Franco Scaramuzzi si era laureato a Bari in Scienze Agrarie nel novembre
1948, con il massimo dei voti e lode. Grazie a una borsa di studio del
Ministero per l’Agricoltura e le Foreste, avviò subito (dall’inizio del
gennaio 1949) la propria attività accademica, anche come Assistente
volontario presso l’apprezzato Istituto di Coltivazioni Arboree
dell’Università di Firenze.
Nel 1954 vinse il concorso nazionale
alla libera docenza in Coltivazioni Arboree. Nel 1959 vinse il concorso
nazionale per l’omonima cattedra presso l’Università di Pisa. Nel 1969
fu chiamato dall’Università di Firenze a coprire il posto che era stato
del suo Maestro, Alessandro Morettini.
Nel 1971 costituì a Firenze
il nuovo Centro (poi divenuto Istituto) del CNR per gli Studi sulla
Propagazione delle Specie Legnose, che diresse fino al 1979.
Collaborò
con numerose Istituzioni e Centri di ricerca in tutti i Paesi Europei,
nonché in America (Canada, Stati Uniti, America Latina), in Australia,
in numerosi Paesi dell’Africa e dell’Asia (Medio Oriente, India,
Indocina, Giappone, Cina). La sua attività scientifica fu dedicata
soprattutto al miglioramento genetico e alla propagazione delle specie
legnose, con particolare riguardo a temi di biologia applicata. Pubblicò
centinaia di lavori e fu relatore a molti congressi scientifici in
tutto il mondo.
Il Presidente della Repubblica, nel 1983 lo insignì
di medaglia d’oro quale “Benemerito per la Scuola e la Cultura” e nel
1998 gli conferì la massima onorificenza dell’ordine al merito della
Repubblica Italiana (“Cavaliere di Gran Croce”).
Nel 1972 fu eletto
rappresentante dei Professori ordinari nel Consiglio Nazionale delle
Ricerche. Fu eletto nel CUN (Comitato Universitario Nazionale) per due
legislature, dal 1979 al 1986, quale rappresentante dei Professori
ordinari delle Facoltà di Agraria italiane.
Dal novembre 1979 fu
Rettore dell’Università di Firenze, fu poi rieletto e mantenne tale
carica per 12 anni consecutivi. L’Ateneo gli conferì una medaglia d’oro.
Lunedì 6 gennaio 2020, a Firenze, è mancato all’affetto dei suoi cari il Professor Franco Scaramuzzi. Era nato a Ferrara il 26 dicembre 1926.
Accademico dei Georgofili dal 1958, era stato chiamato a far parte del Consiglio Accademico nel 1979. Fu eletto Presidente nel 1986 e fu rieletto per 8 volte consecutive, rimanendo in carica per 28 anni.
Era Presidente quando, nel 1993, l’Accademia fu distrutta da un’autobomba attribuita alla mafia ed egli svolse un lavoro determinante per la sua ricostruzione. Attualmente ricopriva la carica di Presidente Onorario.
Domani, mercoledì 8 gennaio, la Salma sarà esposta dalle ore 8.30 nella Aula Magna del Rettorato in Piazza San Marco a Firenze, alle 11 si svolgerà una Commemorazione e la cerimonia funebre si terrà alle ore 15 presso la Basilica della Santissima Annunziata.
Nell’antico pensiero di un tempo circolare nel quale solstizi e equinozi scandivano le produzioni agricole e la disponibilità degli alimenti anche la cucina era regolata da tradizioni che marcavano i singoli periodi dell’anno in relazione ai ritmi circadiani di luce – buio e alle condizioni climatiche. Oggi tutto questo è in gran parte perduto e nelle società urbane e industriali dominate da un tempo lineare la popolazione vive in ambienti climatizzati con ritmi luce – buio artificiali e in ogni periodo dell’anno si trovano sempre gli stessi alimenti, mentre le tradizioni di tempo circolare sono sostituite da campagne pubblicitarie che tendono a destagionalizzare l’uso degli alimenti e quindi anche la cucina.
La conferenza “Soil and the SDGs: Challenges and need for action” organizzata a Bruxelles il 25 novembre 2019 dalla Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea, ha ospitato una ricca agenda di interventi per dare una visione a 360° delle sfide legate alla degradazione del suolo che avanza nei diversi territori degli Stati Membri e l’urgenza di pianificare azioni e prevedere strumenti adeguati per invertire la tendenza in atto nella nuova programmazione comunitaria 2021-2027.
