Le sfide della viticoltura si vincono con innovazione e formazione

Intervista a Luigi Moio, georgofilo, ordinario di enologia alla Facoltà di Agraria dell’Università Federico II di Napoli, ricercatore scientifico di fama internazionale e titolare, insieme alla moglie, di un'azienda agricola in Irpinia e presidente dell’Organizzazione internazionale della vigna e del vino (OIV) a cui aderiscono 48 Stati in rappresentanza di oltre l’85% della produzione mondiale e l’80% del consumo globale di vino.

di Giulia Bartalozzi
  • 26 January 2022

Professore Moio, tra le sfide della viticoltura mondiale, il riscaldamento climatico è una delle principali perché ha impatto diretto sulla vite e sul vino. Come pensa di affrontarla l’OIV?
L’attenzione all’ambiente è una richiesta che viene da tutti i 48 stati membri. Il tema, già fa parte del piano strategico 2020-2024, ma il percorso lo abbiamo iniziato nel 2004 con la prima risoluzione sulla viticoltura sostenibile. Nello specifico, è già operativo il gruppo di esperti Enviro (Sviluppo sostenibile e cambio climatico) presieduto dal prof. Hans Schultz, presidente dell’Università Hochschule di Geisenheim, che se ne sta occupando in modo interdisciplinare (con esperti di clima, suoli, viticoltura, enologia, patologia vegetali, ecc.) per elaborare un approccio completo e coerente. L'ultima risoluzione approvata (OIV-VITI 640-2020) sui criteri e sulle metodologie di valutazione dell’impronta ambientale complessiva della produzione vitivinicola, è un primo risultato del lavoro del gruppo Enviro che fornisce a tutti gli stati membri degli strumenti comuni per analizzare e intervenire sulla propria realtà. Oggi se non coinvolgiamo in un confronto a tutto campo esperti con competenze diverse, non ne usciamo. Il futuro è questo, ma i tempi di transizione sono lunghi per questo bisogna avere le idee molto chiare e confrontarsi continuamente in modo da non commettere errori che potrebbero ancora di più allungare i tempi necessari ad operare un cambiamento radicale.

Che cosa si sta facendo in viticoltura per ottenere una produzione più sostenibile?
Un’azione prioritaria è quella di favorire la filiera vitivinicola nel percorso di innovazione dei processi di produzione, utilizzando al meglio i nuovi strumenti tecnologici e digitali. Il transito verso la digitalizzazione è fondamentale. Oltre agli aspetti produttivi legati, ad esempio, ai calcoli previsionali sul clima, per una viticoltura sempre più di precisione, la digitalizzazione è importante anche per favorire gli scambi internazionali del vino. Per fare questo bisogna condividere una visione comune del prodotto, delle sue caratteristiche e delle sue specificità in modo da rendere la concorrenza quanto più trasparente e sana possibile. Tra l'altro questa è anche una richiesta legittima dei consumatori, che sono sempre più esigenti in termini di qualità, di tutela della salute e soprattutto di informazioni sul prodotto. Inoltre, nell’ambito di una sempre più crescente sensibilità dell’opinione pubblica verso le problematiche ambientali e salutistiche, stiamo assistendo anche ad una sempre maggiore richiesta di vini dove l'intervento dell'uomo sia meno invasivo rispetto al passato. Pertanto oltre a tutte le strategie di lotta biologica in viticoltura, dove grossi passi avanti già sono stati realizzati, anche in enologia, io stesso negli ultimi anni ho introdotto il concetto di "enologia leggera", poco invasiva. Ossia una enologia “delicata” che permetta di produrre vini di elevata qualità interferendo pochissimo nei processi. Tuttavia per realizzare ciò la viticoltura deve essere realmente funzionale all'obiettivo enologico da raggiungere. Per questo l'enologo del futuro dovrà ampliare le sue competenze e dovrà sempre più interagire con l'agronomo.  Oggi i grandi passi avanti si possono fare solo se facciamo dei progressi in viticoltura: quando si impianta un vigneto bisogna davvero ricercare una perfetta sintonia tra la pianta e l’ambiente pedoclimatico oltre ad avere già le idee molto chiare sul vino che si vuole realizzare.

