In compagnia di Saverio Manetti

di Lucia Bigliazzi, Luciana Bigliazzi
  • 22 July 2020

L’isolamento forzato di questi mesi sicuramente avrà pesato su ognuno di noi con incidenze diverse; vero è però che forse tutti quanti ci siamo trovati a fare i conti con la mancanza delle relazioni umane, fondamentali quali ‘trama’ e ‘ordito’ del tessuto della nostra convivenza sociale.
In compagnia di Saverio Manetti questo tempo di ‘silenzio vuoto’ è stato meno pesante e anzi avere a che fare con uno studioso del suo calibro ha contribuito in modo sostanziale a riempire gli spazi dell’isolamento e l’impegno a studiare ciò che egli compilò magistralmente a metà del ‘700, Delle specie diverse di frumento e di pane siccome della panizzazione, è stato uno stimolo e una forma di sana risposta razionale alle incertezze del momento.
Saverio Manetti, Georgofilo fondatore dell’Accademia e segretario della stessa alla morte di Ubaldo Montelatici, fu l’anima del «Magazzino Toscano» (1770 - 1777) (poi «Nuovo Magazzino Toscano», 1777-1782) che costituì per gli ambienti scientifici toscani e non, quel grande deposito privilegiato di informazioni che giungevano da ogni luogo e che sulle pagine del periodico trovarono il loro legittimo ‘stoccaggio’.
Prima voce dei Georgofili, il «Magazzino Toscano» costituisce ancora oggi una fonte storico-scientifica di grande valore e tuttavia non fu solo contenitore di argomenti storici e scientifici, bensì i suoi articoli trattarono anche della vita degli uomini nella sua variegata complessità, dall’organizzazione sociale alle usanze alimentari, le consuetudini, le tradizioni, le attività, tutte da luogo a luogo diverse e tutte assai interessanti e degne di essere divulgate.
Con questo stesso approccio Saverio Manetti aveva affrontato pochi anni prima la stesura del suo magistrale trattato Delle specie diverse di frumento e di pane … (1765) a cui egli si era accinto dopo la tragedia delle grandi carestie che avevano colpito la sua Toscana e l’intera Europa.
Un volume di poco più di 200 pagine nel quale egli ripercorre attraverso botanici quali Linneo (1707-1778), Tournefort (1656-1708) e Morison (1620-1683), lo sforzo classificatorio delle diverse specie di frumento, attingendo sempre e comunque alla sapienza e alla disciplina degli Antichi Maestri (per citarne solo alcuni: Ippocrate di Coo, Teofrasto, Galeno di Pergamo,
Claudio Eliano, Dioscoride Pedanio, Marco Terenzio Varrone, Lucio Giunio Moderato Columella,
 Marco Valerio Marziale, Decimo Giulio Giovenale, Aulo Cornelio Celso e infine naturalmente , Gaio Plinio Secondo, detto “il Vecchio” con la sua Naturalis historia, uomo per cui il sapere costituì la condizione fondamentale dell’esistenza, uomo di ‘insaziabile curiosità’ ben dimostrata dai 37 volumi che compongono la sua opera più nota).    
Identica ‘insaziabile curiosità’ caratterizzò anche l’intenso lavoro di revisione al testo che Manetti perseguì durante un notevole lasso di tempo, ripulendo e modernizzandone la forma per renderla più agile e scorrevole, aggiungendovi carte e cartigli e numerosissime note marginali per integrare e completare le singole trattazioni.
Segni, tutti, della vastissima conoscenza che l’Autore possedeva e che gli dava la possibilità di trattare un argomento spaziando nel tempo e nei luoghi. Segni anche della sua fitta rete di relazioni che gli permetteva di attingere alla sapienza di altri che come lui, erano capaci di guardare oltre i confini della propria terra.  
Ed è così che allora il suo Delle specie diverse di frumento e di pane … non si limita a essere un mero contenitore di classificazioni botaniche, ma diviene anche testimonianza e documentazione di usi e consuetudini della gente della sua Toscana (1), dell’Italia (2)  e del mondo (3) ricostruendo per noi lettori di oggi l’immagine di un passato nel quale possiamo rintracciare tanti fili conduttori che da epoche lontane sono giunti fino a noi.
Grazie a Saverio Manetti e alla sua sapiente compagnia è stato possibile, anche durante questo tempo assurdo, poter ampiamente respirare e immergendosi nel suo magistrale operato, alleggerire preoccupazioni e incertezze.



(1)
Nella Quaresima poi si fanno diverse specie di pane, ma una sorte in particolare che molto incontra, e si mangia in tal tempo di digiuno, addimandato Pan di Ramerino, fatto di bianchissima farina impastata con olio, nel quale è soffritto del ramerino, e dell’uva passa nera detta da noi Uva secca, e spesso ancora nei pani almeno più grandi, e considerati meno ordinari, vi è aggiunto dello Zibibbo. La figura di questi pani è sempre tonda, e sono più cotti del pan fine solito venale. Gli Antichi costumarono un pane, nell’impasto del quale ponevano mandorle e uve passe, addimandato da essi Conos.  

(2)
Nel Regno di Napoli, quantunque facciano gran raccolta di Mais, non ne fanno comunemente uso alcuno per pane, e questo dipende dall’abbondanza che hanno di Grano, ma bensì l’adoprano per minestre, e nella suddetta città lo riducono in pasta alquanto soda, che tagliano a mattonelle, e la friggono con olio nella padella; di questo cibo se ne vede gran masse appresso i pubblici Friggitori, che sono molti, e in tutti i posti più abitati della città, e il popolo tutto fa grand’uso di questo cibo trovandolo buono al sapore, e di gran nutrimento.

(3)
Si trova a settentrione della Capitale del Messico una Nazione indomita chiamata Chichimecas che vive errante, e selvaggia, come si dice che vivessero gli Sciti, la quale fa un certo pane di Mais e Carne d’ogni sorta da essi chiamato Beibacoa. Per far questo scavano in terra una buca, nella quale vi accomodano un fondo di pietre infuocate, e sopra vi pongono la carne circondata, o rinvolta da una quantità di Mais, indi ricuoprono la buca con altre simili pietre infuocate, e terra, lasciandovela stare quel tanto che l’esperienza ha loro fatto vedere che vi voglia per averla ben cotta e stagionata. Cotta così che ella sia, mangiano la Carne, e quel Mais, o specie di pane cotto con essa, non senza gran piacere, come con piacere la gustarono diversi Spagnoli che ne mangiarono, dimanierachè alcuni di questi colà stabiliti ne accettarono e seguitarono l’uso. *Il Mais cotto in questa maniera è quello che da alcuni istorici delle cose del Messico e del Perù, è nominato arrosto. Riguardo alla maniera di farne pane, Antonio de Solis Segretario di Filippo IV. Re di Spagna, e suo istoriografo, che scrisse la conquista del Messico, dice, che le donne del Paese macinavano il Mayz fra due pietre, come imparammo a fare del caccao p(er) farne la cioccolata, e ridotto in farina lo impastavano, senza aver bisogno di lievito, e lo distendevano in certe teglie di terra, le quali ponevano sul fuoco ed ivi lo cuocevano a perfezione.