Un confuso declino della nostra olivicoltura

di Franco Scaramuzzi
  • 19 July 2017
Da troppo tempo si parla di crisi della nostra eterogenea olivicoltura e si continua a indicare varie plausibili cause (cambiamenti climatici, attacchi parassitari, ecc.), ma si tace sulla crescente carenza di cure colturali adeguate.
Il “Trattato di olivicoltura” di Alessandro Morettini (1950) illustrò le nuove conoscenze sulle peculiarità dell’olivo, definendolo come pianta particolarmente generosa, se ben trattata. Fu introdotta nella nostra Penisola, in epoche diverse, in zone differenti, con piante geneticamente eterogenee. Furono apprezzate per la longevità, la resistenza ambientale e la capacità di produrre anche su terreni aridi e poveri. Morettini evidenziò come l’olivo ripaghi ogni cura colturale (compresa l’irrigazione), fornendo produzioni più alte e di migliore qualità. Su questa base, nacque in Italia una nuova olivicoltura “specializzata e intensiva”, con sesti di impianto più stretti. Questi oliveti già a tre anni dall’impianto sono in grado di produrre un raccolto significativo per m2, mentre il tradizionale proverbio contadino, insegnava che “gli olivi si piantano per i figli”, giacché iniziavano a produrre tali quantità solo dopo una decina di anni dall’impianto. Nel passato accadeva che, quando il mercato dell’olio non era sufficientemente remunerativo, gli agricoltori non tardavano ad abbattere gli olivi e cambiare coltura. Si verificavano quindi riduzioni prolungate della produzione olearia nazionale. Questo fu il motivo per cui venne varata una legge che impediva l’abbattimento degli olivi. Passate poi le competenze in materia agricola alle Regioni, fu confermata la legge, cambiandone semplicisticamente la ormai superata motivazione originale, sostituendola con l’assurdo obiettivo di “conservare il paesaggio agricolo esistente”. A questo però si trasgredì di fatto, concedendo autorizzazioni ad abbattere olivi, ma solo impegnando gli agricoltori a piantarne altrove un uguale numero. Molti hanno preferito abbandonare a loro stessi gli olivi costosi e poco remunerativi, lasciando sviluppare le vegetazioni spontanee, fino a creare un insieme boschivo e accrescere la nostra superfice forestale. Altri agricoltori, pur sostenuti da finanziamenti pubblici, hanno ridotto le cure colturali per abbassare i costi di produzione.
Una “Breve storia dell’olivicoltura”, autorevolmente scritta e pubblicata dal prof. Angelo Godini (su “Oleofficina” del 13 giugno scorso), offre un quadro dell’attuale situazione nazionale, con una esplicita indicazione degli errori commessi anche da Bruxelles nell’erogare sussidi, mettendo sullo stesso piano tutti gli olivicoltori e applicando criteri di “disaccoppiamento” e di “condizionalità”, che avrebbero spinto il progressivo declino delle cure colturali, accompagnato da un coro di “chi me lo fa fare?”, soprattutto da parte di chi possiede un oliveto, anche se piccolo, ma che svolge altrove attività diverse, godendo di propri stipendi esterni (mantenendo il titolo di coltivatore), nonché di chi fa i conti e scopre che gli conviene ridurre al minimo le cure, accontentandosi poi di un prodotto modesto che, unito ai sussidi, possa coprirei i costi e fornire anche un pur modesto reddito. Il chiaro scritto di Godini merita di essere letto, anche perché esprime ciò che ha ritenuto possa essere passato nella mente di coloro che hanno portato alla precarietà di tanti oliveti che non mascherano le loro sofferenze, che chiunque può constatarle con i propri occhi. 
Ho voluto limitarmi a parlare di olivi, senza entrare nel merito dell’olio e del suo commercio. Richiamo l’attenzione, ad esempio, sulla tendenza che va diffondendosi, a potare “capitozzando” grosse branche con motoseghe e a distanza di alcuni anni. I costi si riducono, ma aumenta l’alternanza di produzione. I grossi tagli, inoltre, favoriscono l’insorgere della patologica marcescenza del legno. Sembra dimenticata l’operazione della “slupatura”, attuata da secoli. Gli olivi infatti sono sempre stati soggetti a marcescenza dei tessuti centrali delle branche e del tronco, fino al colletto. Le cause possono essere varie, ma il processo di marcescenza produce sostanze tossiche che entrano nella linfa della pianta. Anche la chioma manifesta sintomi crescenti di sofferenza, con ingiallimento e caduta delle foglie. Ricordo bene i contadini che “slupavano”. Dopo aver bussato in punti diversi del tronco, per individuare dove iniziare la “fessurazione chirurgica”. Allargavano con uno squarcio per asportare tutto ciò che era marcio, raschiando le pareti interne e disinfettandole. Per questa operazione sono stati usati appositi strumenti (con nomi quale: “malimpeggio”), molto spesso artigianali. Oggi credo che nessuno attui sistematicamente la slupatura. Si pensa forse che questa patologia non esista più, ma in realtà si tratta sempre e soltanto di rinuncia per i costi, giacché la slupatura di un solo albero, di medie dimensioni, richiederebbe una giornata di lavoro di un operaio esperto.
Stiamo così perdendo olivi produttivi, ornamentali e paesaggistici che siano. Bisogna quindi ritornare a curarli razionalmente. Non essendo risultati utili i sussidi condizionanti e non eterni, bisognerà usare i fondi disponibili per offrire sostegni finanziari alle vere imprese agricole, razionali produttrici di olive, che conoscono il da farsi, forse meglio di gran parte dei funzionari dopo che sono stati improvvidamente sciolti gli efficienti ispettorati agrari. 
Sulla base di singoli progetti, le imprese (piccole o grandi che siano) potrebbero essere finanziate per applicare liberamente le loro idee e sperimentare soluzioni valide. I risultati delle multiple iniziative così realizzate farebbero da guida nel futuro, come è sempre avvenuto nella storia dell’agricoltura. Non si può comunque rimanere ulteriormente indifferenti ed inerti di fronte ad una statica realtà palesemente negativa.

Foto di apertura: Olivo slupato e poi scalzato per osservare il comportamento delle radici (fototeca Georgofili) 


Foto 2: Uso del “malimpeggio” per slupare un olivo (foto di Aleandro Ottanelli)