A proposito di sensibilità dell’opinione pubblica alle tematiche salutistiche, nel Piano UE di lotta contro il cancro, il consumo di alcol è considerato uno dei principali fattori di rischio per la salute umana. Una posizione che in qualche modo colpisce anche il vino. Come pensa debba essere affrontata la questione?
Il problema di fondo è che nel vino c'è una molecola che ovviamente è considerata pericolosa per la salute ed è l'alcol etilico. Da anni come OIV stiamo lavorando con dei programmi di formazione e di educazione nei confronti dei giovani a partire dal programma “Wine Moderation”. Chi si avvicina in modo corretto al vino, non deve cercare l'alcol che tra l’altro rappresenta solo una piccola parte, visto che l'85/87% del vino è acqua. Per fare del vino serve solo un grappolo d'uva e un processo fermentativo che può avvenire anche spontaneamente. Il vino dunque è mono-ingrediente e ha un legame diretto con la vigna d’origine, dunque con i luoghi di produzione di cui ne diventa straordinario ambasciatore. Inoltre per scegliere una bottiglia di vino da porre al centro di una tavola è necessario disporre di informazioni precise sul cibo con il quale berlo ed avviare riflessioni che coinvolgono ricordi, geografia, luoghi, profumi, gusto, varietà d’uva di origine, suoli, esposizione, annate e tante altre cose. Di conseguenza il vino può assumere il ruolo di mezzo educativo e questo suo lato pedagogico è molto interessante in quanto come prima conseguenza determina la rimozione virtuale dell’alcol dalla bevanda.  Tale peculiare aspetto del vino lo distanzia dalle altre bevande alcoliche: è un’altra cosa, ha un’altra cultura, un’altra storia. Bisogna continuare incessantemente a comunicare tutto ciò in quanto ridurre il vino ad una semplice bevanda alcolica è completamente fuorviante. Mi dica: secondo lei un vino viene scelto in base all’apporto calorico? Un’indicazione del genere di fatto mette sullo stesso piano una bottiglia di Romanée Conti con un vino qualunque, perché hanno esattamente le stesse calorie, ma non credo che il vino venga scelto su questi presupposti e che l’impatto emozionale conti nulla.

A livello internazionale ferve la discussione sulla validità o meno di pratiche agronomiche quali il biologico, biodinamico, ecc. e sul reale impatto che hanno sul vino.  Però i messaggi che arrivano sono quasi sempre contraddittori. L'OIV potrebbe aiutare a fare un po' chiarezza in materia?
La strada maestra per uscire dalla confusione di messaggi contraddittori, è il corretto confronto e una precisa informazione. Per esempio sulla problematica dei cosiddetti “vini naturali" è stata creata una task force che sta studiando i diversi aspetti del tema perché al di là della questione strettamente tecnico-scientifica, ci sono ricadute di marketing, economiche, legislative, di sicurezza alimentare, ecc. Il compito dell’OIV è di fornire una prospettiva scientifica: senza le evidenze (studi, ricerche, sperimentazione, ecc.) non è possibile concludere granché. Comunque seppur lentamente, il confronto con questo mondo è iniziato e vede coinvolti i gruppi di ricerca più importanti del mondo. La strada è senza dubbio quella della viticoltura green, del rispetto dell’ambiente, della sostenibilità. Il biologico è una risposta, che trova il riscontro nel gradimento dei consumatori, ma dobbiamo essere attenti nell’affermare che con l’utilizzo di rame e zolfo nella viticoltura biologica si vada verso un vero rispetto dell’ambiente, perché entrambe le sostanze sono dei contaminanti. Poi c’è un aspetto legato all’espressione sensoriale varietale e territoriale del vino, in particolare, il rame è un forte ossidante che modifica il quadro aromatico del vino e lo zolfo anch’esso può snaturare il profilo odoroso del vino nella direzione opposta da quella determinata dal rame. Dunque non possiamo affrontare queste problematiche senza tener conto di ciò e senza avviare programmi di ricerca scientifica ad hoc per sviluppare e definire con estrema precisione strategie di difesa rispettose dell’ambiente e realmente sostenibili.

