L'Unione Europea è determinata a diventare da qui al 2050 il primo blocco regionale climaticamente neutro.
Questo recente annuncio della Presidente della Commissione Europea, già nell'aria al momento del suo insediamento, trova attuazione nel cosiddetto European Green Deal Investment Plan. Il piano di investimenti per un'Europa sostenibile, presentato il 14 gennaio dalla Commissione, ha lo scopo di stimolare investimenti pubblici e l'impiego di fondi privati, grazie agli strumenti finanziari dell'Unione, per circa 1.000 miliardi di euro.
Secondo la Commissione tutti gli Stati Membri, tutte le regioni e tutti settori economici dovranno costruire questa transizione, ma alcune di queste saranno particolarmente toccate e conosceranno delle profonde mutazioni economiche sociali. A questo scopo il meccanismo per una equa transizione fornirà un sostegno finanziario e pratico, in maniera tale che esse possano aiutare i settori oggetto della trasformazione a superare la sfida climatica.
C'è però un rovescio della medaglia, infatti, anche se questo piano, attraverso un insieme di misure di sostegno diretto di almeno 100 miliardi di euro aiuterà il benessere della popolazione e renderà l'Europa più competitiva, si propone come primo obiettivo di eliminare i sistemi energetici più inquinanti come quelli basati sui combustibili fossili e di conseguenza individuando regionalmente i possibili maggiori beneficiari.
La Commissione, oltre a creare le incitazioni finanziarie che dovranno permettere il successo degli investimenti verdi, provvederà a fornire delle incitazioni regolamentari e aiuterà i poteri pubblici e gli attori del mercato a sviluppare i progetti necessari alla transizione. Tutto ciò lascia intravedere una azione di pungolo e controllo che la Commissione europea svilupperà anche nella messa in opera delle attuali politiche europee, orientandole sempre di più in un senso climaticamente positivo, ma anche rendendola più rigida per l'applicazione dei vari piani di sviluppo nazionali e regionali.
Il piano lanciato la scorsa settimana si propone di finanziare almeno 1.000 miliardi di euro di investimenti sostenibili nei 10 anni a venire, a creare delle incitazioni allo sblocco e al nuovo orientamento degli investimenti pubblici e a fornire un sostegno pratico, aiutando i poteri pubblici e i promotori dei progetti per la realizzazione di progetti sostenibili.
“Cavare il sangue” da una rapa è un antico proverbio che indica un impossibile o non profittevole modo di operare. La rapa è un ortaggio di scarso valore, che non riveste una grande considerazione nella tradizione popolare e dal quale è impossibile pretendere risultati apprezzabili da chi è palesemente incapace di produrli, come può invece essere il sangue inteso come una forza vitale dotata di grande valore gustativo e simbolico. Un’opinione che è oggi sembra essere sfatata dal successo che sta avendo la legaemoglobina (leghemoglobina o legoglobina), una globina di batteri che vivono nelle leguminose dalle quali, anche se non sono una rapa, si ricava un “quasi sangue” o un “sangue vegetale” usato in preparazioni alimentari per vegetariani, vegani e non solo.
Nel novembre 2017 è stato finanziato dall’ U.E. il progetto Life “Soil4Life, l’essenziale è invisibile agli occhi”, coordinato da Legambiente e che vede come partner beneficiari associati CIA, CCIVS, CREA, ERSAF, ISPRA, SNPA, Politecnico di Milano, Comune di Roma e Zelena Istra. Obiettivo prioritario del progetto riguarda la diffusione della cultura sulla gestione sostenibile del suolo al fine di arginare il consumo di suolo nella sua accezione più ampia che vede al centro del dibattito l’incessante sottrazione di suolo fertile per l’agricoltura, che mal si coniuga con la richiesta da parte delle Nazioni Unite di intensificare le produzioni per azzerare la fame nel mondo.
