L’innovazione dei poveri: un altro punto di vista

di Giuseppe Bertoni
  • 07 July 2011
Il Prof. Segrè ha avuto recentemente il merito di richiamare vie innovative per innescare lo sviluppo agricolo nei paesi poveri. Non mi pare tuttavia necessario citare Lester Brown, sulle cui doti profetiche – dopo 30 anni e più di previsioni poco azzeccate – per far rilevare che le “low-income farm families” (circa 2,5 miliardi di persone) potrebbero diventare le protagoniste dello sviluppo nei loro poveri paesi. Infatti, il 13 giugno u.s., anche la FAO ha prospettato qualcosa di simile con il documento “Save and grow”.
La differenza sostanziale sta nel come: la FAO aggiunge infatti 7 “strumenti”, indispensabili per il conseguimento dell’obiettivo, che qui riporto in sintesi:
1.    per rispondere alla crescita della popolazione mondiale (e delle sue esigenze) non vi sono alternative: intensificare la produzione – con buona pace dei sostenitori del biologico – purché al tempo stesso si riduca l’impatto sull’ambiente;
2.    ciò implica anzitutto un impegno per insegnare ai contadini, caso per caso, come utilizzare al meglio le risorse locali di piante ed animali ricorrendo alle conoscenze dell’agricoltura conservativa, nonché di uso razionale dei suoli, dell’acqua, di nuove varietà, di mezzi di difesa ecc.;
3.    il suolo deve riacquistare una buona dotazione di sostanza organica con meno lavorazioni, opportune successioni colturali e ricorso intelligente ai concimi chimici;
4.    il miglioramento genetico, che ha avuto un ruolo assai importante nell’aumento delle produzioni agricole degli ultimi 50-100 anni, deve tornare centrale (anche con gli OGM, aggiungo io), pur badando a conservare la biodiversità;
5.    in un contesto di sempre maggiore competizione per l’acqua, l’agricoltura non può farne a meno, ma deve razionalizzare l’uso di quella disponibile – anche grazie a nuove varietà –senza contaminare quella destinata ad altri usi;
6.    la protezione delle piante (ma anche degli animali … dico io), rende indispensabile l’uso di fitofarmaci, ma in misura che sia compatibile con la salubrità degli alimenti e con l’ambiente. Utili allo scopo le pratiche basate su varietà resistenti (anche OGM, aggiungo io), sui sistemi naturali di lotta, sulle rotazioni ecc.;
7.    perché quanto sopra si possa avverare, è necessario che l’agricoltura sia economicamente conveniente (agendo anche su prezzi, sussidi ecc., purché legati a meccanismi di condizionalità che stimolino i contadini a seguire le buone pratiche). Non meno importanti sono tuttavia varie forme di investimento, specie finalizzate a fornire i contadini di adeguate tecnologie e conoscenze.

All’apparenza potrebbe sembrare che ciò sia molto vicino a quanto suggerito dal Worldwatch Institute, ma non credo proprio sia così. Da una sintesi del documento 2011 di quest’ultimo, che ho potuto visionare, mi risulta prevalga in esso la logica ambientalista:
-    il sistema agricolo dei paesi industrializzati ha avuto per lo più conseguenze dannose (e se non ci fosse?);
-    le fonti fossili di energia per la lavorazione dei campi hanno un forte impatto ambientale al pari di pesticidi, concimi ecc. per non parlare poi dell’allevamento animale (e se non ci fossero?);
-    sono da preferire specie e varietà locali perché più resistenti a molte avversità ecc. (non sempre).

Mi fermo qui, ma pare sufficiente per dire che i punti di vista di Worldwatch Institute e FAO, per ottenere lo stesso obiettivo, sono ben diversi ed io – pur con qualche riserva – sono per la FAO il cui pensiero si può sintetizzare in questa frase del Dr. Diouf: “Sustainable intensification means a productive agriculture that conserves and enhances natural resources”; valida sia nei paesi poveri che in quelli sviluppati. Non sarà facile, ma credo trattarsi della sola via percorribile.
La punta di bonaria polemica nei confronti del Prof. Segrè la riservo alla conclusione; premesso che non basta il denaro per far sviluppare le piccole aziende (ma essenziali – come sostiene anche la FAO – sono formazione e tecnologie appropriate che il solo denaro non garantisce), perché recuperare fondi togliendo gli investimenti agli allevamenti USA ed alla soia brasiliana (l’obiettivo è sempre la zootecnia …!) che portano ad alimenti essenziali, se nella giusta misura? Togliamoli invece alla viticultura californiana e cilena, visto che il vino non è più un alimento!
Ovviamente è una provocazione, ma … almeno lo dichiaro!

(foto: www.ilfattoalimentare.it)