Ortofrutta figlia di un dio minore

di Lorenzo Frassoldati*
  • 04 December 2019

La ministra Bellanova ha annunciato per gennaio una Cabina di regia permanente per il vino presso il Ministero. “Deve diventare il luogo dove progettare il futuro di questa filiera strategica, dove vogliamo raccogliere proposte e tradurle in risultati per le aziende”, dice la ministra. Ora il vino chiude un 2019 con l’ennesimo record di export (6,4-6,5 miliardi a seconda delle stime, in Italia neppure sulle cifre ci mettiamo d’accordo). Tutti i big del settore prevedono un 2020 di crescita. I problemi però non mancano: si chiamano ‘sfida del valore’ (cioè prezzi) e semplificazione (cioè malaburocrazia, anzi burocrazia perché la burocrazia in questo Paese è quasi sempre ‘mala’). La Bellanova ha chiesto alla rappresentanza del sistema vino di decidere insieme “di indicare quali adempimenti, quali circolari, quali decreti complicano la vita delle imprese. E li dobbiamo cambiare insieme”. Bene, benissimo. Un ministro che si mette all’ascolto delle imprese per semplificare la loro vita. Che dire, straordinario!
Perché parlo del vino? Perché con l’ortofrutta condivide la leadership dell’export agroalimentare del Paese, anche se la distanza fra i due settori si allarga: il vino va avanti, l’ortofrutta indietro, fra i due comparti c’è ormai una differenza di 2,5 miliardi. E perché con il vino l’ortofrutta condivide i problemi di fondo di cui dicevo sopra: la sfida del valore e la malaburocrazia. E allora, direte, perché non si mette in piedi una Cabina di regia permanente anche per l’ortofrutta? Bella domanda, che giriamo al ministro e alle rappresentanze del settore.
Del Tavolo ortofrutta si sono perse le tracce; hanno preso il sopravvento alcuni problemi contingenti come la cimice, la crisi delle pere… poi tengono sempre banco temi come il caporalato, gli sprechi alimentari (ma qui fra un po’ il vero spreco sarà la frutta che resta sugli alberi…). Al Mise c’è già un tavolo export con la regia Ice che si dovrà coordinare, per il vino, con la prossima cabina di regia ministeriale. E si dovrà tenere conto che le deleghe per l’internazionalizzazione del made in Italy sono state attribuite al ministero degli Esteri, quindi a Di Maio, che vediamo impegnato su tanti fronti. Il vino insomma è molto ‘attenzionato’, come si dice.
L’ortofrutta al tavolo Mise-ICE non ha mai messo piede. Il tavolo al ministero agricolo ha partorito solo un impegno sul catasto frutticolo e nulla più (a proposito com’è finita? chi gestirà la nascita del catasto frutta? Anche qui porto delle nebbie). Poi anche di questo tavolo si sono perse le tracce. Perché? Per svogliatezza o perché, più semplicemente, nessuno lo ha sollecitato seriamente?
Sull’internazionalizzazione il vino non scherza, fa il 50-60% di export. Senza mercati esteri il settore andrebbe a fondo. Può contare su tavoli, cabine di regia, attenzione da parte di 3 ministeri, una fiera privata (Vinitaly) che apre succursali in mezzo mondo. A fronte di tanto attivismo, di tanto supporto (in Italia piove sempre sul bagnato) l’ortofrutta sembra davvero figlia di un dio minore.
Il settore lancia grida di allarme, gli spagnoli ce le stanno suonando di brutta, soffriamo anche per la concorrenza greca e polacca, tutti aprono nuovi mercati tranne noi, rischiamo di diventare un Paese importatore netto di ortofrutta dopo averla fatta mangiare a tutta Europa, i signori della Gdo che spiegano (bontà loro) al mondo produttivo che così non si può andare avanti. Siamo bravi, facciamo qualità, ma stiamo coltivando il nostro declino. Leggo di appelli, manifesti, raccolta di firme. Tutto bene, per carità. Ma qui c’è un problema di fondo. O il comparto, le sue rappresentanze, decidono un coordinamento, trovano una sintesi, fanno davvero squadra su alcuni punti e su quelli si fanno sentire, oppure stiamo tutti qui ad abbaiare alla luna. Quanto vale l’ortofrutta? Sette-otto miliardi solo di giro d’affari import-export, più il valore alla produzione, più tutto l’indotto (macchine, sementi, mezzi tecnici) a monte e a valle, più logistica/trasporti, più packaging/tecnologie, più la trasformazione, più l’occupazione e l’economia di intere regioni del Sud e parte del Nord. Saltano fuori una valanga di miliardi (che nessuno ha mai calcolato, però tanti). Altro che l’Alitalia. Però dentro i serbatoi della nostra sgangherata compagnia aerea la politica ha già bruciato 9 miliardi di soldi pubblici e vuole continuare a pomparne altri. Logica, buon senso, cultura economica e rispetto dei soldi dei contribuenti (le nostre tasse) vorrebbero che Alitalia fallisse. Ma questa politica preferisce che fallisca la nostra ortofrutta. E con essa i tanti territori che la producono.

*Direttore del “Corriere Ortofrutticolo”