Ormai quando sento ripetere ossessivamente la parola ‘sostenibilità’ sento puzza di bruciato, dell’ennesimo trappolone. E mi vengono cattivi pensieri. Mi spiego. Dai due giorni del salone Marca a Bologna è uscita una indicazione precisa, basata su dati di fatto inoppugnabili e su un retropensiero non reso esplicito. La marca del distributore (MDD) è ormai una solida realtà economica e di mercato. Vale quasi 11 miliardi di euro di fatturato, con una crescita più di tre volte superiore rispetto a quella dell’industria alimentare italiana negli ultimi 17 anni. Anche la quota di mercato è cresciuta passando dall’11,3% nel 2003 al 19,9% nel 2019 e un ulteriore aumento è previsto nei prossimi anni. Le stime di The European House – Ambrosetti parlano di una quota di mercato della MDD del 25% raggiunta già durante quest’anno. I prodotti MDD sostengono il fatturato delle catene e aiutano le famiglie a risparmiare qualcosa come 2,8 miliardi di euro all’anno. Quindi applausi, visti i tempi grami per i bilanci dei grandi retailer.
L’exploit dei prodotti MDD si coniuga con la crescente sensibilità per modelli di sviluppo sostenibili dal punto di vista sociale, ambientale ed economico. C’è il pianeta da salvare, il cambiamento climatico da combattere, tutti vogliono cibi più ‘puliti’ e naturali, dall’origine tracciabile, carne prodotta senza ‘drogare’ gli animali, frutta e verdura senza residui chimici, meno plastica, meno sprechi, ecc. Il tutto ovviamente a prezzi più bassi possibili, perché anche i bilanci delle famiglie dei consumatori di questi tempi devono essere ‘sostenibili’.
Il messaggio uscito da Marca in sintesi è questo (lo scrivono loro nei comunicati): “La Distribuzione Moderna è già impegnata nel campo della sostenibilità ambientale e sociale e sta sviluppando nuovi progetti. La sostenibilità è riconosciuta come strategica, vengono definiti obiettivi specifici (quali la riduzione della plastica, la diminuzione delle emissioni, la tutela del benessere animale, la tracciabilità della filiera nei prodotti a Marca del Distributore), sono state create posizioni manageriali dedicate, la filiera è costantemente stimolata a muoversi in questa direzione, con risultati importanti dal punto di vista dello sviluppo dei partner della Marca del Distributore (MDD) e quindi dell’intero sistema produttivo”.
La sostenibilità nella Distribuzione Moderna (DM) è dunque un dato di fatto. Forti di questa sicurezza da Bologna è partito un altro messaggio rivolto alla ministra Bellanova e in subordine a tutto il mondo produttivo. “Dal 2021 lavoreremo solo con fornitori iscritti alla Rete del lavoro agricolo di qualità. Il tema del lavoro in agricoltura è estremamente critico: occorre prendere iniziative per garantire legalità e rispetto dei contratti”, dicono a una voce i n.1 di Coop, Conad-Auchan, ADM e Federdistribuzione. Musica per le orecchie della Bellanova. Alla politica si chiede di fare il suo dovere, di rendere questa legge ‘digeribile’ per le imprese, che finora l’hanno disertata, perché fonte di nuova burocrazia vessatoria.
In tutta l’Italia del primo Novecento nei giorni di Carnevale era di consuetudine che le latterie e le pasticcerie offrissero il lattemiele assieme a frappe, sfrappole, galani, chiacchere, crespelle dolci, intrigoni o nelle cialde usate d’estate per i gelati. Il lattemièle denominato anche lattemmièle, latt’e mièle, latte e mièle e, nell’antichità, lattemèle è un dolce composto di panna con miele e il termine è poi passato a indicare la panna montata dolcificata con lo zucchero.
Gli anticorpi monoclonali (mAb) sono biomolecole molto utili in medicina, biologia e biochimica per la loro capacità di legarsi specificamente e stabilmente a diversi target molecolari sia in vivo che in vitro. Attualmente, i processi per la loro produzione su larga scala si basano sull’impiego di colture di cellule di mammifero che richiedono investimenti iniziali e costi di produzione piuttosto elevati, così come alti sono i costi operativi e di manutenzione .
