Dibattito sulla transizione ecologica: piantare più alberi immaginando una loro “consapevole” risposta adattiva

La teoria della “coscienza degli alberi” non convince chi ritiene che non esistano evidenze scientifiche a tale proposito. Resta il tema della fattibilità tecnica di poter piantare 300 milioni di alberi l’anno per i prossimi 10 anni.

di Silviero Sansavini
  • 16 March 2022

Non sarà sfuggito ai Lettori più attenti che i due incontri internazionali, a Roma (G20) e Glasgow (Cop 26) nel novembre scorso, hanno partorito il disegno di piantare, nel globo, in meno di venti anni, mille miliardi di alberi, allo scopo di fermare il riscaldamento globale.
Per qualcuno è un’idea utopica, irrealizzabile, per altri un sogno che potrebbe diventare realtà. Fra i primi il prof Francesco Ferrini, dell’Università di Firenze, che ha espresso perplessità sull’ipotesi di poter realizzare un siffatto, colossale sforzo organizzativo e il timore di altri possibili e temibili rischi connessi (Ferrini et al., 2022). Fra i secondi, il prof Stefano Mancuso, della stessa Università di Firenze, che, convinto assertore della proposta, ne ha amplificato l’interesse pubblico con una serie di interventi mediatici e articoli su autorevoli quotidiani.
Per Mancuso, si tratterebbe di uno sforzo organizzativo straordinario, ma lo spazio e i suoli si troverebbero a compensazione delle superfici liberate dai 2000 miliardi di alberi (a stima, foreste comprese) abbattuti negli ultimi due secoli. I leader dei 131 Paesi rappresentati a Glasgow si sono impegnati a bloccare la deforestazione entro il 2030, dietro la promessa di ricevere aiuti finanziari per circa 20 miliardi di dollari (in parte pubblici e in parte privati). Con questa conversione ecologica si potrebbero abbassare il libello di CO2 atmosferica, aumentare la fissazione al suolo del carbonio e contrastare l’aumento delle temperature.
Ma, quasi contestualmente a questa svolta epocale, il prof Mancuso ha sviluppato anche alcune teorie sulle straordinarie proprietà degli alberi, riprendendo alcuni suoi precedenti studi sulla cosiddetta “coscienza” degli alberi, secondo un azzardato parallelismo con la natura umana (Trewavas et al. 2020; Calvo et al., 2021). Le piante, infatti, o meglio i loro apparati radicali che le rendono immobili a terra, avrebbero “imparato” a percepire gli ostacoli e quindi a “memorizzare” i pericoli, prevenendoli con proprie strategie, volte non solo alla sopravvivenza.
Questi concetti, se non eretici, certamente poco conformi all’attuale sapere scientifico, sono stati contestati da un illustre fisiologo, il prof. Amedeo Alpi, emerito dell’Università di Pisa e vicepresidente dell’Accademia dei Georgofili di Firenze. Il prof. Alpi ha confutato le tesi sulla presunta “coscienza e consapevolezza” delle piante nel mettere in atto proprie strategie difensive, non diversamente da quanto in altro modo fanno gli esseri umani, asserendo che la “biologia vegetale quale disciplina scientifica, non deve essere turbata da idee approssimate e sostanzialmente non vere.
I giovani devono essere formati nel rispetto della scienza galileiana, cioè basata sulle osservazioni sperimentali e ripetibili”. Non c’è dunque alcuna analogia comportamentale fra piante e animali quando “tutto il fascino che le piante hanno su di noi rimane inalterato anche senza una loro coscienza”.

