Dialoghi sull’ Agroindustria: “L’ortofrutta da industria tra dinamiche di mercato e cambiamenti climatici”

Dialogo con Lorenzo Frassoldati, giornalista direttore del Corriere Ortofrutticolo, firma dei giornali del Gruppo QN-Quotidiano Nazionale, Accademico ordinario dei Georgofili

di Paolo Ranalli e Lorenzo Frassoldati
  • 14 May 2025

Ranalli: Nel comparto dell’agroindustria, i prezzi sono volatili (per fattori climatici, geopolitici e di mercato) e i mercati sono globalizzati, con la concorrenza internazionale che penalizza i prezzi e la redditività delle produzioni locali. Inoltre, la crescente concentrazione del potere di mercato nelle mani di pochi attori della trasformazione e della distribuzione finisce col penalizzare ulteriormente i produttori agricoli. E’ una lettura sbagliata, Dr. Frassoldati? Quali strategie si possono mettere in atto per contrastare tale situazione? 

Frassoldati: Una fase della globalizzazione, del mercatismo sfrenato, del multilateralismo è finita. Il WTO è un lontano ricordo.  Il protezionismo è il nuovo mantra dell’amministrazione USA. E’ alle porte un ciclo nuovo di scelte unilaterali dove chiaramente la nuova amministrazione USA vuole dare le carte per fare in primo luogo il proprio interesse e trovare compromessi (dopo trattative) con le altre economie. Non c’è dubbio che tutto questo apre scenari inquietanti: le guerre commerciali hanno sempre causato tensioni fra Paesi, rallentamenti dell’economia, sicuramente spinte inflazionistiche. Tutto si confonde e si mischia a causa degli scenari geopolitici in evoluzione, dove dominano disordine e imprevedibilità. L’Europa deve rivedere le proprie politiche industriali (fallimentari) e anche agricole (altrettanto fallimentari). Il disordine mondiale ha rilanciato peso, ruolo e strategicità delle produzioni agricole e agroalimentari. L’Italia è un grande paese esportatore (di food) ma anche importatore di materie prime agricole (in deficit). Per tanti motivi la nostra produzione agricola è in calo da decenni per il concomitante aggravarsi della crisi climatica, di nuove ed emergenti fitopatie, di politiche comunitarie miopi e ideologiche che hanno messo in gravi difficoltà le imprese, sottraendo redditività e produzione. E’ interesse vitale del Paese chiedere e mantenere mercati aperti perché l’export (vino, ortofrutta fresca e trasformata, pasta, formaggi, salumi) sostiene e fortifica la nostra bilancia agroalimentare, garantisce redditività alle produzioni di base e dà ulteriore valore alla nostra Dop economy. E poi, come dice il presidente Mattarella, i mercati aperti garantiscono e proteggono la pace.     

Ranalli: Limitiamo il nostro colloquio all’ortofrutta, sia da mercato fresco che da industria. Questo settore è molto vulnerabile ai capricci del clima, che possono influenzare resa e qualità della materia prima raccolta in campo. Inoltre, in certe aree, l'uso intensivo del suolo, lo smantellamento delle rotazioni colturali e l’impoverimento di sostanza organica minacciano la fertilità a lungo termine del terreno e la capacità di produrre cibo. Quali scenari si prospettano per il futuro?

Frassoldati: C’è una nuova Vision dell’agricoltura con la nuova Commissione UE e il neo commissario Hansen che vuole andare oltre le follie ambientaliste del Green deal e Farm2Fork dell’ex vicepresidente Timmermans. La nuova Vision considera gli agricoltori non parte del problema ma parte della soluzione, non impone divieti drastici oppure obiettivi ideologicamente prefissati alle imprese agricole ma cerca soluzioni consensuali che tutelino la produzione e la competitività dell’agricoltura europea e non aprano le porte indiscriminatamente all’import da paesi terzi. Restano gli obiettivi legati alla transizione ecologica, alla lotta all’inquinamento e alla difesa della salute delle persone, ma vanno calibrati e messi in equilibrio con la difesa della produzione europea. La sostenibilità ambientale deve andare di pari passo con quella economica e sociale.