Nella giornata di studio su “La sostenibilità in agricoltura” , svoltasi il 5 Dicembre 2019 all’Accademia dei Georgofili, si è più volte fatto riferimento ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile concordati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Sustainability Development Goals – the United Nations).
Obiettivi, tutti, estremamente importanti, precisi, puntuali e quindi totalmente condivisibili. Questi obiettivi affrontano le principali emergenze a livello planetario e fra queste vi è anche la degradazione del suolo di cui viene fatto accenno non in un obiettivo suo specifico ma all’interno dell’obiettivo 2 “Fame zero” dove, preso atto della rapida degradazione delle risorse naturali, fra cui il suolo, si raccomanda, fra l’altro, un’agricoltura sostenibile e dell’obiettivo 15 “Vita sulla terra” dove viene proposto di “proteggere, recuperare e promuovere l'uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, gestire in modo sostenibile le foreste, combattere la desertificazione, arrestare il degrado del suolo e fermare la perdita della biodiversità”.
Così come sono presenti due obiettivi specifici che riguardano altrettante emergenze e sfide del futuro come l’acqua (Obiettivo 6) e i cambiamenti climatici (Obiettivo 13), forse sarebbe stato opportuno ed efficace dare anche maggiore visibilità al precario stato di salute di questa risorsa inserendo un obiettivo specifico proprio sulla protezione del suolo, per sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica sulla sua importanza.
Con Agricoltura Sociale (A.S.), come richiamato dalla legge 18 agosto 2015 n. 141, si intendono le attività esercitate dagli imprenditori agricoli e rivolte a: 1) inserimento socio-lavorativo di lavoratori con disabilità e di lavoratori svantaggiati inseriti in progetti di riabilitazione e sostegno sociale; 2) prestazioni e attività sociali e di servizio per le comunità locali mediante l’utilizzazione delle risorse materiali e immateriali dell’agricoltura; 3) prestazioni e servizi che affiancano e supportano le terapie mediche, psicologiche e riabilitative finalizzate a migliorare le condizioni di salute e le funzioni sociali, emotive e cognitive dei soggetti interessati; 4) progetti finalizzati all’educazione ambientale e alimentare, alla salvaguardia della biodiversità nonché alla diffusione della conoscenza del territorio.
L’A.S. è quindi un insieme di pratiche sociali e di attività agricole che si realizzano nell’ambito della multifunzionalità dell’impresa agricola. Il valore aggiunto dell'A.S. è la possibilità di integrare le persone svantaggiate in un contesto di vita dove il potenziale personale può essere valorizzato. La presenza e le relazioni con i coltivatori, il contatto con altri esseri viventi, sia animali che vegetali, l'assunzione di specifiche responsabilità sono alcune delle caratteristiche chiave delle pratiche riabilitative determinate dall'A.S.
L'A.S. rappresenta anche una nuova opportunità per gli imprenditori agricoltori di portare avanti servizi connessi, ampliando e diversificando lo scopo della loro attività e del loro ruolo nella società. L'integrazione tra pratiche agricole e servizi sociali può anche permettere nuove forme di guadagno per gli imprenditori agricoli, migliorando allo stesso tempo l'immagine dell'agricoltura nella società e favorendo lo sviluppo di nuove relazioni tra cittadini rurali e urbani. Per introdurre nel mondo produttivo persone che esprimono disagio sociale o disabili occorre cercare di mantenere, valorizzare e integrare le caratteristiche e le peculiarità del settore agricolo e di quello sociale, che si devono incontrare per raggiungere questi obiettivi.
Il 5 dicembre 2019 è stata celebrata in tutto il mondo la giornata sul
suolo. La FAO ha annunciato che sono stati organizzati più di 460 eventi
in 100 differenti Paesi.