Ma quali sono le evidenze scientifiche portate da Alpi?
1) Il mito della coscienza delle piante, ovverosia di una loro “consapevolezza” (o “intelligenza”) nel percepire variazioni ambientali, altro non è che una “risposta adattiva” alle condizioni esterne, utilizzate, da sempre, a fini evolutivi (Blatt M.R., et al., 2020);
2) non si può sostenere scientificamente l’esistenza di una “base cellulare” della coscienza. Il fatto che cellule di recettori sensoriali, sollecitate da “molecole segnale”, generino risposte cellulari, e una conseguente cascata di eventi biochimici, così come “l’apprendimento cellulare non associativo”, si spiegano con semplici meccanismi di ricezione, cioè di fenomeni di chemiotassi, ben noti. “Tutti gli organismi viventi si adattano alla volubilità dei fattori esterni tramite meccanismi fisiologici di ricezione, elaborazione e risposta agli stimoli”;
3) non è dimostrabile una presunta “equivalenza elettrochimica” tra piante e animali, teorizzata dalla “neurobiologia vegetale” (alias S. Mancuso). La trasmissione di “segnali” non può essere equiparata a “processi neurone-simili”. Si conoscono “differenze fondamentali (es. potenziali di membrana) scientificamente note a biochimica e fisiologia”;
4) un recente studio di Robinson e  Draguhn (2021) nega che le piante si avvalgano di un sistema di elaborazione delle informazioni simile al sistema nervoso degli animali. “Sinapsi e reti neuronali” sono “strutture specializzate della trasmissione e trasformazione dei segnali elettrici solo negli animali”. Il floema delle piante non è assimilabile a una rete neuronale e non può conferire funzioni comportamentali cognitive. Nelle piante la trasmissione elettrica nel floema, ad esempio, a seguito di ferita, è legata agli ioni Ca++;
5) non è verosimile l’asserzione che la conoscenza delle piante abbia sede nelle radici, considerate equivalenti al cervello umano, secondo gli scritti di Mancuso. La zona di trasmissione dell’apice radicale (meristema e zona di allungamento) è costituita da cellule immature e indifferenziate e non paragonabili ai neuroni che sono cellule mature e differenziate. “La coscienza, comunque, non sarebbe necessaria alle piante che rispondono a stimoli esterni tramite sistemi di segnalazione molecolari che coinvolgono gli ormoni, il Ca++ e altre molecole” (A. Alpi);
6) non c’è alcun rapporto fra apprendimento associativo e “coscienza delle piante”, afferma Amedeo Alpi. Le piante possono tra loro comunicare in vari modi, tramite scambio di sostanze volatili o altri segnali. Anzi, in biologia questo è un fenomeno di studi riscontrabile persino nei batteri “senza richiedere alcuna coscienza o cognizione”, ma è riferibile, piuttosto, all’evoluzione filogenetica sollecitata dagli stimoli esterni;
7) i sostenitori della “coscienza” hanno sollevato anche l’ipotesi del “naturalismo neurologico”, ma, sempre secondo Alpi, mancano nelle piante due assunti logici: la “presenza di una coscienza emotiva” e di una “immagine” che esprima la mappatura dell’ambiente in cui vivono, anche se si tratta di semplici batteri. “Nessun dato è mai stato riportato a comprovare tale ipotesi”, che rimane perciò una supposizione. “Gli studi dell’evoluzione della coscienza, aggiungono anche un’altra importante evidenza, forse non casuale, e cioè che la coscienza si possa evolvere solo negli organismi dotati di mobilità”.

In definitiva, a conclusione della presente nota, ci sembra che gli equivoci qui descritti, sulla “riscoperta” di alcune straordinarie proprietà delle piante per difendersi da fattori ambientali avversi siano in buona parte dovuti ad alcuni artifizi lessicali e linguistici del glossario scientifico utilizzato, che dovrebbe essere unico e condiviso da studiosi e ricercatori e non reinventato alla bisogna per accreditare nuove teorie interpretative sul comportamento delle piante, basate su una diversa ridefinizione terminologica di fenomeni noti.
Nel nostro caso c’è stata sicuramente una “forzatura”. Di qui le riserve e il dibattito tuttora aperto.


da: Rivista di Frutticoltura, EdAgricole, Febbraio 2, 2022.