Come mitigare le emissioni del settore agricolo? Importanza della dieta
Pratiche agricole più naturali (ad esempio no-tillage, agroforestry, agricoltura biologica), nuove tecniche di allevamento, la corretta gestione delle deiezioni e il miglioramento genetico potrebbero mitigare emissioni per 2,3 - 9,6 Gt CO2-eq/anno. Si stima che il potenziale di mitigazione delle diete possa contribuire in modo simile: dalle 3 Gt CO2-eq/anno della dieta mediterranea, alle 4-5 Gt CO2-eq/anno delle diete pescetariana e flexitariana (carne e latticini molto limitati), alle 6 Gt CO2-eq/anno di una dieta vegetariana, per raggiungere 8 Gt CO2-eq/anno con una dieta vegana. Le diete con maggiore potenziale di mitigazione hanno sempre una preponderante componente vegetale (frutta, verdura, semi, cereali), ma possono anche utilmente avvalersi di prodotti da allevamenti a basso impatto come polli, suini, prodotti dell’acquacoltura. Tutte le diete a effetto mitigante potrebbero essere rapidamente adottate portando immediati benefici, oltre che ambientali, in termini di qualità di vita e minori costi per il servizio sanitario nazionale.
Il costo che non include l’impatto ambientale
Non può (o non dovrebbe) sostenersi a lungo un’attività commerciale con profitti negativi. L’allevamento, la coltivazione di grano, la produzione di fertilizzanti rientrano tra quelle attività che lasciano un margine non elevato (in media inferiore al 10%). Ebbene, è stato valutato che, se si considerano i costi dei danni sull’ambiente e la salute che queste attività agricole o connesse con l’agricoltura causano, esse vanno tutte in negativo. Pesando anche il costo in termini di patrimonio naturale distrutto o compromesso, si avrebbero perdite medie del 12% per la produzione di fertilizzanti, del 78% per la coltivazione di grano e di ben il 165% per l’allevamento animale. Alla domanda “Perché l’agricoltura dà profitto? Si dovrebbe quindi rispondere: “Perché nessuno ne paga i danni ambientali e sociali”. Dire nessuno, in questo caso, equivale a dire tutti ed è chiaro che questo costo non è equamente distribuito. La maggior parte dei 500 milioni di polli da carne e degli oltre 10 milioni di suini allevati in Italia proviene da allevamenti intensivi. Se ti ritrovi un allevamento di decine di migliaia di polli o suini nelle vicinanze di casa è chiaro che sarai principalmente tu e la tua famiglia a pagare in termini di contaminazione dell’aria che respiri, maggiori rischi di malattie, ridotta qualità di vita e svalutazione della tua proprietà. E’ vero che le stesse considerazioni si possono fare per tante altre attività agricole e non, ma questo non diminuisce le responsabilità dell’allevamento intensivo.
Nel profluvio di parole che accompagnano le nostre giornate in questi giorni, alla fine di un anno particolarmente convulso e confuso per il nostro Paese sbuca all’improvviso il problema dell’origine delle nocciole, ingrediente chiave di un prodotto alimentare molto noto, la Nutella. L’Italia scopre che le nocciole sono in gran parte di importazione. Nasce il caso. Il Paese attonito si ferma, colpito dalla rivelazione. Del caso si impadronisce subito la politica che evidentemente non ha nulla di più urgente di cui occuparsi, dimenticando un debito pubblico di circa 2400 miliardi di euro in aumento inarrestabile, un prodotto lordo che non cresce, una disoccupazione attorno al 10% con un tasso che per i giovani è pari a circa il triplo e con un elevato numero di crisi aziendali che non si riescono a risolvere.
La vicenda fa riflettere, con la necessaria serietà, sul comparto agricolo-alimentare al di là delle favole e con un sano realismo.
Si scoprirebbe così che l’Italia è il secondo produttore al mondo di nocciole, circa un decimo della produzione mondiale, ma che ne deve importare un consistente quantitativo, in prevalenza dalla Turchia che è al primo posto fra i produttori con oltre la metà del totale mondiale. Le importazioni sono necessarie e si calcola che l’impiego di Ferrero per produrre Nutella e altri prodotti dolciari superi l’intera produzione nazionale. Una dichiarazione aziendale di qualche anno fa stimava che acquistasse circa un terzo della produzione mondiale. La storia proseguirebbe con lo spostamento dell’attenzione sullo zucchero e sulla necessità di importarne meno e produrne di più in Italia, e l’invito a consumare solo zucchero italiano di cui, peraltro, siamo deficitari.
