Ferrucci: La scelta dell’interlocutore di un dialogo sugli orti urbani è stata per me semplice e immediata: chi meglio di te, Emilio, può guidarci nell’esplorare le multiformi sfaccettature di un tema, l’orticoltura urbana, al quale sei stato tra i primi in Italia a dedicare la tua attenzione di agronomo, sondandone la genesi, contribuendo alla sua espansione sotto il profilo pratico - operativo, ed educando ad apprezzarne le molteplici esternalità positive con l’intensa attività di divulgazione che conduci attraverso il tuo sito Internet https://emiliobertoncini.wixsite.com/emiliobertoncini, la pubblicazione di volumi, corsi di formazione, seminari universitari e scolastici. Nell’incipit del tuo bel volume, stimolante e pionieristico, dal titolo “Orticoltura (eroica) urbana”, del 2014, e già l’aggettivo eroica che hai usato è eloquente, ti chiedevi se la stessa potesse essere una “via per il futuro”: che risposta daresti oggi a quella domanda?
Bertoncini: Prima di tutto, sono felice di aver formulato una domanda anziché un’affermazione, per quanto a tutt’oggi ne abbia la tentazione. Trascorsi oltre dieci anni posso dire che quella domanda ha lavorato molto in me trasformando tanto la mia vita professionale quanto quella personale. Nel mio agire professionale l’orticoltura è diventata sempre più una metodologia per perseguire risultati non agronomici. Ho spostato, cioè, sempre di più l’obiettivo in campo socio-educativo, lavorando con l’infanzia, l’adolescenza, la terza età, la disabilità, la marginalità sociale e così via. Questo ha circoscritto il coltivare al rango di strumento e, al tempo stesso, ne ha ampliato il raggio d’azione, così da portare quel gesto all’attenzione di chi mai lo aveva interpretato come capace di scaturire risultati diversi dal produrre qualcosa che può essere venduto e mangiato. Oggi nel mio lavoro il coltivare è metodologia per intervenire in area STEM (acronimo inglese che sta per Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr) nel mondo della scuola, per supportare l’aggregazione sociale e la sollecitazione delle abilità dei singoli quando lavoro con persone con disabilità, per stimolare la comunità intera ad un nuovo sguardo sui gesti agricoli. In me è cambiato anche il modo di proporre l’orticoltura come strumento e sono sempre più orientato alla testimonianza, cioè sto sostituendo il tentativo di dimostrare che permette di raggiungere determinati risultati con quello di mostrare cosa accade quando la si pratica. Sono sempre più numerose anche le testimonianze di chi mi segue sui social o mi incontra nei corsi e nei progetti educativi e fa scaturire progettualità che muovono dalla mia sollecitazione, ma che mai sarei stato capace di concepire. In pratica, il grande cambiamento rispetto a dieci anni fa consiste proprio in questo: la nostra società, al di fuori certi clamori mediatici, è sempre più ricettiva rispetto al messaggio di quel mio primo libro. Questo mi fa pensare che davvero la via per il futuro sia aperta e praticabile, anche se ha bisogno di tempo per essere percorsa.
Ferrucci: La valorizzazione degli orti urbani attraverso il riconoscimento del loro ruolo di componente di spicco del verde urbano, operata della politica climatico - ambientale, ti appare riduttiva?
Bertoncini: Per quanto riguarda il ruolo di componente di spicco del verde urbano, mi trovo soprattutto a dover segnalare un aspetto: gli spazi ad orto, indipendentemente dalla funzione loro attribuita, sono luoghi e, come tali, richiedono la presenza costante di persone. A differenza di altre tipologie di verde per le quali la gestione può essere svolta con interventi anche saltuari, come il taglio del prato o la potatura di una siepe, l’orto non può prescindere da un agire quasi quotidiano. Sono luoghi in quanto frutto di un’interazione costante tra persone e spazi. Quando questa viene meno, perdono le proprie caratteristiche e lasciano rapidamente spazio a quel selvatico di ricolonizzazione che viene spesso confuso col degrado. È fondamentale, quindi che siano spazi vissuti e che ci sia un presidio anche culturale di quella fruizione, un’attenzione che permette di non deviare dalla traiettoria iniziale, ma che consente un’evoluzione capace di accompagnare i cambiamenti della nostra società.
