La dichiarata “insostenibilità” dei danni da fauna selvatica in agricoltura

Dalla “tutela” alla “gestione” per un equilibrio tra ambiente e attività dell'impresa agricola

di Nicola Lucifero
  • 01 December 2021

Non troppi anni addietro, era il 2014, il compianto Presidente Emerito dell’Accademia dei Georgofili, prof. Franco Scaramuzzi, concludeva una giornata di studio dell’Accademia dedicata al tema dei danni da fauna selvatica in agricoltura evidenziandone la loro “insostenibilità”. Tali danni non erano nel suo pensiero “sostenibili” perché la soluzione al problema era nella legge, ossia il contenimento delle specie per perseguire il loro equilibrio sul territorio come auspicato dal legislatore. La linearità del premisero e la correttezza del metodo di analisi del Maestro si scontravano (e, purtroppo, tutt’ora si scontrano) con la miopia del legislatore. Come in altri casi, prontamente evocati, l’esigenza fortemente proclamata dagli agricoltori rimaneva (e rimane) non ascoltata. A distanza di anni, i danni si susseguono, le criticità sono aumentate, e l’agricoltore rimane privo di una concreta tutela dei propri diritti.
In termini generali, va detto che la questione non è di pronta soluzione ove si consideri l’eterogeneità dei danni, le specie che li causano e il loro regime di tutele differenziate. Sul piano prettamente giuridico occorre considerare che l’evento dannoso causato dalla fauna selvatica, come tutti gli eventi naturali, investe i profili della responsabilità e della risarcibilità del pregiudizio patito dall’imprenditore per ristorare i costi e le perdite generate, alcuni dei quali sono assolutamente non prevedibili e si manifestano in modo violento e catastrofale e altri, pur prevedibili, si verificano in modo ripetuto al punto da terminare l’emergere di danni altrettanto ingenti alle produzioni agricole. Tutti questi eventi, in quanto determinati da fattori ingovernabili da parte dell’uomo, o perché imprevedibili o perché insormontabili, possono produrre modifiche nell’ecosistema e interferenze nelle attività antropiche determinando un pregiudizio che si manifesta non solo nella perdita della produzione o di singoli beni aziendali, ma ancor più per l’effetto che tali eventi possono determinare sul mercato ove opera abitualmente l’agricoltore.
Il tema evidenzia non solo la complessità fenomenologica del danno da fauna selvatica in agricoltura, ma ancor più la difficoltà a definire un regime di tutela del soggetto danneggiato che, per l’impianto normativo vigente, dettato dalla l. 157/92, resta ancora limitato. La disciplina trova il sistema di gestone del rischio al suo interno ove si consideri la forte correlazione tra prevenzione e ristoro del danno, ove la regola è rappresentata dagli atti di prevenzione da parte della Pubblica Amministrazione per perseguire la densità ottimale delle specie sul territorio; il ristoro del danno dovrebbe trovare luogo in via residuale. Questa prospettiva non può non essere perseguita. D’altronde, la stabilizzazione dei redditi degli agricoltori si attua anche con misure concrete di gestione del rischio da perseguire con interventi ex ante volti a contenere le specie sul territorio in ragione di un giusto equilibrio. Va detto che il regime giuridico vigente determina una protezione assai esigua per l’agricoltore, e soprattutto non più adeguata in ragione dei molti fattori che sono alla base dell’aumento della pressione faunistica che espongono l’agricoltore a danni che si riflettono sull’impresa e quindi sulla sua presenza sul mercato.
La caccia, quale fenomeno culturale e sociale fortemente radicato sul nostro territorio, non può più essere la sola soluzione per perseguire l’obbiettivo anzidetto. Senza alcun dubbio la caccia rappresenta una attività che, sostanzialmente, converge con taluni interessi di tutela dell’ambiente e della sua componente ambientale perché è capace di intervenire su un controllo delle specie sul territorio. Ma non può non osservarsi che il venir meno del numero dei cacciatori incide sul sistema di controllo preventivo, concettualmente voluto dalla legge quadro, che infatti tratta i due temi (i.e. la tutela della fauna e l’esercizio dell’attività venatoria) nel medesimo testo normativo. Ne discende una forte criticità per l’agricoltura e l’ambiente da tempo evidenziato dai lavori dell’Accademia che porta a focalizzare il tema in una prospettiva diversa: da una definizione di tutela, come previsto dalla l. 157/92, a un sistema di gestione della fauna selvatica sul territorio.
In una prospettiva de jure condendo, sarebbe quindi auspicabile riflettere sull’attuale impianto della legge quadro, forse non più attuale a garantire quell’equilibrio che è alla base del suo sistema, attraverso una revisione della stessa legge, e della qualifica giuridica della fauna selvatica, nella direzione di una gestione della fauna selvatica sul territorio da perseguire attraverso l’attività dell’imprenditore agricolo in quanto soggetto presente sul territorio. Un processo questo più complesso ed articolato che prospetta la questione su un piano diverso, ma che si crede di dover delineare nella convinzione che rappresenti la via per meglio coniugare la difesa di una componente ambientale e l’interesse privato dell’agricoltore, altrettanto complessa, ma paradossalmente più funzionale a garantire un ordine che è naturale e sociale contemporaneamente.
Un obbiettivo quello indicato che si pone peraltro in linea con la più recente prospettiva segnata dalle Istituzioni europee con riferimento al tema ambientale e alla necessità di adottare una visione strategica a lungo termine coerente con l’Agenda 2030 di cui il Green Deal europeo è parte integrante – come espressamente dichiara – e ne riflette alcune caratteristiche in termini di obbiettivi e di azioni interconnesse tra loro. La componente ambientale risulta fortemente presente e impone di preservare e ripristinare gli ecosistemi e la biodiversità di cui riconosce l’importanza di garantire la loro funzione naturale per la salvaguardia del Pianeta. L’approccio delle Istituzioni europee muove da una considerazione unitaria, quale la considerazione della necessità di invertire la rotta e adottare una strategia che leghi competitività e tutela dell’ambiente attraverso il ricorso alla sostenibilità, e adotta il medesimo schema programmatico. Infatti, oltre ad una impronta fortemente ambientale, gli atti di soft law che si sono susseguiti si accomunano per il grado di percettività, e dunque di forza operativa, e per la loro natura programmatica che si esprime nel definire obbiettivi e strategie per perseguire il fine di realizzare una economia sostenibile, inclusiva, climaticamente neutra, capace di migliorare la qualità della vita delle generazioni presenti e future. L’interpretazione di tali atti acquisisce una particolare valenza nella definizione della strategia europea, non settoriale, ma trasversale a tutti i settori.
Tali considerazioni rilevano anche con riferimento al tema della gestione della fauna selvatica nella prospettiva della sostenibilità quale chiave di lettura per dettare un equilibrio tra tutela della natura, e in particolare delle sue componenti, e lo sviluppo economico che si persegue garantendo un equilibrio delle specie sul territorio in modo da non pregiudicare l’attività dell’impresa che vi opera. In tal modo, il fine potrebbe essere perseguito attraverso una costante attività di prevenzione sul territorio in modo da controllare e gestire la fauna selvatica scongiurando il suo aumento smisurato.