New York Times riguardo alla campagna “1000 miliardi di alberi” ha suscitato una vasta eco poiché vengono posti alcuni dubbi sulla efficacia della piantagione massale di alberi. 
L’idea di piantare un trilione di alberi come “rimedio” al cambiamento climatico ha destato grande attenzione già l'estate scorsa, dopo che uno studio pubblicato sulla rivista Science ha concluso che piantare così tanti alberi rappresenta "la soluzione di cambiamento climatico più efficace". Il Washington Post, l’altro grande quotidiano americano, ha ribadito questa tesi (seppur con alcuni distinguo) in un articolo di qualche settimana fa.
Se solo fosse vero...Ma purtroppo non lo è. E non è così semplice farlo come lo è enunciarlo.

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La disfida delle proteine

Oggi nella disfida sulle proteine arriva una sorpresa con il Rapporto COOP 2019 (dati Istat e Nielsen del primo semestre 2019 ed elaborazioni Nomisma).  Infatti i dati dei consumi indicano, rispetto allo stesso periodo del 2018, l’inatteso ritorno della carne e, in misura minore, di latte e latticini, cioè delle proteine di origine animale.

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Danni e possibilità di controllo della Cimice asiatica

La cimice asiatica Halyomorpha halys (Heteroptera: Pentatomidae) è una specie fitofaga originaria dell’Asia orientale, considerata organismo nocivo di primaria importanza in molti Paesi del Nord America e dell’Europa, che è divenuta in breve tempo un insetto chiave per la difesa fitosanitaria in frutticoltura. Questo pentatomide può infatti nutrirsi di un’ampia gamma di specie vegetali, quali pero, melo pesco, kiwi, vite, nocciolo, orticole, colture estensive quali la soia e piante ornamentali. Oltre a causare ingenti danni sulle colture agrarie con gravi ripercussioni economiche, la cimice asiatica arreca disturbo in ambito urbano, soprattutto a fine estate-autunno quando gli adulti si introducono nelle abitazioni per svernare.
Nel controllo di questo Insetto dannoso la lotta chimica è di difficile applicazione, anche ricorrendo a sostanze ad ampio spettro, a causa dell’elevata polifagia e mobilità della specie, che obbliga ad effettuare trattamenti successivi nel corso della stagione con il rischio di vanificare i programmi di difesa integrata a minore impatto ambientale. Anche altre impegnative strategie imperniate sull’uso di ostacoli per impedire l’ingresso delle cimici, come ad esempio l’utilizzo di reti di vario tipo, si sono dimostrate applicabili solo in determinati contesti.
Nel caso della Cimice asiatica, trattandosi di una specie aliena con grandi potenzialità biotiche, in grado di dare luogo nei territori di nuova colonizzazione a vere e proprie “invasioni biologiche” favorita nella sua diffusione epidemica dalla mancanza di fattori biotici di contenimento, il ricorso alla “Lotta Biologica Classica” con l’individuazione nei luoghi di origine del fitofago di efficaci antagonisti naturali, e la loro introduzione nei nuovi ambienti, rappresenta il cardine di una corretta strategia necessaria a ricondurre questi organismi al di sotto della soglia di danno, ripristinando situazioni di equilibrio degli ecosistemi agrari alterati.

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“Nutriscore” o “Nutrinform Battery”?