Ranalli: In molte aree si registra una mancanza di lavoratori agricoli. Tale carenza spingerebbe ad una agricoltura di precisione, meccanizzata e digitalizzata (impiego di sensori, droni, satelliti, robotica e intelligenza artificiale). Però l’agricoltura italiana è formata dal 45% di aziende meno di 2 ettari, dal 50% di imprenditori con età superiore a 60 anni e di essi solo il 6% ha un diploma universitario. In tali contesti, si può immaginare un facile approdo dell’Agroindustria 4.0?

Frassoldati: No, non è facile l’approdo all’Agroindustria 4.0 proprio a causa della frammentazione della proprietà agricola in Italia e del ‘digital divide’ tra zone del Nord e del Sud. Tuttavia negli ultimi anni l’agricoltura 4.0 ha continuato a crescere, e oggi sfiora i 2 miliardi di euro (nel 2017 faticava ad arrivare a quota 100 milioni di euro). In parallelo, è cresciuta la superficie coltivata con strumenti 4.0 da parte delle aziende agricole. L’agricoltura 4.0 è caratterizzata dall’uso di nuove tecnologie, algoritmi, internet, IA, robot e droni per ottimizzare il controllo, gestione e monitoraggio della terra. Comunque tecnologie e robot possono coadiuvare e rendere più efficienti le lavorazioni agricole, ma per certe produzioni (frutta, ortaggi ma anche vino) la manodopera è indispensabile e non è sostituibile. In questo senso è già allarme rosso perché la nostra agricoltura sta perdendo progressivamente manodopera. Le maestranze dell’Est Europa su cui si faceva affidamento per le grandi raccolte ora preferiscono i paesi del Nord Europa. I lavoratori africani, magari immigrati, possono essere una risorsa ma bisogna insegnare loro il mestiere tra mille difficoltà di ordine culturale e ambientale. Servono nuove politiche regolatorie dell’immigrazione da parte del legislatore e tavoli di discussione tra datori di lavoro e sindacati dove affrontare il problema senza pregiudizi, anche per lasciarsi alle spalle il problema – purtroppo ancora troppo presente – del lavoro agricolo illegale e sottopagato. 

Ranalli: I consumatori sono sempre più attenti alla qualità, alla sicurezza alimentare e richiedono maggiore trasparenza. Molti percepiscono i prodotti biologici come più gustosi e con un sapore più autentico, anche se non è sempre vero! Però i prodotti biologici al supermercato costano dal 30 al 40% in più rispetto a quelli convenzionali. Allora mi chiedo, i cibi biologici sono d’élite o alla portata di tutti? Il principale motivo di questo gap è la mancanza, in molti casi, di varietà adatte a questo segmento produttivo. Che ne pensa lei?  

Frassoldati: Il Green deal con l’appendice Farm2Fork avevano individuato nel ricorso al biologico la soluzione di tutti i problemi legati alla transizione ecologica. Tuttavia i fatti stanno dimostrando che di solo biologico una grande economia agricola come quella italiana non può vivere, per una questione di rese e di terreni idonei disponibili. Il mercato del bio in Italia cresce anno dopo anno, però i consumi nazionali di bio non vanno oltre il 3% del totale dei consumi alimentari nella GDO, anche per una questione di prezzi. Oggi il food bio non è alla portata di tutti. Bisogna comunque ricordare che l’Italia è un paese pioniere della lotta integrata (a basso impatto di chimica) ampiamente utilizzata per vino, olio e ortofrutta. E lo dimostrano ogni anno i dati dell’EFSA: nel nostro Paese il 99,5% dei prodotti risultano a norma, con il 65,6% che non presenta residui rilevabili. Il bio insomma può e deve coesistere con una produzione ‘convenzionale’ rispettosa della salute dei consumatori e dell’ambiente. 

