Nano-plastiche negli alimenti. Il problema nasce dal degrado della plastica

  • 15 July 2020

E’ di poche settimane fa la notizia della presenza di micro-particelle di plastica non solo nei pesci – dato noto da tempo – ma anche nella polpa della frutta e in alcune verdure, come indicato da una ricerca scientifica di uno staff dell’Università di Catania (leggi news)  http://www.georgofili.info/contenuti/risultato/15104
Per un dibattito non allarmistico, ma indirizzato verso una corretta comprensione del problema e delle sue possibili soluzioni, “Georgofili INFO” ripubblica l’intervista di “Fresh Cut News” alla professoressa Margherita Ferrante, una dei ricercatori dello studio.

– Professoressa Ferrante, la vostra ricerca sulla presenza di nanoplastiche nella frutta e nella verdura ha generato un grande dibattito e non poche polemiche nel mercato della plastica. Quali sono i feedback che avete avuto all’indomani della pubblicazione del vostro studio?
“Beh, effettivamente si è scatenata un po’ di maretta. Siamo andati a stanare le particelle più piccole, nell’ordine di un diametro medio di 100 nanometri e nessuno si aspettava che ce ne fossero così tante, non solo nell’ambiente ma anche negli alimenti. Anche per noi è stata una sorpresa. Tuttavia, il metodo di analisi oltre che validato scientificamente è stato anche brevettato sia a livello nazionale che internazionale. Abbiamo lavorato nel rispetto di tutti i criteri del metodo scientifico e siamo abbastanza sicuri dei nostri dati”.

– Che tipo di problemi state avendo?
“Diciamo che sono entrati in gioco numerosi interessi a livello internazionale. Pensi solo a quelli, notevoli, di cui è portatrice l’industria della plastica. In questo senso, una ricerca che dimostra che la plastica degradandosi in particelle invisibili ad occhio nudo arriva all’uomo, rappresenta un elemento di rottura e delinea un fattore quantomeno di rischio per la salute umana”.

– Che rischio?
“Si parla di rischio perché dobbiamo ancora dimostrare quale sia il reale danno che viene dalle micro-plastiche e, soprattutto, se questo danno ci sia. Alcune sperimentazioni sulle particelle plastiche, però, sono state già fatte. Non direttamente sulla popolazione umana ma su oggetti come tappeti o cellulari, in vitro. E poi sui topi da laboratorio”.

– E cosa hanno dimostrato?
“Mettendo della plastica a contatto con il loro cibo, sono state riscontrate delle alterazioni sia sugli animali, i topi, che sulle piante”.

– Nelle piante cosa succede?
“La letteratura scientifica pre-esistente, che ha lavorato su particelle più grandi di quelle che analizziamo noi, ci dice che le piante con micro-plastiche hanno un apparato radicale più piccolo, i frutti si sviluppano meno e sono asfittici”.

– Esistono condizioni di coltivazione che possono essere considerate più critiche per via della maggiore presenza di nanoplastiche, penso ad esempio alle serre che usano teloni di plastica?
“Anche questo aspetto è da verificare. La nostra ricerca è stata fatta su prodotti provenienti dagli scaffali di tutti i canali distributivi, dal dettagliante al mercato rionale ai supermercati. La ricerca successiva sarà quella di studiare il campo per capire quanta presenza di nano-plastiche ci sia nel suolo, ad esempio, o nei fanghi di recupero usati anche per concimare in agricoltura. Andremo anche a vedere i sedimenti del mare. Insomma, uno studio sull’ambiente a 360°. Il passo successivo sarà una sperimentazione sulla popolazione umana ‘caso-controllo’, mai fatta fino ad ora”.

– Di che si tratta?
“Sottoporremo il corpo umano ad una sorta di screening per verificare, in soggetti particolarmente a rischio di esposizione da materie plastiche, quante nano-particelle hanno assorbito”.