La riflessione è breve e si riassume in pochi punti. L’Italia presenta un saldo della bilancia agricola-alimentare passivo da sempre, e cioè da quando esistono statistiche attendibili. Ciò non le ha impedito di alimentare una popolazione che dall’Unità d’Italia ad oggi è circa raddoppiata e consuma pro capite alimenti in quantità e qualità nutrizionale superiori.
La bilancia degli scambi, tradizionalmente passiva sia per la componente agricola sia per quella dei prodotti trasformati, da alcuni anni è diventata attiva per questa componente mentre è rimasta passiva per quella agricola. Per esportare più prodotti lavorati il cui ricavato copre una quota maggiore del passivo agricolo dobbiamo però importare quanto necessario. Un ipotetico pareggio fra import ed export è un sogno irrealizzabile sia perché non vi è più terra coltivabile, sia perché in molti casi la materia prima importata è fondamentale per migliorare la qualità nutrizionale e organolettica degli alimenti.
Sì è svolta il 5 dicembre 2019, nella sede dell’Accademia dei Georgofili, una giornata di studio su “La sostenibilità in agricoltura”. Il tema è stato declinato in tutti i suoi aspetti: dalle produzioni zootecniche alla difesa delle piante, dalla gestione forestale alla ricerca genetica, dall’ortofloricoltura al verde urbano e alla sicurezza dei lavoratori del settore primario. I Georgofili hanno voluto offrire un contributo di conoscenze e di “saperi” per fornire linee guida su una materia complessa e trasversale, che interessa tutti i settori della nostra Società.
Il Prof. Pietro Piccarolo, Vicepresidente dell’Accademia dei Georgofili che ha condotto i lavori, ci spiega meglio il senso della giornata in questa intervista.
Prof. Piccarolo, perché una Giornata di studio sulla sostenibilità in agricoltura?
Quello della sostenibilità in agricoltura è stato il tema conduttore che l’Accademia dei Georgofili si è data per il 2019 e la Giornata del 5 dicembre ha riguardato un approfondito dibattito scientifico sulla sostenibilità, esteso a tutte le filiere del settore primario. Questo perché il termine “sostenibile” è spesso abusato e a volte anche snaturato. Si è quindi voluto portare il dibattito sul giusto binario, dando all’aggettivo “sostenibile” il significato corretto, e cioè è sostenibile ciò “che può essere affermato, asserito, dimostrato con argomenti solidi e persuasivi”. L’aggettivo “sostenibile” è quindi assimilabile all’aggettivo “scientifico”.
A questo principio ogni relazione del Convegno si è strettamente attenuta, trattando nella propria tematica, non solo gli aspetti ecologici, ma anche quelli economici e sociali. Solo coniugando questi tre aspetti con l’esigenza di avere una produzione di qualità è infatti possibile parlare di sostenibilità dell’agricoltura. È questa la sfida che la Comunità scientifica porta avanti con buoni risultati, grazie soprattutto ai nuovi strumenti di analisi e all’innovazione tecnologica e digitale.
Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino è un proverbio motivato dall’importanza del lardo nella cucina e nella gastronomia italiana del passato, un alimento che assieme allo strutto meritano d’essere rivalutati e recuperati. Nel passato tre sono i grassi presenti nelle cucine tradizionali italiane: l’olio, il burro e il lardo con lo strutto: in auge ed osannato è oggi il primo, a volte criminalizzato il secondo, uccisi e da tempo sepolti il lardo e lo strutto, ma nel passato preziosi e alla base soprattutto della cucina popolare tanto che il lardo merita il detto tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.
Anche se il rapporto tra parchi e criminalità rimane oggetto di dibattito, esiste una letteratura alquanto consistente riguardo al fatto che i parchi e altri spazi verdi urbani riducono i reati e in particolar modo le violenze contro la persona (v. Georgofili INFO - http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/1992).
Quando gli spazi urbani non utilizzati, marginali o, peggio ancora, degradati, si trasformano in luoghi più attraenti e utili per i residenti, la violenza e il crimine in genere diminuiscono nelle immediate vicinanze.
