Il food nell’era di Trump

di Lorenzo Frassoldati*
  • 21 December 2016
Non c’è che dire. Fa un bell’effetto vedere sui canali televisivi e sui media generalisti la campagna promozionale di Opera sulla pera. Finalmente non la solita comunicazione all’insegna della frutta “che fa bene”. Non se ne può più. E’ da dieci anni che diciamo che frutta e verdura fanno bene e che bisogna mangiarne di più e l’unico risultato è che se ne mangia sempre meno. A qualcuno non è venuto il dubbio che questa comunicazione, ancorché finanziata coi fondi dell’Ocm, siano parole (e soldi) buttati al vento?  Cioè completamente sbagliata. Adesso finalmente si esce dal generico e si punta su un prodotto. Lo sanno anche gli studenti al primo anno di marketing che investire soldi per lanciare messaggi generici equivale a buttarli. Quante volte abbiamo detto e scritto che l’ortofrutta ha una immagine ‘sfigata’ (copyright Francesco Pugliese, cioè uno che ne capisce). Ebbene campagne come questa di Opera fanno finalmente giustizia di questa immagine opaca, depressa, tristanzuola, di prodotto che non vale niente. La politica di marca, da tutti invocata,  serve a dare valore al prodotto, quindi a remunerare il produttore , quindi a dare un futuro al made in Italy. Certo costa, bisogna investire, spesso (quando si tratta di coop, Op o consorzi) bisogna convincere i soci, cioè le imprese, cioè in ultima analisi i produttori, a mettere un po’ di soldi nella comunicazione. Perché qui tutti si lamentano che bisogna comunicare di più, poi però nessuno vuole spendere in comunicazione. Simpatico paradosso…Per fare politica di marca servono spalle robuste, bisogna crederci, insistere. Non a caso fino a poco tempo fa l’unico esempio vincente era Melinda, tant’è che oggi dal fruttivendolo le signore spesso non chiedono una mela, chiedono una Melinda. E non a caso c’è lo stesso manager che ha fatto Melinda dietro la campagna di Opera. Altro esempio vincente di politica di marca applicata al fresco è stato Almaverde Bio: anche qui intuizione felice di un manager dalle spalle robuste che ha avuto anche la fortuna di incrociare/scommettere sul boom del bio.  
Chi non ha la forza, la capacità in proprio di investire, deve cercare alleati, compagni di strada sia nel settore, sia andando a bussare alla porta della Gdo che si dice sempre pronta a partecipare a progetti di valorizzazione del made in Italy. Qualche volta millanta, qualche volta lo fa davvero. Certo che un mondo produttivo meno litigioso e più organizzato (e quindi più in grado di programmare) potrebbe condizionare di più la Gdo e sperare , se non di trattare alla pari, almeno di vivere senza il coltello alla gola. Comunque è il momento del food.  Orsero ha trovato un partner finanziario in Glenalta e, forte di un ritrovato equilibrio economico, si appresta a sbarcare in Borsa, primo gruppo dell’ortofrutta a fare il grande passo. Altri fanno alleanze strategiche come Noberasco e Besana nella frutta secca. I grandi melai del Trentino Alto Adige si sono uniti in From, per esportare meglio su mercati come India e Russia. In Romagna importanti aziende si sono unite per lanciare il marchio ‘Verdure di Romagna’ . D’altronde anche Opera è una grande alleanza tra imprese diverse per dare un futuro al prodotto pera, così come Origine Group mette insieme 9 grandi player impegnati su kiwi e pera in particolare sui mercati esteri. E finalmente qualcosa si muove anche per la nostra agrumicoltura ormai con l’acqua alla gola: c’è un piano nazionale per combattere la Tristeza che sta condannando a morte quasi due terzi degli agrumeti siciliani (ma finora perché non si è fatto niente?) e insieme sostenere il reddito dei produttori (ci sono 35mila ettari da reimpiantare). Si tratta ora di capire quanta disponibilità finanziaria ci metterà il ministero e con quali tempi. 
Come al solito noi italiani ci muoviamo sempre quando abbiamo le spalle al muro e l’acqua alla gola. Aggregazione, innovazione, politica di marca, alleanze commerciali per conquistare nuovi mercati sono le direttrici su cui è giocoforza muoversi. Ma gli altri non stanno fermi: è di pochi giorni fa la nascita in Spagna di un colosso cooperativo da più di 1 miliardo di euro e 250mila tonnellate di ortofrutta esportata. Per stare dietro ai nostri principali competitor, sembra di capire che dovremo fare ancora di più, molto di più.  Anche perché il quadro internazionale è in rapida evoluzione. L’elezione di Trump negli Usa ha rivoluzionato le carte. Le certezze di ieri sono svanite, il domani è pieno di incognite. Come spiega benissimo Antonio Felice, da un lato c’è la ragionevole speranza che la Russia riapra le sue frontiere alle nostre produzioni però sull’altro fronte un risorgente protezionismo americano potrebbe ulteriormente chiudere il mercato Usa, mandando gambe all’aria la già traballante trattativa Usa-Ue sul Ttip. Con grande gioia di tutti i neoprotezionisti e antiglobalisti di casa nostra (i vari Grillo, Salvini ecc)  , quelli che vorrebbero insieme i record dell’export e le frontiere semichiuse con dazi e tariffe. Speriamo che la novità Trump induca l’Europa a svegliarsi, a cambiare rotta, a chiudere davvero l’era dell’austerità.  Il nostro paese resta sull’orlo di una crisi di nervi, non riesce a mettersi d’accordo con se stesso. Tutta l’Europa cresce poco, ma noi non cresciamo per niente. Come mai? Forse perché ci illudiamo che la crescita possa nascere dalla spesa pubblica. Come i fatti dimostrano, una pia illusione.  


(*Lorenzo Frassoldati, accademico georgofilo, è direttore del "Corriere Ortofrutticolo". Questo è il suo editoriale del mese di novembre 2016)