L’Italia ha aderito con una serie di
iniziative che si sono dipanate nell’arco di tutta la settimana dal 2 al
7 dicembre, tanto da poter affermare di aver celebrato una “soil week”.
Ogni anno, con l’approssimarsi delle feste natalizie, c’è qualcuno che
si sente offeso dall’usanza di addobbare, in casa o in una piazza, un
albero. Questa volta è stato il “Corriere della Sera” a dedicare un
ampio spazio all’addobbo con luci “sceme” di piante maestose coltivate
in boschi più o meno lontani dal luogo di esposizione. Ci si chiede
quale diritto abbiamo di abbattere gli abeti per festeggiare il Natale,
quale diritto abbiamo di ..”sradicare un albero dalla sua foresta….e poi
buttarlo in una discarica” (Cfr. Corriere della Sera, 13 dicembre
2019).
Fortunatamente, per il rispetto della diversità di opinioni,
sempre sullo stesso quotidiano si informano i lettori che l’albero di
Natale vero, dal punto di vista della sostenibilità batte quello
sintetico.
La Cimice asiatica o Cimice marmorizzata marrone, Halyomorpha halys
(Stål) rappresenta per l’Italia solo la più recente tre le emergenze
fitosanitarie derivanti dall’accidentale introduzione di specie animali
esotiche. Questo è un fenomeno globale che negli ultimi decenni si è
drammaticamente intensificato, prevalentemente a causa della vorticosa e
per molti aspetti incontrollata circolazione di merci e persone. Come
purtroppo spesso avviene, la presenza di queste specie esotiche nei
nuovi areali risulta particolarmente oneroso sia a livello economico che
ecologico; infatti, il loro arrivo rende spesso necessario il ricorso
ad interventi insetticidi intensivi, con inevitabili conseguenze
negative di natura ambientale, tossicologica e tecnica. Tali effetti
indesiderati possono mettere a serio rischio non solo la salute degli
operatori e dei consumatori ma anche l’equilibrio biocenotico degli
agroecosistemi e gli ambienti naturali ad essi prossimi. Tutto ciò può
drasticamente compromettere consolidati programmi di difesa
ecosostenibile che ormai da anni si adottano in Italia nel rispetto dei
principi del controllo integrato delle colture e dell’uso sostenibile
dei prodotti fitosanitari.
Tale è l’obiettivo principale della
direttiva 2009/128 /CE, recepita in Italia con il decreto legislativo
n.150 del 14 agosto 2012, che ha istituito un riferimento normativo
europeo ai fini dell'utilizzo sostenibile dei pesticidi. In Italia, come
negli altri stati membri, l'attuazione di tale direttiva ha previsto
l’adozione di un Piano di Azione Nazionale (PAN) regolato dal Decreto
Interministeriale 22 gennaio 2014. Questa norma promuove la difesa a
basso apporto di prodotti fitosanitari delle colture agrarie,
riducendone così i rischi e l’impatto sulla salute umana e sull'ambiente
e sostenendo l'uso della gestione integrata dei parassiti (IPM)
mediante tecniche alternative al controllo chimico.
Ultimamente sono state pubblicate su questo notiziario diverse note
sull’impatto degli allevamenti sul clima. Ultima quella del Prof Tredici
che fa un’analisi articolata e documentata dell’impatto della zootecnia
sui cambiamenti climatici e, in definitiva, sulla qualità della vita.
(Si veda: http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/14722 e http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/14735).
Come
non dare ragione a chi sostiene che l’allevamento animale ha negli
ultimi decenni contribuito, in modo diretto e indiretto, all’incremento
della produzione di gas serra con tutte le conseguenze negative che
questo comporta. Secondo le statistiche più diffuse, l’agricoltura è
responsabile del 24% delle emissioni di gas serra a livello globale, di
queste l’allevamento dei ruminanti lo è per quasi due terzi (http://www.fao.org/3/a-i6340e.pdf).
