L’ Europa oggi: scelte politiche e ruolo della PAC

di Dario Casati
  • 30 April 2025

In un contesto mondiale caratterizzato dalle conseguenze delle quattro crisi che si sono susseguite in un quinquennio e che a fatica sembravano in via di riduzione, l’irruzione nello scenario complessivo del Presidente Trump ha provocato un aggravamento subitaneo dello scenario. I suoi interventi  sul conflitto russo/ucraino e su quello fra alcuni Paesi arabi ed Israele, le conseguenze economiche della pandemia, l’inflazione successiva si sono sommate ad un evidente sfaldamento del quadro geopolitico successivo alla fine della Seconda guerra ed alla nuova “guerra” dei dazi iniziata da The Donald con ben maggior vigore di quella che aveva mosso all’inizio del precedente mandato.
Lo scenario mondiale mostra segni di difficoltà evidenti, mentre sul piano economico le prospettive sono peggiori di quelle già al ribasso di inizio 2025. Le stime elaborate al 4 aprile dal Fondo Monetario Mondiale indicano un incremento del Pil mondiale del 2,8% nel 2025 e del 3,0% nel ’26, entrambi inferiori del 3,3% rispetto alle previsioni di gennaio 2025. Il Pil cala negli Usa all’1,8% e nell’area euro allo 0,7% nel 2025 per risalire all’1,4% nel 2026, in Gran Bretagna rispettivamente all’1,7% e allo 0,9%. L’Italia vede ridursi il suo tasso di crescita allo 0,4% nel 2025, con una contrazione di 0,3 punti sulle stime precedenti e si ferma allo 0,8% nel 2026 perdendo 0,3 punti sulle stime del nostro Paese.
In questo contesto il ruolo dell’Europa viene frettolosamente giudicato insufficiente sia sul piano economico sia su quello del peso politico di fronte agli Usa e ai nuovi protagonisti “in pectore” della scena mondiale generando un diffuso scontento.
Questo assume forme generiche, di solito è diretta verso un’Europa definita in forma generica. Non si comprende se questa sorda protesta nei confronti di un’Europa intesa come continente o di quella costituita dalla Ue o, ancora, a quest’ultima ed ai Paesi a diverso titolo fortemente legati ad essa inclusa la Gran Bretagna.
Per comprendere la situazione occorre tornare all’eredità della Seconda guerra con la spartizione fra area occidentale, legata alle tre potenze occidentali vincitrici, e quella orientale legata agli altri due vincitori, cioè Russia e Cina. La ripresa europea avvenne con una forte spinta data dagli Usa con grande lungimiranza, sul piano economico con gli aiuti, erogati a vinti e vincitori con il Piano Marshall. Su quello strategico e militare con la costituzione della Nato. Nella fase di ricostruzione sei Paesi europei diedero vita il 25 marzo 1957 alle tre Comunità, la CECA per il carbone e l’acciaio nel 1951, la CEE per la costruzione di un Mercato Comune e la CEEA (Euratom) per lo sfruttamento pacifico dell’atomo. Il loro sviluppo è stato costante attraversando varie modifiche fino al Trattato di Lisbona del 2007 che le fuse in un’unica Comunità l’attuale Ue.
L’Unione europea è il più grande progetto politico che vi sia stato al mondo, quello di riunire in un’unica entità un nugolo di Stati che per decine di secoli, e sino alla fine della Seconda guerra, si erano combattuti con crescente ostinazione, violenza, perdita di vite umane, speco di risorse materiali e immateriali.
Il progetto, dopo oltre 60 anni, presenta, accanto a grandi traguardi raggiunti e superati, anche limiti che derivano dalla complessità dell’opera che si voleva realizzare in un contesto in cui altre iniziative avevano preso piede, anche se con compagini diverse di partecipanti e con obiettivi limitati.