Dall’intervento di Giulia Bartalozzi su queste pagine nel novembre 2018 dal titolo “Salveremo il pianeta non mangiando carne?" molti altri se ne sono succeduti sul tema della sostenibilità degli allevamenti animali. Tra i più recenti quelli di Giuseppe Bertoni, Mauro Antongiovanni e Giuseppe Pulina che ci hanno invitato a una riflessione seria sui numeri, a un dibattito scevro da pregiudizi e a far qualcosa assieme. Rispondo volentieri all’invito dei colleghi.
Non ho dubbi sul ruolo fondamentale (alimentare, nutrizionale, economico e sociale) della carne e dei prodotti di origine animale. L’allevamento, oltre a fornire nutrienti essenziali, garantisce lavoro e sicurezza alimentare a buona parte dell’umanità, in molti casi migliora la qualità della vita e a volte la rende semplicemente possibile. Quindi, lungi da me l’idea di proporre l’abbandono della carne. Invito che non sortirebbe comunque alcun effetto. Tuttavia mi è altrettanto chiaro che una decisa limitazione della produzione e del consumo di carne non è più procrastinabile. Non possiamo evitare la catastrofe climatica (il punto di non ritorno) che incombe se, assieme a drastiche misure in altri settori che divorano risorse non rinnovabili ed emettono gas serra, non riduciamo in modo importante il consumo di alimenti di origine animale e di carne in particolare. Non entro nel merito delle condizioni in cui sono tenuti gli animali in alcuni allevamenti intensivi (purtroppo numerosi anche in Italia) e nemmeno dei maggiori rischi di malattie non trasmissibili associati a un eccessivo consumo di carne e salumi.
Terra agricola e allevamenti animali
L’agricoltura è tra le prime cause del cambiamento climatico e ne subisce pesantemente gli impatti sia a livello locale che globale. Se contro ogni previsione riusciremo a limitare il riscaldamento globale entro i 2°C, la resa di molte colture base tra cui grano, mais e soia, che in alcune aree della fascia settentrionale del mondo andrà ad aumentare, diminuirà comunque in generale del 20-40%. D’altra parte l’agricoltura è responsabile d’ingenti danni ambientali: emissioni di gas serra, erosione di suolo fertile, deforestazione e desertificazione, inquinamento delle acque e dell’aria, perdita di biodiversità, eutrofizzazione e morte di vaste aree marine costiere. Il contributo maggiore a questi impatti negativi lo danno gli allevamenti animali, di ruminanti in particolare.
La produzione mondiale di carne (escluse pesca e acquacoltura) ha sfiorato 340 milioni di tonnellate nel 2018 (FAO Outlook, 2018) ed è previsto che la richiesta mondiale di prodotti di origine animale superi 600 milioni di tonnellate nei prossimi due/tre decenni. Di fronte a questo trend, le domande da porsi sono tante. Quali strategie adotterà il settore zootecnico per sostenere tale richiesta? Cosa comporterà in termini di costi ambientali? Come incrementare la produttività degli allevamenti già fortemente limitata a causa delle mutate condizioni climatiche?
L’ortofrutta al tavolo Mise-ICE non ha mai messo piede. Il tavolo al ministero agricolo ha partorito solo un impegno sul catasto frutticolo e nulla più (a proposito com’è finita? chi gestirà la nascita del catasto frutta? Anche qui porto delle nebbie). Poi anche di questo tavolo si sono perse le tracce. Perché? Per svogliatezza o perché, più semplicemente, nessuno lo ha sollecitato seriamente?
Fin dall’antichità lo zafferano ha gli usi più disparati e serve per profumare, tingere tessuti, dipingere, curare malattie, colorare alimenti e insaporire vivande e ancora oggi è la più preziosa delle spezie che ai nostri giorni ha un prezzo simile a quello dell’oro, dai quaranta ai quarantacinque Euro al grammo!