La riforma della Pac 2021-2027, in vigore dal 2023, introduce progressivamente il cosiddetto Terzo pilastro sulla condizionalità sociale. Pensa che la viticoltura, con molti operatori stagionali, dovrà modificare il proprio approccio flessibile verso il lavoro stagionale per non perdere gli aiuti comunitari?
Il problema è  che non c’è manodopera. Io dico che il rispetto verso i lavoratori deve essere altissimo, altrimenti si rischia di avere una carenza di manodopera sempre maggiore. Accanto al rispetto imprescindibile dei lavoratori, la formazione sarà l’altro tema da approfondire, perché chi opera in vigneto deve essere altamente specializzato. Dalla potatura alla raccolta, non ci si improvvisa.

E dunque, l’importanza della formazione: in qualità di professore ordinario di Enologia e direttore della Sezione di Scienze della Vigna e del Vino dell'Università di Napoli, come vede la formazione degli enologi in Italia, anche in rapporto agli altri Paesi? E qual è oggi il ruolo dell'enologo secondo lei?
È finita l'epoca in cui nella formazione di queste figure c'era una netta distinzione tra le competenze viticole e quelle enologiche. In verità non mi è mai piaciuta la definizione "specializzato in viticoltura ed enologia" perché l'enologia deve racchiudere: il 33% di viticoltura; il 33% di tecnologia del vino e il 33% di marketing ed economia. Per l'enologo di oggi, e ovviamente del futuro, è impossibile pensare che queste tre competenze siano separate tra loro. L'enologo, quando pensa al vino che vuole fare, deve avere ben chiare le caratteristiche che deve avere il grappolo d'uva che gli serve per fare quel vino. La viticoltura deve essere funzionale alla bottiglia finale.  Ciò significa che l'enologo deve sapere quale pianta è maggiormente in sintonia con il contesto pedoclimatico in cui opera, quale clone scegliere, quale varietà può essere coltivata nel luogo prescelto adottando strategie altamente ecosostenibili.  Ritornando alla formazione in Italia, credo che a livello teorico non ci siano problemi. La qualità dei docenti è molto alta. Forse, ciò che è carente è l'aspetto applicativo, pratico, legato alle strutture (cantine di micro-vinificazione, impianti pilota, eccetera) e al personale tecnico. Quella dell'enologo infatti è una formazione estremamente professionalizzante e le attività pratiche, le cosiddette ore in campo, le esercitazioni pratiche, sono indispensabili. Comunque gli aspetti pratici possono in qualche modo essere colmati con la facilità di accesso a stage formativi che grazie ai vari programmi Erasmus possono essere realizzati anche all’estero. 

Come georgofilo, pensa che l'Accademia possa dare il suo contributo alle finalità che si prefigge l'OIV?
Certamente. Innanzi tutto perché l’Accademia dei Georgofili è un’istituzione scientifica composta da numerosi esperti in molteplici discipline, esattamente quello che serve oggi per affrontare i grandi temi nel campo della viticoltura e dell’enologia. Un costante confronto di natura scientifica e una buona divulgazione dei risultati ottenuti è ancor più fondamentale in un momento, come questo, in cui purtroppo l’opinione pubblica tende a discostarsi dalle evidenze scientifiche e questo genera una deriva pericolosa. Una solida base di scienza agrarie, assieme alle più vaste competenze interdisciplinari, sono invece la strada maestra che va percorsa per affrontare le sfide del futuro. Tutto questo si trova nell’Accademia dei Georgofili ed è per ciò che ritengo il suo ruolo indispensabile, non solo nel settore di cui si occupa la OIV.


(la foto di Luigi Moio è di Mauro Fermariello)