Ranalli: Penso che si debba dare maggiore impulso alle ricerche sul rinnovo varietale nell’Agroindustria, prima di tutto per ottenere cultivar resistenti/resilienti agli eventi climatici estremi ed ai nuovi parassiti che migrano nel nostro Paese, Nello stesso tempo, occorre migliorare la qualità e la shelf-life delle produzioni in campo per adeguarle alle mutate esigenze dei consumatori e dell’industria. E’ sentita questa necessità?

Frassoldati: Le TEA, le nuove tecniche genomiche, finalmente sdoganate dall’Europa, sono la grande prospettiva. Le Tea possono rappresentare il futuro dell’agricoltura e bisogna avere fiducia nella ricerca che ha sempre assecondato e sostenuto la crescita dell’agricoltura moderna dall’800 in poi. Purtroppo c’è una vena di oscurantismo anti-scientifico contro le TEA cui non si deve lasciare spazio.
Le TEA agevolano mutazioni che avvengono spontaneamente in natura e così si ottengono varietà più resistenti alle patologie e alla siccità, più produttive e più sostenibili. Produttività, competitività e sostenibilità sono le priorità dell’agricoltura europea e per conseguirle scienza e ricerca sono strumenti insostituibili se vogliamo vincere la sfida della sicurezza alimentare, del contrasto al climate change,
Bisogna dare il via ad una nuova stagione di investimenti in ricerca e sperimentazione per ridurre la dipendenza dall’estero e dare nuove prospettive di reddito alle imprese agricole. La transizione ecologica ed energetica non va caricata solo sulle spalle delle imprese agricole, di questo Bruxelles si deve rendere conto. Poi serve una campagna istituzionale per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di questi strumenti e la costituzione di una rete di centri di ricerca pubblica e privata per moltiplicare gli sforzi del progresso scientifico, come chiesto da un manifesto firmato da tutto il mondo agricolo e cooperativo italiano nel gennaio 2025. 

Ranalli: L'agroindustria genera grandi quantità di rifiuti organici e non, la cui gestione sostenibile è una sfida cruciale. La ricerca di materiali di imballaggio biodegradabili, compostabili o riciclabili per ridurre l'impatto ambientale del confezionamento può fornire un contributo. Sarebbe importante intensificare le ricerche di approcci nuovi per la valorizzazione dei sottoprodotti e dei rifiuti trasformandoli in nuove risorse. A che punto siamo in questo ambito?

Frassoldati: Il dossier imballaggi impatta in maniera diretta sul mondo produttivo dell’ortofrutta. Si pensi a prodotti come i pomodori, i pomodorini, le fragole, le ciliegie, i frutti di bosco, l’uva da tavola. Prodotti di larghissimo consumo per i quali l’imballo in plastica garantisce protezione e conservazione e non dispone - al momento -di alternative valide. A Bruxelles si sta giocando una partita delicatissima. Il PPWR (Packaging and Packaging Waste Regulation), nonostante le proteste dei paesi mediterranei (Italia e Spagna in prima linea) è entrato in vigore nel mese di febbraio 2024. Il nuovo regolamento sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio prevede l’utilizzo degli imballi di plastica per l’ortofrutta solo alle confezioni superiori a 1,5 kg di peso. Si colpisce così direttamente un settore che rappresenta solamente l’1,5% del totale del packaging utilizzato nell’agroalimentare e solamente lo 0,7% di quello totale (stime Fruitimprese). Senza contare il danno per le imprese produttrici degli imballi che vede l’Italia tra i leader europei del settore. A partire dal 2030 la misura sarà legge. In seno a Freshfel si sta creando una lista unica di deroghe da portare ai decisori politici. Si attendono le linee guida da parte della Commissione UE entro il 2027. C’è il rischio concreto che ogni paese adotti liste di esenzione differenti, creando barriere commerciali e distorsioni all’interno della stessa UE. Le nostre imprese esportatrici sarebbero costrette a cambiare tipo di imballo in base al paese di destinazione: un incubo contro cui si chiede alla politica di intervenire con decisione. Magari coinvolgendo le catene della GDO, altrettanto preoccupate dalle conseguenze del PPWR sui consumi.