In vista della loro eventuale introduzione nella regolamentazione europea, da molte settimane la stampa italiana specializzata e ancor più quella riferibile ad alcuni settori politici, si è focalizzata nel confronto tra due diverse “nuove” facoltative forme visive di informazione sulla qualità e composizione degli alimenti.
Si tratta di due sistemi visivi volontari che andrebbero ad aggiungersi a quelle obbligatorie e facoltative, già presenti e codificate dai Regolamenti comunitari.
Il Nutriscore, proposto inizialmente dalla Francia, a cui ha dato il proprio assenso anche la Germania, la Spagna e Belgio, è già utilizzato in Francia dal 2016 e in Belgio e Spagna dal 2018. 
La sua adozione a livello comunitario è stata proposta alla UE ma la relativa domanda è stata solo registrata il 30 aprile 2019 ma mai discussa, recepita od autorizzata (Decisione (UE) 2019/718 della Commissione, notificata con il numero C-2019- 3232).
Questa etichettatura, proposta dall'EREN, un gruppo di ricerca pubblica francese sulla nutrizione- guidato da un docente dell’Università di Parigi-13 insieme ad ISERM, INRA e CNAM, si basa essenzialmente sul punteggio nutrizionale FSA creato a suo tempo dall'Agenzia alimentare del Regno Unito. Questa proposta ha anche ricevuto un parere positivo da 5 esperti italiani nel settore (www.viedellasalute.it/)
Il Nutriscore, utilizza un “semaforo”, con lettera e colore associato per valutare globalmente il valore nutrizionale su 100 grammi di alimento integrando tra loro le quantità dei componenti l’alimento già presenti nella etichetta obbligatoria (energia, proteine, grassi, grassi saturi, carboidrati, zuccheri, fibra, sale). Quando le loro percentuali superano i limiti ritenuti come accettabili rispetto alla quantità giornaliera di assunzione raccomandata dalla EU, il colore risultante varierà, in gradazione, dal verde (altamente consigliato) al giallo, all’arancione, fino al rosso (altamente sconsigliato). Ciò dovrebbe consentire al consumatore una scelta ragionata. 
La Nutrinform Battery è una proposta in corso di elaborazione con il contributo di quattro Ministeri: quello della Salute, degli Esteri, dell’Agricoltura e dello Sviluppo economico. Mentre sembra finalmente in dirittura di arrivo il decreto interministeriale per l’adozione su base volontaria in Italia dell’etichetta a batteria, il Governo italiano si propone di inviare a breve alla UE anche la richiesta di valutarla, come controproposta alla etichetta a semaforo Nutriscore, per una possibile introduzione come normativa europea. Essa in pratica traduce visivamente la tabella nutrizionale e prende in considerazione il fabbisogno energetico fornito da ogni singola porzione. La sua elaborazione in Italia proviene da un gruppo di studio composto dall’Istituto superiore di Sanità, dal Consiglio superiore dell’Agricoltura e dal CREA, in collaborazione con Federalimentare, Coldiretti e LUISS.
La Nutrinform Battery è composta da 5 Box indicanti rispettivamente: energia, grassi, grassi saturi, zuccheri e sale e suggerisce, per singola porzione ed all’interno di ogni box la specifica percentuale rispetto alla quantità giornaliera di assunzione raccomandata dalla EU. Ciò dovrebbe consentire al consumatore una scelta immediata ragionata. 

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La locusta del deserto: Schistocerca gregaria

Nel luglio dello scorso anno, il Servizio di Prevenzione Locusta del deserto (DLIS) della Fao, che ha sede a Roma, e che controlla quotidianamente le condizioni climatiche ed ecologiche, nonché la situazione delle popolazioni dell’ortottero, ha segnalato che, le intense piogge verificatesi nello Yemen, avevano creato le condizioni ottimali per la formazione dei giganteschi sciami che, dal gennaio di quest’anno, hanno infestato circa 10.000 Km quadrati in Kenia. Tali orde rappresentano un grave ricorrente problema in Etiopia, Sud Sudan, Uganda e Somalia. 

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Il brodo delle feste

Pochi ricordano il proverbio “gallina vecchia fa buon brodo” e non ne conoscono i motivi perché il brodo è oggi caduto in disuso e presente solo in alcuni piatti tradizionali delle feste di Natale e Capodanno che celebrano il solstizio invernale.
Il brodo non è più di moda anche se si vedono elementi di un risveglio (G. Ballarini – Brodo di carne: ritorno al futuro – Georgofili INFO, 21 dicembre 2016 ) aiutato dai non disprezzabili brodi già pronti preparati dalle industrie.
Esiste una cucina del brodo, come esiste una cucina del vino o della birra. La cucina del brodo è importante e forse ce ne siamo dimenticati ma senza brodo addio a tutte le paste ripiene da brodo (anolini, cappelletti, tortellini e via dicendo) e altri piatti solo apparentemente poveri come la zuppa pavese (brodo, pane, uovo).

