Perché i nostri boschi bruciano?

di Alessandro Bozzini
  • 21 June 2017
Introduzione
Durante il periodo estivo di ogni anno non passa giorno senza che televisione, radio,  giornali e settimanali non riportino notizie di incendi boschivi un po' in tutto il Paese.  A dire il vero riportano notizie anche su grandi incendi in vari altri Paesi, specie mediterranei: Portogallo, Spagna, Francia Grecia ecc.,  a causa dell'andamento stagionale estivo che ha caratterizzato questi ultimi anni.
Spesso vengono additati come responsabili un gran numero di piromani, veri e propri "ecodelinquenti". Certo non a sproposito, in quanto i fenomeni di autocombustione, cioè incendi dovuti a cause naturali,  sono fenomeni abbastanza rari. Quindi, a ragione, sono state invocate ed attuate misure severe, a livello di repressione, per quanti venissero identificati come piromani.
Vorremmo però, in questa sede, cercare di individuare anche le varie cause più profonde di questo fenomeno, non solo lamentarne gli effetti nefasti e quindi anche proporre alcune contromisure.
 
Varie Motivazioni  
Basta andare indietro di pochi decenni per constatare come allora il fenomeno non fosse così diffuso nelle nostre aree  rurali. Questa constatazione ci aiuta ad individuare una prima  concausa, a nostro parere essenziale, dell'attuale fenomeno: l'abbandono di zone molto ampie, quasi sempre marginali, collinose e montane da parte di agricoltori e  pastori anche temporaneamente residenti.
Si parla di circa 6 milioni di ettari marginali non più coltivati od almeno non più controllati direttamente dalla gente dei campi e dai pastori.  L'abbandono di fatto di queste aree, sia per quanto riguarda  coltivazioni per produzioni vegetali che per il loro uso come prato o pascolo per le produzioni animali, ha permesso la crescita selvaggia ed incontrollata di piante infestanti, specialmente erbacee annuali, ma anche arbustive, facile esca per il fuoco durante le secche e ventose estati di vaste aree del nostro Paese. Infatti, fino a qualche decennio fa, boschi cedui ed alberi in genere erano una preziosa, curata ed economica fonte di energia per cucinare e per il riscaldamento domestico invernale di città e campagne, oggi sostituiti  dai combustibili fossili, di ben più facile gestione. La popolazione rurale  si approvvigionava nel bosco, ne sorvegliava attentamente il destino e ne vendeva i prodotti ai cittadini. Inoltre, proprio per controllare  la  diffusione di eventuali incendi,  si operavano le "cesse", dal latino caedere, cioè tagliare, si rasava cioè al livello del suolo la vegetazione su strisce larghe 5-10 metri (a seconda della giacitura e del tipo di vegetazione) separando in scacchieri le zone boscate. Oggi è molto difficile vederne qualcuna, anche a causa dei costi, in quanto non è facile farle a macchina.  
Nel passato, quasi tutti gli agricoltori proprietari anche di zone marginali boschive, allevavano capi di bestiame (bovini, pecore, capre ed anche asini o cavalli) che in primavera ed inizio  estate venivano fatti pascolare nei cedui e nelle zone marginali, spesso assai coperte di vegetazione, utilizzando così la biomassa vegetale che poteva successivamente essere facile esca per il fuoco. Oggi, con poche eccezioni, la maggior parte degli animali sono allevati in  gran numero in  vere e proprie "biofabbriche" e mai nella loro vita vedono un pascolo!  Di persona ho constatato come in varie parti del Mediterraneo, bovini, ovini e capre, utilizzati opportunamente e razionalmente, rappresentano veri e propri "pompieri rurali" specialmente nelle  aree della macchia mediterranea litorali e nelle zone pedemontane.
Negli ultimi 10 anni non ho mai visto un incendio di medie o grandi proporzioni svilupparsi nei monti della Tolfa (situati a circa 60 km a nord di Roma, nell'entroterra di Civitavecchia). Tutta la zona, infatti, è sistematicamente pascolata con vacche maremmane (e qualche equino) che utilizzano la vegetazione più bassa e quindi eliminano il potenziale combustibile, rendendo vani anche eventuali tentativi di piromani. Nella zona vanno a fuoco solo aree marginali isolate, più o meno abbandonate o poco accessibili (scarpate di strade, di ferrovie  ecc.).
Tradizionalmente, inoltre, venivano sistematicamente incendiate da pastori aree pascolive, anche ampie e parzialmente arborate, per eliminare piante infestanti non gradite o dannose per il bestiame al pascolo brado ed anche per favorire, a fine inverno ed in primavera, lo sviluppo di specie più gradite al bestiame.  Il fenomeno è ben noto anche da noi, ad es. in Sardegna, ma viene sistematicamente usato, con le dovute precauzioni, in molti altri Paesi (Sud Africa, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Australia ecc.).  Certo da noi è una pratica poco raccomandabile, anzi da avversare in tutti i modi: gli eventuali vantaggi non sono certo equivalenti agli svantaggi, dato che il  fuoco può facilmente sfuggire al controllo e spesso in tali zone si trovano abitazioni isolate e spesso anche paesi abitati. Sempre tradizionalmente, ancora molti (troppi) agricoltori, specie del nostro  centro-sud,  bruciano in estate le stoppie dei cereali vernini dopo la trebbiatura. Pratica  raccomandata 100, o poco meno anni fa, per controllare alcuni parassiti che si annidavano nelle stoppie, ma che oggi non ha più alcun significato, in quanto questi parassiti sono controllabili con metodi meno drastici  e violenti. E gli agricoltori lo sanno.  
Ma allora perché si continua a fare? La vera ragione attuale risiede nel fatto che le arature autunnali vengono fatte in genere dappertutto con trattori dotati di ruote gommate. Queste scivolano e non hanno aderenza sulle stoppie, rallentando la velocità di lavorazione ed aumentando i consumi e quindi i costi. Molti agricoltori usano "contoterzisti" ed anche in questo caso il tempo è denaro. Abbiamo infine visto, specie in questi ultimi anni - certo con simpatia - moltiplicarsi il numero e l'estensione di Parchi e Zone protette a livello nazionale, regionale e locale in genere. L'abbandono delle aree marginali per l'agricoltura e la pastorizia e l'esodo massiccio della popolazione verso villaggi e centri urbani ha certo facilitato l'istituzione di queste “aree protette". Purtroppo, solo chi conosce a fondo la dinamica della flora spontanea sa bene che un'area abbandonata e non convenientemente curata, passa attraverso vari stadi di colonizzazione vegetale, specialmente all'inizio,  prima di arrivare allo stadio  chiamato "climax" dai botanici, cioè ad una vegetazione stabilizzata nel tempo, frutto delle specifiche condizioni pedoclimatiche locali.  
Nella fase intermedia, tra l'abbandono delle pratiche agricole ed il raggiungimento del climax, si instaurano, anche in rapida successione, molte specie infestanti erbacee, specialmente annuali, che si disseccano dopo la produzione dei semi, con produzioni spesso cospicue di biomassa, che rappresentano facile ed abbondante esca per gli incendi. Non è inoltre  da sottovalutare la presenza, specialmente in aree di qualche potenziale interesse urbanistico o turistico in genere, di interessi per spingere per una diversa utilizzazione del territorio (leggi urbanizzazione). La distruzione sistematica della vegetazione, nonostante le precise leggi in merito, viene considerata una possibilità da tentare, per facilitare una futura nuova destinazione.
Non sono ancora da trascurare  episodi legati a interessi personali di quanti vengono assunti a tempo determinato per effettuare operazioni di rimboschimento, operazioni finanziate spesso da Enti pubblici.  In menti distorte ed opportuniste la distruzione di boschi esistenti può essere un'occasione per continuare il rapporto di lavoro e quindi percepire un reddito con più continuità.