La costruzione europea avviene in tempi necessariamente lunghi attorno all’ispirazione iniziale delle tre Comunità e nella logica che gradualmente diviene prevalente di un’area di libero scambio che possa nel tempo divenire il nocciolo di un’Unione politica. Se da un lato essa apre la strada al progetto dell’unità europea, dall’altro ne condiziona tempi e modi creando le ragioni di un equivoco difficile da chiarire. I Fondatori vedevano nel progetto comune i futuri “Stati Uniti d’Europa”, una posizione che anche dall’altra parte dell’Atlantico in genere era. Ma accanto a questa posizione vi era quella di chi puntava solo ad una grande area di libero scambio per favorire la crescita economica. Entrambe le posizioni, inoltre, erano condizionate dai problemi pratici e si scontravano con la resistenza dei Paesi aderenti a concedere spazi crescenti ad una sovranità europea superiore a quelle nazionali.
La soluzione scelta per superare questa difficoltà fu ricercata attraverso una complessa formula di ripartizione dei tipici poteri statali (legislativo, governativo, esecutivo) che conciliasse le rispettive sovranità. Fu così che nacquero il Consiglio dei ministri, formalmente Unico, costituito dai Presidenti dei Consigli Nazionali o dai Premier, nella composizione relativa alle diverse tematiche (agricolo, economico finanziario ecc.). L’esecutivo fu assegnato ad un Organismo nuovo, la Commissione europea costituita da tanti membri quanti sono gli Stati aderenti, ognuno con specifiche deleghe operative. E il Parlamento Europeo (PE) inizialmente formato da componenti designati dai Parlamenti nazionali e successivamente eletto direttamente dai singoli Paesi. Su tutto, infine, grava un vincolo “fondante”: il diritto di veto di ogni Paese aderente per i maggiori problemi, nonostante il generale auspicio, di giungere alla sua eliminazione.
Il potere legislativo è attribuito ai tre Organi e si esercita con la formula inedita del “trilogo” e cioè con una consultazione che conduca al consenso sulle delibere. Le formule garantiste dei poteri nazionali e al contempo aperte alla soluzione della prevalenza del potere dell’Unione sono all’origine della proverbiale lentezza dei processi decisionali, delle contraddizioni ed anche della rinascita dei sovranismi.
L’intreccio fra i processi decisionali e l’azione politica degli europarlamentari in patria e nel PE costituisce una miscela che allontana i cittadini e induce alla classica frase “Bruxelles ci impone”. Non è così, né lo è mai stato, anche grazie all’intreccio di poteri descritto.
Il sistema non permette decisioni difficili e rapide, ma sviluppa una burocrazia eccessiva e costosa che allontana ulteriormente i cittadini dall’Ue e dal grande progetto politico iniziale perché di fatto blocca il formarsi o l’ampliarsi di vere politiche comuni che si riducono sostanzialmente alla Pac l’unica realizzata sin dagli inizi e a quella economica e finanziaria che però si limita alla parte della monetaria con l’euro.
L’agricoltura con la PAC è stata antesignana dello sviluppo di un’integrazione più profonda del solo mercato comune perché ha costituito un passaggio, il primo, verso una nuova entità politica ed economica unica. La moneta unica come parte della politica economica e monetaria unica si è fermata molto più indietro, nonostante gli inevitabili collegamenti con le politiche nazionali.
Proprio per il suo ruolo precorritore dell’integrazione europea la PAC è stata, anche sul piano del sistema monetario comune o del mercato unico un terreno di prova della futura politica comune, ma spesso ce ne si dimentica. Ora con il suo inserimento nelle politiche di transizione ambientale ed energetica corre il rischio di essere trascinata in ambiti che non tengono conto che la PAC, oltre ad essere espressamente definita già nel Trattato di Roma, è attiva con le prime organizzazioni comuni di mercato e con le politiche strutturali dai primi anni ’60. L’impostazione data al problema nella precedente legislatura del PE trascurava la particolarità della PAC. Ora con la” Vision” elaborata dal Commissario Hansen sembra essere collocata in modo nettamente migliore e più vicino alla realtà di un settore produttivo come quello agricolo. Nei prossimi mesi, in un mondo più insicuro, sarà necessario che di tutto ciò si tenga finalmente conto.