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I Georgofili e gli Stati Uniti d’America

Il 7 marzo 1819 Giacomo Ombrosi veniva eletto socio corrispondente dell’Accademia dei Georgofili insieme a Giuseppe Geri, Cosimo Del Nacca e Gaspero Mannajoni, tutti dichiarati “fiorentini”. In quello stesso 1819 il Granduca Ferdinando III di Lorena, aveva finalmente acconsentito all’apertura in Firenze di una sorta di vice-consolato statunitense (il consolato era a Livorno), con compito di favorire gli scambi commerciali fra i due Paesi e aiutare i numerosi cittadini americani (scrittori, poeti, pittori, incisori, scienziati) che transitavano in quel tempo per l’Italia e la Toscana. A dirigere questa sorta di agenzia commerciale fu, fino al 1823, Giacomo Ombrosi, anno in cui egli venne nominato primo console statunitense a Firenze. 
L’Accademia dei Georgofili intende con questa esposizione rendere omaggio a Giacomo Ombrosi che nei suoi lunghi anni di consolato (ben 25) cercò di incentivare il legame fra i Georgofili e gli studiosi e scienziati d’Oltreoceano. 
I Verbali delle adunanze accademiche testimoniano l’incremento costante dei soci corrispondenti statunitensi che al gennaio 1820 risultavano essere già circa una cinquantina, di cui tantissimi della “N. York”.
Anche i presidenti Monroe, Madison e Jefferson divennero in questi anni accademici georgofili corrispondenti.
Guardare alle ‘Americhe’ aveva costituito da sempre uno stimolo per l’Accademia fiorentina per quella curiosità scientifica manifestata fino dalla sua fondazione. Non pochi accademici viaggiatori solcarono gli oceani per studiare, osservare e descrivere morfologia, flora, fauna, popoli e abitudini sociali di lontani paesi; altri s’imbarcarono per spirito libertario e di avventura, divenendo poi anch’essi appassionati coltivatori di piante portate dalla Madrepatria. Basti ricordare in questo contesto Filippo Mazzei  che mosso verso gli Stati Uniti per passione politica, giunse poi in Virginia (1773) dove acquistò la tenuta di Colle nella quale volle replicare le colture toscane di “raperonzoli, terracrepoli, cicerbite”, vitigni di più varietà; dai suoi campi in America inviava per contro in Toscana e ai Georgofili prodotti che era riuscito a ottenere nella sua nuova patria, come ad esempio 15 spighe di grano siciliano affinché ne fosse sperimentata la coltivazione.
Anche nel corso del secolo successivo questi viaggi da una parte all’altra dell’Oceano continuarono e sovente con le persone si mossero anche i prodotti della terra, come fu il caso dei vini toscani che furono sottoposti volutamente a lunghi tempi della navigazione (e la transoceanica -andata e ritorno- si rivelò la più adeguata) per saggiarne la durabilità. 
Quegli stessi porti furono testimoni, sul finire del secolo e nei primi decenni del successivo, del massiccio esodo degli emigranti italiani che lasciavano le loro magre terre in cerca di fortuna al di là dell’Oceano. L’Accademia dei Georgofili fu particolarmente attenta a questo tema e bandì sull’argomento diversi concorsi la cui documentazione rende conto dell’enorme depauperamento di popolazione che si verificò in Italia a partire dagli ultimi decenni dell’800 fino a buona parte del secolo successivo. 

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31gennaio, il giorno della Brexit (forse)

31 gennaio 2020: si compie un altro passo in avanti sulla strada che porterà all’uscita dall’Ue della Gran Bretagna. La notizia appare nei mezzi di informazione quasi all’ultimo, ma soprattutto viene trattata quasi più sul piano emotivo o folcloristico che su quello del suo reale significato. Il Parlamento europeo saluta col vecchio canto degli addii, “Auld Lang Syne”, in italiano “Il valzer delle candele”. Ma non è ancora la vera separazione, l’iter si compirà, a meno di proroghe non escluse, il 31 dicembre con le norme che regoleranno la separazione e richiederanno anni per essere operative. 