Il controllo delle malattie delle piante ad eziologia batterica è senza dubbio molto impegnativo e difficoltoso. Nonostante molteplici siano le modalità d’interazione che i batteri fitopatogeni possono instaurare con i loro ospiti vegetali, la lotta alle batteriosi delle piante deve essere sempre basata essenzialmente sulla prevenzione dell’infezione e della disseminazione del patogeno, piuttosto che sulla cura della malattia, quando conclamata
Le principali misure di controllo delle batteriosi delle piante prevedono l’introduzione e l’uso di varietà, cultivar o ibridi resistenti, l’adozione di pratiche colturali-agronomiche e di monitoraggio che permettono di ridurre l’inoculo infettante o la probabilità d’infezione, l'implementazione e applicazione di misure diagnostico-ispettive e di quarantena per escludere o limitare introduzione e/o diffusione del fitopatogeno e del materiale vegetale infetto. Anche l'uso di formulati a base di agenti di lotta biologica si è dimostrato in certi casi efficace per il controllo di alcune batteriosi di specie coltivate, con riduzione dell’incidenza e spesso anche della severità degli attacchi.
Nonostante ciò, una delle poche opzioni disponibili ed efficaci è spesso stata, e tuttora è, l’applicazione di battericidi. Mentre negli USA è permesso l’uso in pieno campo di taluni antibiotici quali fitofarmaci, in Europa i battericidi ammessi sono rappresentati esclusivamente da composti a base di rame. Se importanti come ruolo nella difesa integrata, i battericidi rameici sono talvolta addirittura indispensabili in agricoltura biologica. Ma a partire dagli anni '80 dello scorso secolo, è stato via via crescente il numero di segnalazioni relative allo sviluppo di resistenza al rame in batteri fitopatogeni afferenti a vari e diversi generi, fenomeno che ha destato notevoli preoccupazioni per la sostenibilità di questi interventi.
Più in generale, la crescente consapevolezza dei problemi di natura eco-tossicologica, derivanti dall’uso continuato, ma più spesso inutilmente eccessivo, del rame a protezione delle colture dalle malattie, in tempi recenti ha portato a norme legislative più restrittive per limitare l'uso dei composti antimicrobici rameici e quindi alla ricerca di possibili alternative.
Il 5 Dicembre si celebra la giornata mondiale del suolo; fu proposta nel 2002 dall’International Union of Soil Sciences (IUSS) di cui fanno parte tutte le società nazionali di Scienza del Suolo inclusa, quindi, la Società Italiana di Scienza del Suolo (SISS). In questo giorno la IUSS in collaborazione con la FAO sta organizzando eventi in tutto il mondo, Italia compresa, per richiamare l’attenzione su questa risorsa non rinnovabile e fragile visto che la degradazione del suolo è un problema a livello planetario dato che il centro di ricerche della Commissione europea ha pubblicato una Nuova edizione dell'Atlante mondiale della desertificazione, dal quale emerge che “oltre il 75% delle terre emerse sono già degradate e potrebbero esserlo oltre il 90% entro il 2050”.
Il detto di Leonardo da Vinci secondo cui “si conosce molto di più di quello che ci sta sopra la testa di quello che ci sta sotto i piedi” è quanto mai attuale. Nonostante la ricerca scientifica oggi abbia prodotto notevoli quantità di dati e sia in grado di fornire tutti gli elementi per operare una corretta gestione del territorio, purtroppo, troppo spesso, queste conoscenze sono sottovalutate o peggio ignorate dall’opinione pubblica, dai decisori politico-amministrativi e dagli operatori agricoli cioè da tutti i soggetti che dovrebbero adoperarsi per consentirne la corretta attuazione.
Eppure è del tutto evidente che la degradazione del suolo e quindi dell’ambiente, dipende pressoché interamente dalle attività antropiche; da una parte con l’abbandono delle aree marginali e quindi con l’abbandono della manutenzione delle sistemazioni agrarie realizzate in passato e, soprattutto, del sistema di regimazione delle acque; dall’altra parte con l’intensificazione colturale degli ultimi 50 anni che, se da un lato ha portato un incremento produttivo, dall’altro ha causato, nel lungo termine, un progressivo degrado del suolo con una drastica riduzione del contenuto di sostanza organica e con un considerevole aumento, complici i cambiamenti climatici in atto, dei fenomeni erosivi, talvolta catastrofici. Da sottolineare anche che dall’inizio degli anni ‘80 si sta verificando un decremento della capacità produttiva del suolo in oltre il 10% delle terre coltivate. A questo si aggiunge il progressivo aumento delle aree impermeabilizzate, come bene evidenziato dal recente rapporto ISPRA sul consumo di suolo. Questo è tanto più grave proprio perché agricoltura e urbanizzazione competono per l’uso degli stessi suoli: tendenzialmente i terreni a più elevata potenzialità produttiva. La FAO stima che, con questo tasso di distruzione del suolo, ci rimangano solo 60 anni residui per disporre di sufficiente suolo fertile di buona qualità.