– Che tempi ci sono per avere i primi risultati?
“Stimiamo un anno”.

– Immagino non sarà un percorso privo di ostacoli.
“Già. I primi bastoni tra le ruote stanno già iniziando a metterceli. In una precedente ricerca, dove abbiamo individuato la presenza di nano-plastiche nell’acqua minerale, pubblicata sulla rivista Water Reasearch, alcuni produttori di plastiche hanno chiesto all’editore di eliminare la pubblicazione. Non essendoci riusciti, hanno chiesto di potere pubblicare una replica a commento della ricerca che è consultabile sulla stessa rivista scientifica”.

– Il vostro studio ha dimostrato che, tra tutti i prodotti ortofrutticoli analizzati, la lattuga assorbe meno nanoplastiche rispetto alle mele, ad esempio…
“Si. Dipende dalla struttura del loro sistema circolatorio, per usare una metafora che si rifà al corpo umano. Questo apparato circolatorio è il canale attraverso il quale si infiltrano le micro-plastiche nel frutto. Negli ortaggi a foglia è meno sviluppato rispetto a quelli a frutto per questo la presenza di nano-plastiche è risultata di due terzi inferiore”.

– Se dovessimo rispettare la regola di ‘una mela al giorno toglie il medico di torno’ quanta plastica ci ritroveremmo addosso, in un anno?
“Non siamo in grado di dirlo al momento. Ma oltre alla plastica ci sono anche altri inquinanti come il PCB o anche tossine che, fino ad ora, non sono mai state prese in considerazione né dalla legge né dalla scienza. Tengo a precisare tuttavia che qui non si entra nel tema della qualità della frutta e degli alimenti in genere. Anzi, proprio noi riteniamo che si debba assolutamente seguire la dieta mediterranea perché ci protegge da molte malattie. La vera questione è il cambio di ottica”.

– Cosa vuol dire?
“Dobbiamo iniziare a ragionare pensando a prodotti e processi che, ab origine, siano meno inquinanti possibili. Bisogna riprogettare il ciclo della materia prima”.

– E per la plastica presente sul mercato?
“Abbiamo problemi anche con i rifiuti perché li gestiamo male. Dovremo imparare a gestire il ciclo e chiuderlo completamente. Bisognerebbe in sostanza riprogettare tutto ciò che usiamo in maniera che sia in origine sostenibile o totalmente riciclabile”.

– Ma se la plastica è anche negli scarti vegetali con cui oggi si iniziano a progettare i primi packaging biodegradabili, significa che la biodegradabilità può arrivare solo fino ad un certo punto?
“Si. Va rivisto anche il concetto di biodegradabilità così come oggi inteso. L’importante è innescare un meccanismo virtuoso”.

– Nella fase di riciclo, è possibile aggiungere una linea di processo che filtri anche questo tipo di contaminanti invisibili quali sono le nanoplastiche?
“Su questo fronte, ci sono due progetti europei, uno coordinato da me e un altro del CNR di Napoli al quale partecipiamo come Università di Catania, in cui stiamo cercando di testare dei filtri specifici per trattenere le micro-plastiche e le microfibre che hanno diametri maggiori, lo ricordiamo, rispetto alle nano-plastiche”.

– Ritornando alle serre, dopo quanto tempo la plastica dei teloni che le ricoprono inizia a degradare in nanoparticelle?
“Anche qui c’è uno studio che partecipa ai finanziamenti Horizon, finalizzato a capire quando la degradazione comincia ad essere di un certo tipo. Consideri che incidono in questo processo gli eventi atmosferici come il vento, il sole o la pioggia. Prevediamo di fare dei campionamenti. In conclusione, tutto quello che ho dichiarato in questa intervista non deve essere preso in considerazione in un’ottica allarmistica. È utile per iniziare a ragionare su un cambio di passo che ci peretta di ribaltare il nostro modo di ragionare e di produrre”.

da Fresh Cut News, 10/7/2020