Ferrucci: È ancora definibile come “eroica” l’orticoltura urbana, o, nelle tue esperienze sul campo hai avuto modo di registrare una maggiore disponibilità da parte delle amministrazioni pubbliche ad aprire ad essa spazi all’interno dei centri urbani e periurbani, e da parte dei cittadini ad abbandonare l’idea che a coltivare debbano essere solo gli agricoltori?
Bertoncini: Per rispondere devo chiamare in causa un’espressione molto in voga negli ultimi anni, cioè quella del multiverso. È come se coesistessero universi paralleli nei quali, riferendoci al nostro paese, la risposta è alternativamente sì oppure no. In alcuni contesti quell’aggettivo è del tutto desueto e inefficace nel descrivere ciò che accade, in altri è ancora strettamente necessario per indicare una via possibile. Mantenendo un parallelo utilizzato a suo tempo, la situazione è simile a quella delle piste ciclabili: in alcuni nostri territori sono una presenza ormai ordinaria, una infrastruttura imprescindibile, mentre in altri mantengono carattere di eccezionalità o mancano del tutto. Lo stesso è per la natura eroica del coltivare in contesto urbano e del declinare questo fenomeno verso obiettivi diversi da quelli tipici dell’agricoltura tradizionale. In tal senso, alcune comunità urbane, come quelle dei grandi centri, sono molto rapide nel passare dal pionierismo ad una ordinarietà che fa decadere l’utilità dell’aggettivo “eroica”. In altri contesti si fa fatica ad abbandonare una visione agricola del coltivare ancorata al passato. È come se non si riuscisse a lasciare andare il vecchio modello dell’agricoltura produttrice di beni in un’epoca in cui è ampiamente riconosciuta la sua multifunzionalità. Il paradosso è che molti agricoltori, soprattutto giovani, sono ben più efficaci nel cogliere le possibilità di intervento della moderna agricoltura all’interno delle comunità urbane degli stessi cittadini che le compongono. Rimane valida, almeno nella mia percezione, la natura di straordinario laboratorio di sperimentazione e contatto tra sguardi diversi costituito dall’agricoltura periurbana e urbana.
Ferrucci: Come ti spieghi il gap tra la realtà che registra un incremento quantitativo e qualitativo degli orti urbani e il diritto che, silente, sembra non prenderne atto?
Bertoncini: Non sono un giurista, quindi ho difficoltà a rispondere. Provo ad esprimere due pensieri. Il primo si rifà alla terribile primavera del 2020, quando gli italiani, costretti ad una vita ritirata e circoscritta dalle restrizioni dovute all’emergenza Covid-19, si riversarono eroicamente sulla pratica dell’orticoltura, quasi come ad attivare un percorso collettivo di ortoterapia. Tuttavia, molti si trovarono ad avere difficoltà per spostarsi all’orto a causa delle limitazioni agli spostamenti. Ne scaturì una richiesta potente di rimuovere le restrizioni e il legislatore, complice la celerità del diritto d’emergenza, se così si può chiamare, fu rapido nel rispondere. Ecco, forse manca una richiesta potente al legislatore che rimane impegnato solo su altri fronti. Altrettanto, credo che ci sia un timore di fondo: senza un adeguato livello di sensibilità giuridica, si rischia di produrre norme che finirebbero per cristallizzare in un fotogramma quello che è un fenomeno in pieno sviluppo, un film dalla sceneggiatura ancora fluida. Questo è il mio secondo pensiero: sappiamo che normare ciò che non è consolidato non è facile. Tuttavia, gli esempi delle norme regionali di Lombardia e Puglia potrebbero essere un buon riferimento anche a livello nazionale e, soprattutto, potrebbero dare una base giuridica a un fenomeno che potrebbe giovarsi di risorse pubbliche indirizzate in modo chiaro e condiviso.