Per oltre un millennio le indigene api nere siciliane (Apis mellifera siciliana) sono state allevate all’interno di arnie orizzontali, realizzate dagli stessi apicoltori assemblando porzioni di fusti di ferula. Un centinaio di tali arnie venivano collocate insieme, in luoghi asciutti, sotto tettoie, delimitate da muri perimetrali a secco, coperte con fasci di stoppie di frumento, o con canne e tegole. La parete posteriore dell’apiario era esposta a nord, e quella anteriore a sud-est, per scaldare gli alveari sin dalle prime ore del mattino. Tale esposizione era raccomandata anche da Plinio, Columella e da Varrone.
Negli scenari urbani che molti prospettano per il futuro, la presenza di zone verdi e di spazi che richiamino un concetto di “naturalità”, può svolgere un ruolo fondamentale per il miglioramento della qualità della vita e per il raggiungimento di una soglia minima di benessere per l’essere umano per il quale è divenuta imperiosa la necessità di rigenerare sia il corpo, sia lo spirito. Infatti, della nostra vita quotidiana di abitanti di grandi città, che cosa possiamo dire di più accettabile e scontato, se non che la viviamo con acuto affanno, senza la necessaria serenità e dedicando limitatissimo tempo alla meditazione?
L’olfatto e la vista sono i primi sensi che guidano nella scelta e nella valutazione della carne e per questo gli studi che mirano al riconoscimento dei meccanismi di formazione delle sostanze aromatizzanti volatili delle carni e alla determinazione della loro influenza sul gusto sono di grande importanza. Inoltre i consumatori stanno diventando esigenti nella scelta della carne e dei prodotti a base di carne basandosi su qualità, freschezza e igiene e tra i fattori di qualità molto importanti sono la marmorizzazione (tessuti adiposi intramuscolari), la consistenza, il colore, la tenerezza e soprattutto il sapore e le caratteristiche aromatiche che sono rilevate prima e durante la masticazione.
L’aroma della carne è percepito attraverso le narici e quando la carne è posta in bocca e masticata e i composti aromatici volatili sono trasferiti attraverso la faringe ai recettori olfattivi (aroma retronasale) che costituisce circa l’ottanta per cento della sensazione gustolfattiva, come ognuno può costatare quando perde il senso dell’olfatto per un raffreddore. Tutti i componenti degli aromi volatili sono organici, hanno un basso peso molecolare e le strutture chimiche delle classi di aromi volatili sono molto diverse tra cui aldeidi, chetoni, idrocarburi, pirazine, acidi, esteri, alcoli, composti contenenti azoto e zolfo e altri composti eterociclici con differenze nelle strutture chimiche anche la loro volatilità molto diverse.
La carne cruda ha poco aroma e un sapore simile al sangue con differenze tra le diverse specie animali. Gli aromi più intensi si hanno nelle carni degli animali selvatici e, a parte i fattori genetici, dipendono dal metodo di alimentazione dell’animale, dalla qualità e dal tipo di foraggio, dalla frollatura e dal muscolo (taglio) della carne.
Fatta eccezione per la bistecca alla tartara, l'uomo civilizzato preferisce che la carne sia stata esposta a un certo grado di calore (cottura) che provoca cambiamenti che riguardano la tenerezza, il contenuto di acqua, il colore, la dimensione e la forma, il sapore e l’aroma. Le caratteristiche aromatiche delle carni cotte hanno una grande importanza nella valutazione della qualità della carne, nell'accettazione e nelle preferenze dei consumatori. Il sapore dell'aroma delle carni cotte deriva da componenti aromatici volatili che scaturiscono da reazioni termicamente indotte che si verificano durante la cottura attraverso: A) reazione di Maillard di aminoacidi o peptidi con zuccheri riducenti; B) ossidazione dei lipidi, C) interazione tra prodotti di reazione di Maillard con prodotti lipidici ossidati; D) degradazione delle vitamine e in particolare della tiamina (vitamina B1).
