La difficile via per nutrire correttamente l’umanità, salvaguardando il pianeta.

di Giuseppe Bertoni
  • 05 December 2018
Il problema “nutrire la popolazione crescente e salvaguardare il pianeta” non è nuovo, neppure fra i miei interessi, per almeno due ragioni: la prima è che sono consapevole di come lo sviluppo integrale debba riguardare tutto l’uomo, ma anche tutti gli uomini (di ogni dove) compresi quelli del futuro; la seconda è che da zootecnico mi sono sentito “concausa della perdita di efficienza di molti alimenti, se destinati agli animali e non direttamente all’uomo”. Senza entrare in troppi dettagli, l’idea che mi sono fatto – su basi scientifiche che reputo sufficienti e di cui scrivo da anni – è che i prodotti di origine animale sono indispensabili per evitare problemi di malnutrizione (specie nei Paesi poveri), tuttavia è opportuno ridurli al minor livello possibile per evitare talune inefficienze e il non necessario ricorso agli animali.
Con questa premessa, si potrebbe dedurre che condivida l’accoglienza entusiastica del Prof. Amedeo Alpi per il lavoro pubblicato su “Elementa. Science of the Anthopocene” da parte di di un gruppo di ricercatori dell’Università di Lancaster, UK (Berners-Lee M. et al., 2018. Current global food production is sufficient to meet human nutritional needs in 2050 provided there is radical societal adaptation). V. http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=9044
 
In realtà la mia posizione è ben diversa, ma non perché il loro argomentare sia per principio errato, bensì perché il predetto lavoro è frutto di una serie di semplificazioni che tendono a falsare il risultato e soprattutto la prospettiva.
In particolare:
-    nel momento in cui si parla di fabbisogni proteici pari a 0,75 g/kg di peso vivo, in teoria corretto per non provocare carenza, in realtà non si tiene conto della qualità aminoacidica e in particolare del fatto che questo valore minimo presuppone un buon bilanciamento fra proteine vegetali e animali (circostanza ben nota ai nutrizionisti). Allo stato attuale, queste ultime circostanze valgono solo per una parte e non certo maggioritaria della popolazione mondiale; inoltre, seguendo i suggerimenti del lavoro, il problema potrebbe amplificarsi. Pertanto sarebbe logico, almeno per prudenza, utilizzare fabbisogni ben superiori, che in realtà si deducono anche dalla stessa British Nutrition Foundation, citata nel lavoro, che in una tabella riporta i DRVs (Dietary Reference Values): 2000 kcal/die per l’energia di cui 50 % da carboidrati, non oltre 35 % da lipidi, mentre non si riportano le proteine; poiché l’alcool è sconsigliato, a rigor di logica, il restante 15 % dovrebbe essere rappresentato dalle proteine. In effetti, anche altrove si suggerisce che l’energia da proteine non dovrebbe scendere sotto al 10 % delle calorie, con preferenza per il 15 %; se dunque il fabbisogno energetico è intorno alle 2000 Kcal, le proteine dovrebbero fornire circa 300 kcal, quindi 75 g/die (valore che non è più così lontano dagli 81 g calcolati dai predetti autori come ingestione media giornaliera);
-    argomento analogo potrebbe essere introdotto per alcuni micro-nutrienti, in particolare per il ferro per il quale è semplicemente fuori luogo equiparare la fonte vegetale con quella animale (carne), ma non tedierò oltre il lettore;
-    con una qualche sorpresa ho poi constatato che vengono inserite fra le perdite (di energia, proteine ecc.) le quote non utilizzabili di erbe varie e sottoprodotti fibrosi, mentre in realtà si dovrebbe parlare di un guadagno, di quanto reso disponibile, in quanto derivante da materiali altrimenti inutilizzabili dall’uomo;
-    pure sorprendente la circostanza che non si sia tentata alcuna differenziazione fra paesi dove si pratica un’agricoltura di sussistenza (circa 1/3 della popolazione mondiale e delle terre coltivate), rispetto a quella più o meno intensiva; la prima si caratterizza  per l’esiguità dei prodotti animali – da cui malnutrizione – ma anche perché, in prospettiva, si può pensare ad un aumento della loro produttività senza i rischi ambientali dei Paesi dove è già oggi intensiva;
-    noto infine che a pag. 7 (“future scenarios”) gli autori, adducendo una ragione discutibile: “future yields increases are unpredictable”, fanno una scelta che, senza mancare di rispetto, oserei definire “dello struzzo”, cioè usare i dati produttivi del 2013. Ciò anche perché, nel recente Report OECD-FAO Agricultural Outlook 2018-2028, si parla di un aumento prevedibile della produzione agricola mediamente pari al 20 % e – guarda caso - riferibile soprattutto ai Paesi meno sviluppati, grazie a una intensificazione sostenibile che – anche per gli animali – può significare differenze enormi in termini di efficienza; aspetto che, i predetti autori, neppure adombrano utilizzando al contrario i valori più penalizzanti per le produzioni animali;
-    non posso poi esimermi dal rimarcare che i quattro autori sono tutti appartenenti a     strutture universitarie di tipo sociologico e ambientale, da cui il sospetto che le loro     competenze, almeno nutrizionali e agricole, siano soltanto approssimative.

Per concludere, e a scanso di equivoci, sono ben consapevole che un cambiamento dello stile di vita della popolazione umana – che includa anche (ma non solo) una razionalizzazione della dieta – sia da ritenere necessario e, d’altra parte, non da oggi se ne parla (ad esempio nella enciclica Laudato si’); mi chiedo tuttavia quale possa essere l’utilità di elucubrazioni fatte con scarse basi scientifiche e con il rischio di semplicemente rinfocolare un’avversione pura e semplice nei confronti degli alimenti di origine animale, con effetti potenzialmente negativi per la salute umana globale (a essere sul banco degli imputati quali causa delle malattie non comunicabili, non sono più gli eccessi di grassi soltanto, ma anche di zuccheri e amidi “purificati”…di origine vegetale e con le più basse emissioni di GS).
In questo mi sento confortato dalle conclusioni di Tilman e Clark (2014): “Le soluzioni al trilemma dieta-ambiente-salute devono andare verso diete salutari, piuttosto che verso quelle in grado di minimizzare le emissioni di gas serra.” Ciò anche perché gli enormi miglioramenti nella efficienza delle produzioni animali, conseguiti negli ultimi 70-80 anni, sono destinati a ulteriore crescita con riduzione delle emissioni, se riferite all’unità di prodotto; del medesimo avviso è Mitloehner (2018) nei Proceedings of the Workshop “Sustainable diets, food, and Nutrition” apparso nei giorni scorsi su The National Academies of SCIENCES-ENGINEERING –MEDECINE. Circa il ruolo promettente delle tecnologie – in questo caso energetiche -  pare utile richiamare il Nobel Steven Chu (Avvenire del 18 Novembre 2018): “…evolvono e quindi potrebbe non essere necessario modificare radicalmente le nostre abitudini di vita per fermare i cambiamenti climatici”. Né possiamo infine trascurare che le emissioni animali sono comunque relativamente modeste (come osservato da Giulia Bartalozzi da queste pagine v. http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=10124); non dimentichiamo poi che gli erbivori selvatici – destinati a proliferare – produrrebbero analoghe emissioni, senza utilità per l’uomo.
Dunque, convengo con Giulia: parliamone, ma senza ideologie e pregiudizi, ricordando anche la salute dell’uomo.