Però le statistiche, a seconda delle fonti, su questo argomento
riportano i dati più disparati. E si sa, le statistiche sono soggette ad
interpretazione; secondo un diffuso aneddoto, se il 30% degli incidenti
stradali è dovuto all’uso di alcol vuol dire il 70 % è causato da
guidatori sobri, quindi meglio bere prima di mettersi alla guida.
Facezie
a parte, occupandomi di zootecnia ormai da diversi anni mi viene
naturale prendere le difese del settore, magari citando le
argomentazioni di chi nega questo impatto negativo, ma argomentare con
numeri e percentuali è una battaglia poco costruttiva. I dati statistici
hanno il pregio della sintesi, ma possono essere usati - in modo
inoppugnabile - sia per sostenere che per controbattere una tesi.
Quindi
nessun dato riportato dalle note pubblicate su questo argomento è
contestabile, e sono d’accordo quando si dice che per risolvere, o
attenuare il problema, bisognerebbe mangiare meno carne e seguire
modelli di allevamento più sostenibili e rispettosi dell’ambiente. A
questo proposito consiglio la lettura di un’interessante e recente
rassegna di Tullo et al, (2019), che tra le strategie di mitigazione
dell’impatto che la zootecnia ha sul clima, riporta quanto affermato da
Kaufmann (2015) secondo cui le soluzioni possibili sono riconducibili,
molto sinteticamente a: 1) miglioramento dell’efficienza delle
produzioni; 2) innovazione nella gestione dell’allevamento e della
produzione del letame (Zootecnia di Precisone); diminuzione della
domanda di prodotti animali (Herrero et al., 2016). Quest’ultimo punto,
sicuramente condivisibile, sembra però non compatibile con l’innegabile
aumento globale di “fame” di proteine animali (Rojas-Downing et al.,
2017) e che avrebbe, eventualmente, risultati a lungo, lunghissimo
termine.
Franco Scaramuzzi si era laureato a Bari in Scienze Agrarie nel novembre
1948, con il massimo dei voti e lode. Grazie a una borsa di studio del
Ministero per l’Agricoltura e le Foreste, avviò subito (dall’inizio del
gennaio 1949) la propria attività accademica, anche come Assistente
volontario presso l’apprezzato Istituto di Coltivazioni Arboree
dell’Università di Firenze.
Nel 1954 vinse il concorso nazionale
alla libera docenza in Coltivazioni Arboree. Nel 1959 vinse il concorso
nazionale per l’omonima cattedra presso l’Università di Pisa. Nel 1969
fu chiamato dall’Università di Firenze a coprire il posto che era stato
del suo Maestro, Alessandro Morettini.
Nel 1971 costituì a Firenze
il nuovo Centro (poi divenuto Istituto) del CNR per gli Studi sulla
Propagazione delle Specie Legnose, che diresse fino al 1979.
Collaborò
con numerose Istituzioni e Centri di ricerca in tutti i Paesi Europei,
nonché in America (Canada, Stati Uniti, America Latina), in Australia,
in numerosi Paesi dell’Africa e dell’Asia (Medio Oriente, India,
Indocina, Giappone, Cina). La sua attività scientifica fu dedicata
soprattutto al miglioramento genetico e alla propagazione delle specie
legnose, con particolare riguardo a temi di biologia applicata. Pubblicò
centinaia di lavori e fu relatore a molti congressi scientifici in
tutto il mondo.
Il Presidente della Repubblica, nel 1983 lo insignì
di medaglia d’oro quale “Benemerito per la Scuola e la Cultura” e nel
1998 gli conferì la massima onorificenza dell’ordine al merito della
Repubblica Italiana (“Cavaliere di Gran Croce”).
Nel 1972 fu eletto
rappresentante dei Professori ordinari nel Consiglio Nazionale delle
Ricerche. Fu eletto nel CUN (Comitato Universitario Nazionale) per due
legislature, dal 1979 al 1986, quale rappresentante dei Professori
ordinari delle Facoltà di Agraria italiane.