Gran parte delle caratteristiche aromatiche della carne che si sviluppano durante la cottura derivano da una complessa interazione di precursori che generano circa un migliaio di composti aromatici volatili. Tra i fattori che influenzano gli aromi della carne cotta i lipidi hanno una grande importanza, tuttavia va notato che quantità significative di acidi grassi insaturi nella carne e nei prodotti a base di carne, usati per motivi di salute, possono avere influenze negative sul suo aroma perché i prodotti di decomposizione di questi acidi grassi più volatili influenzano i sapori della carne interagendo con la reazione di Maillard e riducendo la quantità di composti aromatici carnosi come i tiofeni. Il sapore e gli aromi delle carni cotte in gran parte dipendono anche dalla quantità e dal tipo di calore applicato e per questo il sapore e l’aroma di un pezzo di carne cotta al calore umido come un lesso o un bollito non è ovviamente lo stesso di quello risultante da una carne stufata, grigliata o fritta cotta al calore secco e a temperature elevata.
In questi giorni si è parlato dei danni che la tempesta di vento ha causato su una parte della pineta della Feniglia e dei mancati diradamenti previsti dal Piano di gestione elaborato per questa foresta nel 2005, da chi scrive e dal prof. Marziliano. In effetti le carenze degli interventi colturali risalgono a epoche ben più lontane.
I lavori di rimboschimento della Feniglia iniziarono nel 1911 ad opera dello Stato che aveva acquistato questa lingua di terra per ragioni idrogeologiche. Era accaduto infatti che il Comune di Orbetello nel 1804 aveva venduto la Feniglia ad alcuni privati che, in meno di un secolo, l’avevano quasi del tutto denudata dalla vegetazione (la Legge Serpieri R.D.3267/23 non ancora era stata scritta!!). Ciò aveva provocato la desertificazione della Feniglia e fenomeni di inpaludamento della laguna di Orbetello, dovuti con ogni probabilità al trasporto della sabbia ad opera del vento e del ruscellamento idrico, con serio pregiudizio per la salute degli abitanti (impaludamento voleva dire rischio di contrarre la malaria) e le attività economiche legate alla pesca.
Per questo motivo il Ministero LL.PP. procedette all’esproprio, mentre il rimboschimento fu affidato al Corpo Forestale dello Stato. Dato che i lavori furono iniziati nel 1911 e ultimati nel 1950, i soprassuoli più vecchi hanno superato i 100 anni mentre i più giovani ne hanno circa 70. L’esame del progetto rappresenta un manuale per il rimboschimento delle dune.
Il primo Piano di assestamento (C. Volpini 1950) individuò una fascia di protezione con Pino marittimo, Pino domestico, Ginepro e varie latifoglie a ridosso della fascia costiera, una compresa di Pino domestico per la produzione di pinoli (circa 320 ettari su 474 ha).
La gestione della Feniglia da parte dell’Ispettore Pepe, avvenuta prima dell’ultimo conflitto mondiale, ebbe le dovute cure colturali (sfolli e diradamenti) secondo gli studi e le conoscenze dell’epoca sulla coltivazione del Pino domestico per la produzione di pinoli. Mi piace ricordare la monografia di Biondi e Righini del 1910 che, per le pinete costiere della Toscana destinate alla produzione di pinoli, partendo da oltre 3500 piante per ettaro, prevedeva potature, sfolli e diradamenti che a 30 anni circa avrebbero dovuto portare la densità a circa 100 piante per ettaro (densità quasi definitiva). Lo stesso Pepe secondo una sperimentazione dettagliatamente documentata a 25-27 anni aveva, con frequenti diradamenti, ridotto il numero di piante a circa 250 piante per ettaro e 30 cm di diametro a m 1,30 dal colletto. Questo stesso Autore, nel valutare i risultati delle Sue esperienze, concluse raccomandando una selezione ancora più intensa allo scopo di stimolare maggiormente l’accrescimento del Pino domestico.
La Duna Feniglia è stata catalogata tra i biotopi di rilevante interesse vegetazionale da parte della Società Botanica Italiana; la Commissione per la Conservazione della Natura del CNR l’ha classificata tra i biotopi caratteristici della Macchia mediterranea; successivamente la Feniglia è stata iscritta nel libro nazionale dei boschi da seme. Con D.M. 26/7/1971 la Duna Feniglia è stata classificata tra le “riserve forestali di protezione per il suolo sabbioso e per le condizioni edafiche”.