L’economia ai tempi della pandemia: il caso Ateco

di Dario Casati
  • 22 April 2020

Non sappiamo nemmeno quante volte in questo nero avvio di primavera abbiamo sentito ripetere il concetto che tutto è cambiato e nulla potrà essere più come prima. Il concetto contiene un messaggio di speranza e di volontà di riscossa e ciò può spiegare perché abbia avuto tanta presa. Allo stesso tempo è liberatorio, nel senso che esprime la diffusa convinzione  che tutto quanto avviene abbia trovato spazio grazie alle pecche del sistema sociale e politico italiano. Nei difficili giorni in cui prevale ancora la lotta al virus e si inizia a parlare del dopo si riconosce che vi è un costume da cambiare per rendere più forte ed efficiente la nostra società in futuro, nell’ordinarietà della vita quotidiana e nella straordinarietà di eventi come l’epidemia. Non crediamo che tutto cambierà, non è necessario, né che nulla sarà più come prima: non è utile distruggere ogni cosa. Non siamo all’anno zero, ma più semplicemente al punto in cui, sotto l’incalzare di due crisi gigantesche, sanitaria e economica, bisogna por mano con urgenza, prudenza ed intelligenza al nostro sistema sociale.
Partiamo dagli strumenti usati, con colpevole frequenza, per dettare regole e comportamenti ai fini di contenere le crisi e preparare il dopo: i decreti emanati a raffica in adunate virtuali di popolo davanti ai teleschermi  come in altri tempi nelle piazze. La prima osservazione è che servono provvedimenti urgenti che devono essere diffusi tempestivamente, quindi in linea di principio c’è poco da eccepire. Quella successiva è che il tono e il modo sono viziati da almeno due limiti: il primo è il criterio di apparire in tempi sfasati fra il momento della”comunicazione” e quelli della “emanazione” e della “applicazione”. Basterebbe un solo decreto direttamente operativo con le norme che ora vengono demandate ad un nuovo decreto dopo pochi giorni, da una conferenza stampa all’altra, causando confusione e ritardi. Il secondo, più legato ai contenuti, è lo stile burocratico che li permea. L’impressione è che vi sia un irresistibile bisogno di agganciarsi alla solida e immobile potenza della burocrazia, arcigna e cieca più della giustizia, regina di regole e riti, ma anche serva di un potere che non ha capacità di prevedere e gestire e si aggrappa a complicazioni e barriere che tengono lontano il cittadino dalla burocrazia.
Così nascono l’economia e la politica dell’Ateco. La decisione di vietare/autorizzare l’esercizio delle diverse attività a partire da quelle economiche, nella confusione di un decreto tempestivo, ma non operativo perché non sa quali ragionevolmente può/vuole aprire o lasciare chiuse, viene demandata ad una entità poco nota  e inattaccabile. È misteriosa, quasi magica ed ha il privilegio di una costruzione burocratica: il codice Ateco. Di fronte ad esso, velato di esoterici significati arretrano persino i mezzi di comunicazione. Ateco è un sistema di classificazione utilizzato per catalogare ogni attività produttiva o di servizio ai soli fini statistici. Ecco il problema: l’impiego improprio di uno strumento creato e utilizzato per altri scopi.  Se per questi  il sistema può funzionare, non avviene lo stesso se si impiega per decidere la divisione fra attività essenziali e non. Ogni classificazione è una cosa morta come il museo delle cere o un erbario, non può descrivere la complessità del mondo economico, tanto meno ai nostri giorni. Il caos che si è creato per la ricaduta sul sistema agricolo-alimentare è la testimonianza più evidente. Le successive modifiche hanno chiuso alcune  falle e aperto altre e si procede così, da un decreto all’altro.
Siamo all’economia e, aggiungo, alla politica dell’Ateco che è come il “latinorum” di Don Abbondio. Un imbroglio, un ostacolo in più. Se davvero vogliamo liberare l’Italia dal peso della burocrazia occorre più creatività e minore ancoraggio alla sicurezza ottusa delle carte bollate  e delle marche da bollo in cui l’Italia è ingabbiata. Le stesse pratiche on line, tanto evocate, sono lunghe ed inefficienti perché sono solo la traduzione informatica di quelle cartacee.
La speranza che la grande crisi porti a risultati positivi poggia su soluzioni più snelle e centrate sugli obiettivi con modalità nuove e più efficienti. Ma dietro agli strumenti ci devono essere la capacità e la volontà politica di innovare, di capire e assecondare il vero imprenditore che è quello di Schumpeter, non il burocrate aggrappato alla rete di salvataggio del latinorum per conservare lo status quo, i posti di comando ed i miseri privilegi che ne derivano. La vera ripresa abita altrove.