Dal novembre 1979 fu
Rettore dell’Università di Firenze, fu poi rieletto e mantenne tale
carica per 12 anni consecutivi. L’Ateneo gli conferì una medaglia d’oro.
Lunedì 6 gennaio 2020, a Firenze, è mancato all’affetto dei suoi cari il Professor Franco Scaramuzzi. Era nato a Ferrara il 26 dicembre 1926.
Accademico dei Georgofili dal 1958, era stato chiamato a far parte del Consiglio Accademico nel 1979. Fu eletto Presidente nel 1986 e fu rieletto per 8 volte consecutive, rimanendo in carica per 28 anni.
Era Presidente quando, nel 1993, l’Accademia fu distrutta da un’autobomba attribuita alla mafia ed egli svolse un lavoro determinante per la sua ricostruzione. Attualmente ricopriva la carica di Presidente Onorario.
Domani, mercoledì 8 gennaio, la Salma sarà esposta dalle ore 8.30 nella Aula Magna del Rettorato in Piazza San Marco a Firenze, alle 11 si svolgerà una Commemorazione e la cerimonia funebre si terrà alle ore 15 presso la Basilica della Santissima Annunziata.
Nell’antico pensiero di un tempo circolare nel quale solstizi e equinozi scandivano le produzioni agricole e la disponibilità degli alimenti anche la cucina era regolata da tradizioni che marcavano i singoli periodi dell’anno in relazione ai ritmi circadiani di luce – buio e alle condizioni climatiche. Oggi tutto questo è in gran parte perduto e nelle società urbane e industriali dominate da un tempo lineare la popolazione vive in ambienti climatizzati con ritmi luce – buio artificiali e in ogni periodo dell’anno si trovano sempre gli stessi alimenti, mentre le tradizioni di tempo circolare sono sostituite da campagne pubblicitarie che tendono a destagionalizzare l’uso degli alimenti e quindi anche la cucina.
La conferenza “Soil and the SDGs: Challenges and need for action” organizzata a Bruxelles il 25 novembre 2019 dalla Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea, ha ospitato una ricca agenda di interventi per dare una visione a 360° delle sfide legate alla degradazione del suolo che avanza nei diversi territori degli Stati Membri e l’urgenza di pianificare azioni e prevedere strumenti adeguati per invertire la tendenza in atto nella nuova programmazione comunitaria 2021-2027.
Come mitigare le emissioni del settore agricolo? Importanza della dieta
Pratiche agricole più naturali (ad esempio no-tillage, agroforestry, agricoltura biologica), nuove tecniche di allevamento, la corretta gestione delle deiezioni e il miglioramento genetico potrebbero mitigare emissioni per 2,3 - 9,6 Gt CO2-eq/anno. Si stima che il potenziale di mitigazione delle diete possa contribuire in modo simile: dalle 3 Gt CO2-eq/anno della dieta mediterranea, alle 4-5 Gt CO2-eq/anno delle diete pescetariana e flexitariana (carne e latticini molto limitati), alle 6 Gt CO2-eq/anno di una dieta vegetariana, per raggiungere 8 Gt CO2-eq/anno con una dieta vegana. Le diete con maggiore potenziale di mitigazione hanno sempre una preponderante componente vegetale (frutta, verdura, semi, cereali), ma possono anche utilmente avvalersi di prodotti da allevamenti a basso impatto come polli, suini, prodotti dell’acquacoltura. Tutte le diete a effetto mitigante potrebbero essere rapidamente adottate portando immediati benefici, oltre che ambientali, in termini di qualità di vita e minori costi per il servizio sanitario nazionale.
