Il carrubo, una risorsa per gli agroecosistemi mediterranei

Intervista alla Professoressa Alessandra Gentile, accademica dei Georgofili e ordinario di Arboricoltura all'Università di Catania, che ha partecipato a un seminario della SOI sul tema “Innovazione nell’arboricoltura da frutto e nuovi scenari meridionali”, parlando a proposito di valorizzazione del carrubo.

di Giulia Bartalozzi
  • 04 May 2022

Nella sfida ai cambiamenti climatici emergono le potenzialità di specie minori, sottoutilizzate rispetto ad altre, ma particolarmente interessanti per caratteristiche di rusticità, resistenza alla siccità e quindi capaci di valorizzare le aree meridionali dell’Italia. In che senso il carrubo fa parte di queste piante?
Il carrubo rappresenta un fruttifero minore che sta facendo registrare negli ultimi anni un rinnovato interesse per l’utilizzo dei prodotti derivati dal seme nell’industria agroalimentare. Inoltre riscuote crescente interesse per le caratteristiche di resistenza e adattamento a condizioni pedoclimatiche marginali. La specie, sebbene sia una leguminosa, non è in grado di fissare l’azoto atmosferico come erroneamente ritenuto in passato ma manifesta livelli molto elevati di utilizzo dell’azoto grazie all’elevato tasso di fotosintesi a carico delle foglie più giovani. Anche con riferimento all’utilizzo dell’acqua, il carrubo si caratterizza per una fisiologia contrassegnata da meccanismi di adattamento agli stress idrici sia attraverso la riduzione delle richieste evapotraspirative che per le caratteristiche dell’apparato radicale. Questo, anche a causa della propagazione per seme, tipica della specie, è in grado di esplorare il suolo in profondità e, pertanto, di ricercare acqua anche in strati meno superficiali.

Il carrubo è grande protagonista dei paesaggi assolati della Sicilia, un personaggio del Verga ne I Malavoglia era proprio la "Mangiacarrubbe", che potenzialità ha questa pianta nella filiera agroalimentare moderna?
Le carrube hanno rappresentato nei tempi passati una fonte di zuccheri e, pertanto, di energia, per le popolazioni dell’area mediterranea, soprattutto in periodi di ridotta disponibilità di altre fonti. Si mangiavano le carrube di cui si utilizzava la polpa, ricca appunto di zuccheri, e si scartavano i semi. Oggi, la polpa viene impiegata quasi esclusivamente per l’alimentazione del bestiame mentre l’interesse principale è rivolto all’endosperma del seme, ricco in galattomannani. La farina che si estrae, nota con il nome Locust Bean Gum (LBG), è molto apprezzata nell’industria alimentare per le sue caratteristiche di addensante, emulsionante, stabilizzante e gelificante naturale.
Questo cambio di interesse nei confronti delle parti del frutto, ha determinato anche una modifica delle caratteristiche da ricercare nelle attività di selezione nei Paesi che si occupano di miglioramento genetico della specie. Infatti, mentre nel passato si ricercavano individui in cui ci fosse un alto rapporto polpa/seme, oggi l’attenzione è rivolta a semenzali dotati di una alta resa in seme a discapito della resa in polpa. Nel recente passato è stata ad esempio individuata una selezione, nel territorio principalmente interessato alla coltivazione del carrubo in Italia, nel sud-est della Sicilia, con una alta resa in seme, denominata “Ibla”.
Tuttavia, bisogna anche sottolineare che per la specie non esiste una filiera vivaistica e la realizzazione di nuovi impianti prevede l’utilizzo di semenzali che vengono successivamente innestati direttamente in campo con varietà reperite in loco. 

Oltre alla Sicilia, la coltivazione del carrubo potrebbe estendersi ad altre zone del Meridione d'Italia o del bacino del Mediterraneo?
Il carrubo può rappresentare una risorsa per gli agroecosistemi mediterranei. La specie è attualmente principalmente diffusa in Spagna, Portogallo, Grecia, Marocco e Italia. E in ognuno di questi Paesi è presente un ricco patrimonio di biodiversità che si è costituito grazie alle caratteristiche di semi naturalità della specie ed alla eteroimpollinazione per la peculiare biologia fiorale del carrubo. Buona parte di questo patrimonio è stato di recente oggetto di studio e di caratterizzazione molecolare anche con il contributo dei ricercatori dell’Università di Catania nell’ambito di alcuni progetti internazionali (Di Guardo et al., 2019; La Malfa et al., 2014).
A livello italiano, a mio avviso, anche in considerazione del cambiamento climatico in atto, diverse potrebbero essere le zone di nuovo o di re-insediamento del carrubo e tra queste certamente la Puglia nel cui territorio era presente la cultivar “Amele di Bari” caratterizzata da un elevato contenuto in zucchero, aspetto questo di interesse nel passato. Oggi questa varietà è mantenuta, come il resto dell’ampio patrimonio varietale nazionale e internazionale, dagli stessi agricoltori ma è soggetta ad un progressivo e intenso processo di erosione genetica. Certamente affinché si possa estendere la coltivazione di questa specie a fini produttivi è necessario che si sviluppi anche la filiera di produzione di piante innestate da utilizzare per i nuovi impianti.  

Pianta resistente alla siccità, abbiamo detto, ma ci sono patogeni dei quali è vittima e come può essere protetta? A che punto è la ricerca a proposito?
Le tradizionali malattie fungine, quali oidio e cercospora, generalmente non destano particolari preoccupazioni e vengono controllate solo in caso di riduzioni importanti della funzionalità della chioma. Recentemente, in alcuni territori della Sicilia, e più in particolare nel ragusano, è stata riscontrata la presenza dello scolitide Xylosandrus compactus, che rappresenta una vera emergenza. Tale parassita arreca danni diretti e indiretti sia perché scava gallerie nei tessuti debilitando la pianta sia perché trasferisce all’interno dei tessuti in cui si insedia funghi patogeni che determinano gravi defogliazioni e avvizzimenti. Il dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente dell’Università di Catania, ha in corso da alcuni anni una attività di ricerca finalizzata alla valutazione delle diverse varietà di carrubo e i dati preliminari dimostrano che la biodiversità può venire in soccorso anche di questa emergenza, poiché alcune varietà mostrano una minore suscettibilità all’attacco di questo parassita.