La vicenda della Brexit merita attenzione per almeno tre ordini di motivi: 1. Il tremendo psicodramma di un Paese che stenta a comprendere la sua natura interna e il suo ruolo nel mondo; 2. Le conseguenze sul futuro dell’Ue che per la prima volta perde un componente (e che componente!) e della G.B., oggi sola dopo 47 anni di vita comunitaria; 3. Le considerazioni sul futuro dell’Italia che spesso sembra guardare ad un’Italexit come alla soluzione dei suoi annosi problemi.

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Rischi in casa per cani e gatti

Cani e gatti fanno oggi parte della famiglia umana nella quale vivono quasi come bambini e se per questi vi sono precauzioni di sicurezza - basta leggere i foglietti d’istruzione dei farmaci, i cosiddetti bugiardini – altrettanto non avviene per gli animali domestici che nelle case dell’uomo rischiano di avvelenarsi più facilmente che se vivessero in libertà. Se nel loro ambiente naturale gli animali hanno sviluppato comportamenti con i quali evitano rischi d’intossicazione soprattutto alimentare, questo non avviene negli ambienti artificiali delle case e dei giardini dell’uomo dove esiste un quasi illimitato numero di alimenti, farmaci, composti chimici nonché piante ornamentali a loro sconosciute e che non possono evitare, quando non è l’uomo stesso causa dell’avvelenamento.
Significativo alla fine del secolo scorso divenne il caso del farmaco Mexaform, un derivato idrossichinolinico largamente usato nell’uomo adulto e nei bambini per la cura delle diarree, e che i proprietari dei cani, soprattutto i medici, quando lo somministrarono al proprio animale per curarlo di una diarrea come fosse un bambino, ne provocarono la morte! Altrettanto pericoloso per i cani ospitati nell’autorimessa di casa è una perdita dell’antigelo dell’automobile che contiene un glicole dolciastro e gradito all’animale, ma molto tossico. Tra le piante ornamentali di casa o giardino, tossiche o irritanti per cani e gatti sono la dieffenbachia, il filodendro, l’oleandro, la stella di natale, l’agrifoglio, il ciclamino, il tasso, l’edera, l’ortensia e l’azalea.

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Segnalazioni in campo zootecnico

Il giornale d’informazione All About Feed del 31 gennaio 2020, che tratta di innovazioni nel campo dell’alimentazione animale a livello mondiale, riporta alcune tecnologie più o meno innovative che vale la pena di segnalare.

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Piantare alberi per combattere il cambiamento climatico, le cose che dovremmo sapere

Secondo uno studio pubblicato su Science il 5 luglio 2019 (Bastin et al.)  piantare alberi su 0,9 miliardi di ettari, un’area pari a quella degli Stati Uniti compreso l’Alaska o della Cina, potrebbe “intrappolare” circa due terzi della quantità di carbonio nell'atmosfera prodotta dalle attività umane dall'inizio della Rivoluzione industriale. 
L’affermazione, fatta sulla base di studi da parte del team di ricercatori del Politecnico di Zurigo, ha attirato l'attenzione di un mondo affamato di speranzose notizie sul clima. Ne è seguito, tuttavia, un dibattito e, secondo quanto sostenuto da altri scienziati sulla stessa rivista scientifica qualche numero dopo, queste cifre eccessivamente piene di speranza potrebbero "fuorviare lo sviluppo della politica climatica". 
L'idea è sicuramente accattivante, semplice e concreta. C'è dunque spazio per piantare, molti, moltissimi alberi, per ridurre la quantità di anidride carbonica emessa naturalmente e/o a seguito delle nostre attività, che altera il clima del nostro pianeta. 
Ai vari proclami e azioni avvenuti negli ultimi tempi, anche susseguenti al succitato articolo, ci sono state, tuttavia, anche reazioni scettiche. Forse troppo scettiche da parte di alcuni esponenti della comunità scientifica ed è indubbio che questo provoca un certo disorientamento nelle persone. Da una parte si dice che piantare gli alberi salverà il pianeta, dall’altra si dice che non è vero, o non lo è del tutto. Allora chi ha ragione? 
Io pianterei alberi dappertutto se potessi ma, ovviamente, la mia volontà e il mio desiderio non necessariamente si trasformano in realtà. Uno sguardo più pragmatico ci dice che piantare alberi è una cosa non solo utile, è fondamentale, ma non è la panacea di tutti i mali. 
Ho pensato di riassumere in questa breve riflessione alcune delle affermazioni e commenti recentemente pubblicati anche su prestigiose riviste scientifiche e sulla stessa rivista, Science, dove è stato pubblicato l’articolo di Bastin et al., e cercherò anche di provare a spiegare il perché di certi eccessivi ottimismi o, all’opposto, dei profondi scetticismi che rischiano di portare, come spesso succede, a uno scontro, anziché al dialogo e all’azione comune.