Il costo che non include l’impatto ambientale
Non può (o non dovrebbe) sostenersi a lungo un’attività commerciale con profitti negativi. L’allevamento, la coltivazione di grano, la produzione di fertilizzanti rientrano tra quelle attività che lasciano un margine non elevato (in media inferiore al 10%). Ebbene, è stato valutato che, se si considerano i costi dei danni sull’ambiente e la salute che queste attività agricole o connesse con l’agricoltura causano, esse vanno tutte in negativo. Pesando anche il costo in termini di patrimonio naturale distrutto o compromesso, si avrebbero perdite medie del 12% per la produzione di fertilizzanti, del 78% per la coltivazione di grano e di ben il 165% per l’allevamento animale. Alla domanda “Perché l’agricoltura dà profitto? Si dovrebbe quindi rispondere: “Perché nessuno ne paga i danni ambientali e sociali”. Dire nessuno, in questo caso, equivale a dire tutti ed è chiaro che questo costo non è equamente distribuito. La maggior parte dei 500 milioni di polli da carne e degli oltre 10 milioni di suini allevati in Italia proviene da allevamenti intensivi. Se ti ritrovi un allevamento di decine di migliaia di polli o suini nelle vicinanze di casa è chiaro che sarai principalmente tu e la tua famiglia a pagare in termini di contaminazione dell’aria che respiri, maggiori rischi di malattie, ridotta qualità di vita e svalutazione della tua proprietà. E’ vero che le stesse considerazioni si possono fare per tante altre attività agricole e non, ma questo non diminuisce le responsabilità dell’allevamento intensivo.
Nel profluvio di parole che accompagnano le nostre giornate in questi giorni, alla fine di un anno particolarmente convulso e confuso per il nostro Paese sbuca all’improvviso il problema dell’origine delle nocciole, ingrediente chiave di un prodotto alimentare molto noto, la Nutella. L’Italia scopre che le nocciole sono in gran parte di importazione. Nasce il caso. Il Paese attonito si ferma, colpito dalla rivelazione. Del caso si impadronisce subito la politica che evidentemente non ha nulla di più urgente di cui occuparsi, dimenticando un debito pubblico di circa 2400 miliardi di euro in aumento inarrestabile, un prodotto lordo che non cresce, una disoccupazione attorno al 10% con un tasso che per i giovani è pari a circa il triplo e con un elevato numero di crisi aziendali che non si riescono a risolvere.
La vicenda fa riflettere, con la necessaria serietà, sul comparto agricolo-alimentare al di là delle favole e con un sano realismo.
Si scoprirebbe così che l’Italia è il secondo produttore al mondo di nocciole, circa un decimo della produzione mondiale, ma che ne deve importare un consistente quantitativo, in prevalenza dalla Turchia che è al primo posto fra i produttori con oltre la metà del totale mondiale. Le importazioni sono necessarie e si calcola che l’impiego di Ferrero per produrre Nutella e altri prodotti dolciari superi l’intera produzione nazionale. Una dichiarazione aziendale di qualche anno fa stimava che acquistasse circa un terzo della produzione mondiale. La storia proseguirebbe con lo spostamento dell’attenzione sullo zucchero e sulla necessità di importarne meno e produrne di più in Italia, e l’invito a consumare solo zucchero italiano di cui, peraltro, siamo deficitari.
La riflessione è breve e si riassume in pochi punti. L’Italia presenta un saldo della bilancia agricola-alimentare passivo da sempre, e cioè da quando esistono statistiche attendibili. Ciò non le ha impedito di alimentare una popolazione che dall’Unità d’Italia ad oggi è circa raddoppiata e consuma pro capite alimenti in quantità e qualità nutrizionale superiori.
La bilancia degli scambi, tradizionalmente passiva sia per la componente agricola sia per quella dei prodotti trasformati, da alcuni anni è diventata attiva per questa componente mentre è rimasta passiva per quella agricola. Per esportare più prodotti lavorati il cui ricavato copre una quota maggiore del passivo agricolo dobbiamo però importare quanto necessario. Un ipotetico pareggio fra import ed export è un sogno irrealizzabile sia perché non vi è più terra coltivabile, sia perché in molti casi la materia prima importata è fondamentale per migliorare la qualità nutrizionale e organolettica degli alimenti.