Possibili interventi utili
Quindi, in sintesi,  i vari tipi di piromani che,  per vari interessi personali o per dispetto o per sfregio o per incuria o per pura imbecillità di "adoratori del fuoco", incendiano la vegetazione, hanno gioco facile nel loro turpe obbiettivo, a causa dell'incuria e dell'abbandono che oggi regnano sovrani, specie nelle aree marginali, spesso frequentate anche da balordi, particolarmente nel periodo delle vacanze estive, il periodo più  critico per la vegetazione.
Credo che oggi si parli anche troppo di repressione (ma solo per due o tre mesi all'anno, poi tutto passa nel dimenticatoio), ma non abbastanza di prevenzione. Se vogliamo che i nostri boschi e le aree verdi non brucino, questi debbono essere curati e sorvegliati. Moltiplichiamo pure le nostre aree protette, ma ricordiamoci che se non ci sono i mezzi per curarle è troppo facile prevedere che prima o poi saranno destinate ad andare in fumo!  Se si considera quanto costa (spesso invano) tutto il sistema di controllo a posteriori degli incendi (mezzi antincendio aerei e terrestri, centrali di allarme e di coordinamento, pompieri, forestali e  spesso anche militari e volontari, 24 ore su 24, per alcuni mesi), forse si potrebbe cercare di sviluppare, da parte di Stato, Regioni, Comunità montane, Università  agrarie ed Organizzazioni non governative (ONG), una migliore, continua, più  efficace e probabilmente più economica politica  di controllo ed uso razionale del territorio, tali da ridurre la predisposizione al fuoco ed il danno diretto ed indiretto (leggi  erosione e desertificazione) che oggi continuamente subiscono i nostri territori, per  diecine di migliaia  di ettari ogni anno. Occorre studiare a fondo le cause del fenomeno, disegnare mappe delle aree in pericolo ed intervenire preventivamente, in modo coordinato, unitario e sistematico, così da rendere meno facile e semplice incendiare la nostra vegetazione ed, al tempo stesso, cercando anche una sua alternativa utilizzazione economica che renda meno oneroso il controllo, la prevenzione e la repressione