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Filiere agroalimentari efficienti e competitive: lo strumento delle organizzazioni di produttori

OP&AOP: perché contano nello scenario della PAC
Le Organizzazioni di produttori agricoli (OP e loro associazioni AOP) non sono una novità, soprattutto in alcuni comparti dell’agricoltura europea e nazionale. Nuovo è invece lo spazio di azione che gli viene assegnato nel quadro di riforma della PAC, già a partire dal Regolamento Omnibus.
Le OP sono gruppi di produttori agricoli che intendono cooperare e si costituiscono legalmente per gestire in comune le fasi a valle della produzione primaria. Gruppi di OP possono associarsi in AOP per svolgere in modo più efficace ed efficiente alcune funzioni o per svolgere su una scala territoriale più vasta. Le OP e AOP hanno interessato inizialmente alcuni settori, in particolare orto-frutta, latte e derivati, e olio di oliva.
L’attenzione del policy maker europeo si è rivolta a questi strumenti per la loro funzione economica di realizzare il coordinamento orizzontale della filiera attraverso la pianificazione, concentrazione e gestione dell’offerta degli aderenti. In altri termini, le imprese di produzione primaria che cooperano per gestire in comune l’offerta e collocarla sul mercato, riescono a superare la strutturale e storica debolezza nei rapporti di filiera e nelle relazioni contrattuali, attivando un meccanismo che permette di spuntare prezzi più remunerativi, così redistribuendo valore verso le fasi a monte della filiera.
L’ OP può svolgere anche attività che permettono di stabilizzare i prezzi, razionalizzare i costi e offrire accesso a servizi altamente qualificati, a mercati e tecnologie che sarebbero altrimenti di più difficile raggiungimento per l’impresa singola. Accanto all’efficienza economica, l’OP permette anche di collocare sul mercato produzioni di qualità intrinseca superiore e prodotte con metodi più rispettosi dell’ambiente. Nel complesso, si tratta di uno strumento che, se ben utilizzato, consente di conseguire maggiore efficienza e competitività alle filiere agro-alimentari e maggior forza alla componente agricola nei rapporti con le componenti a valle.
Per potenziare ed estendere l’efficacia di tale strumento di cooperazione, il Regolamento Omnibus ha introdotto la deroga alla concorrenza (art. 101 del TFUE) per le OP di tutti i settori, purché riconosciute dallo Stato membro, che svolgano per i propri aderenti la funzione economica di concentrare l’offerta e immetterla sul mercato.

Il quadro europeo tra cooperazione consolidata e nuovi schemi organizzativi
Lo studio “Study of the best ways for producer organisations to be formed, carry out their activities and be supported” EU Commission, DG-AGRI, May 2019 , che permette di conoscere meglio le OP europee, è stato reso noto dalla Commissione al termine di un articolato percorso che ha attraversato l’ultimo settennato, alla ricerca degli strumenti migliori per rendere più efficiente la filiera agroalimentare, innalzare e tutelare la posizione dei produttori agricoli nella filiera. Basata su un’indagine diretta, la dettagliata analisi rivela, come spesso accade, un quadro a macchia di leopardo che non facilita interpretazioni di carattere generale.
Dopo una notevole crescita dal 2013 al 2017 (+33%), sono circa 3.500 le OP e AOP riconosciute, presenti in 25 Stati Membri, ma con numerose differenze. Oltre 2500 sono in Germania, Spagna, Francia e Italia. Dal punto di vista settoriale, è ovvio che oltre la metà operi nel settore ortofrutta, seguito da latte e prodotti lattiero-caseari, olio di oliva e olive da tavola e vino. Complessivamente sono state riconosciute OP in 22 dei 24 settori riconducibili alle OCM, e in Italia interessano con varia intensità 16 settori. 

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