Tassa sulle merendine: le esperienze di altri Paesi e i possibili effetti in Italia

  • 02 October 2019

La recente ipotesi di alcuni membri del governo di introdurre una “tassa sulle merendine”, con la quale reperire risorse per scuola e università, ha sostanzialmente diviso l’opinione pubblica in due: da un lato, coloro che la considerano negativamente giudicandola poco più di una boutade, e dall’altro lato coloro che sono favorevoli, soprattutto perché incentiverebbe stili di vita più sani. E’ fuor di dubbio che tra i principali fattori di rischio di numerose patologie vi siano lo stile di vita e l’alimentazione, e che quindi sia anche interesse dello Stato (e del sistema sanitario nazionale) promuovere corrette abitudini alimentari. Ma una nuova imposta può essere la soluzione?
In realtà, il dibattito sulla cosiddetta “sugar tax”, e cioè su una imposta che colpisce bevande zuccherate, merendine e così via (e sulla cosiddetta “fat tax”, che colpisce invece i cibi ricchi di grassi saturi) si sviluppa da almeno un decennio, ed anzi è proprio attorno al 2010-2011 che tali imposte sono state introdotte in diversi Stati. Nondimeno, nel 2014 e nel 2015 si sono occupate del tema anche l’Unione Europea e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, attraverso due report che hanno evidenziato chiaramente luci ed ombre delle “tasse sul cibo”. Pertanto, a distanza di qualche anno si possono certamente già ottenere alcune indicazioni sull’efficacia di tali misure.
Le esperienze dei Paesi che hanno introdotto queste imposte ci forniscono risultati contrastanti. Ad esempio, Finlandia ed Ungheria hanno avuto buoni risultati in termini di diminuzione del consumo degli alimenti tassati (principalmente, bevande zuccherate e junk food) e anche di riformulazione di tali alimenti secondo standard più “sani” da parte dei produttori, che hanno ridotto o sostituito gli ingredienti tassati.
D’altra parte, nel 2011 la Francia ha introdotto un’imposta sulle bevande zuccherate, che ha comportato un decremento solo temporaneo del consumo degli alimenti tassati, tant’è vero che dopo poco tempo i livelli di consumo sono tornati a quelli precedenti. Inoltre, questa imposta è stata traslata quasi interamente sul consumatore finale, che quindi ha subito interamente, quale ultimo “anello” della catena produttiva, il rincaro di tali beni.
Più complessa invece l’esperienza della Danimarca, che ha introdotto e poi abrogato nel 2012 un’imposta sui grassi saturi, imposta che aveva sì comportato una riduzione dei consumi di grassi saturi ma che allo stesso tempo aveva contribuito ad una significativa perdita di posti di lavoro e alimentato l’acquisto transfrontaliero di tali beni, con i Danesi che “eludevano” l’imposta facendo spese nella vicina Germania.
Alla luce di questi risultati, che cosa potremmo aspettarci in Italia dall’introduzione di forme di tassazione simili?
E’ difficile dire a priori se un tale sistema di tassazione sia effettivamente in grado di raggiungere lo scopo, sia esso meramente di gettito fiscale o di incremento della salute della popolazione. L’impressione è che le criticità tecniche nella introduzione di una “tassa sulle merendine” siano maggiori dei risultati previsti.
Ciò perché la strutturazione di una simile imposta deve tenere in considerazione il principio fondamentale della progressività del sistema tributario, e una “tassa sulle merendine” rischierebbe di essere non solo non progressiva, ma persino regressiva, cioè i contribuenti più poveri sosterrebbero il “peso” dell’imposta in misura maggiore rispetto ai contribuenti con un reddito più elevato. Alcuni studi hanno infatti evidenziato che le fasce più povere della popolazione da un lato spendono in cibo una percentuale maggiore del proprio reddito rispetto ai soggetti con redditi più alti, e dall’altro lato consumano decisamente più junk food (e in particolare il cibo ad alto contenuto di grassi saturi) rispetto alle fasce di popolazione più abbienti. In altri termini, l’effetto combinato di queste due circostanze finirebbe per penalizzare quasi solamente le fasce più povere della popolazione, lasciando un quadro sostanzialmente immutato per le fasce a più alto reddito.
Questo di per sé non vorrebbe dire che una imposta del genere sarebbe “automaticamente” incostituzionale: nel nostro sistema tributario non è necessario che tutte le imposte siano progressive per rispettare il dettato costituzionale, ma è necessario che lo sia il sistema nel suo complesso (e nel nostro sistema fiscale, com’è noto, la progressività è assicurata dalle aliquote Irpef). Tuttavia, innestare una imposta tendenzialmente regressiva nel nostro Paese, che ha già una tassazione nel complesso poco progressiva (stante la presenza, tra l’altro, di numerose imposte sostitutive proporzionali e di un’elevata tassazione indiretta) pone sicuramente qualche problema in termini di ragionevolezza del sistema fiscale e di equità.
Il caso della Danimarca mette inoltre in evidenza il rischio di causare penalizzazioni e distorsioni nell’industria alimentare e nel commercio. In Danimarca si è avuto un netto aumento dei costi amministrativi delle imprese per la gestione di tali imposte (in particolare per le piccole e medie imprese) e una riduzione dei posti di lavoro: sindacati e associazioni di categoria danesi avevano lamentato una perdita di oltre mille posti di lavoro nell’industria alimentare a seguito dell’introduzione del tributo. E’ pur vero che ogni Paese (e ogni imposta) fa storia a sé, ma l’esperienza danese ci mostra due rischi che, visto l’attuale contesto economico, sarebbe imprudente correre.
In conclusione, quindi, è probabile che l’introduzione di una "tassa sulle merendine" non sia il modo migliore né per soddisfare esigenze di gettito, né per incentivare stili di vita sani e corretta alimentazione nel contesto italiano. Le difficoltà tecniche di strutturare una tassa equa, non distorsiva e compatibile con il tessuto economico italiano sono molte, e sembrano comportare più rischi che benefici. Delegare l’educazione ad una corretta alimentazione alle imposte e al sistema fiscale, già piuttosto pervasivo nel nostro Paese, invece che a programmi di informazione e di educazione, tutto sommato non sembra essere la strada più efficiente.

Articolo di ALBERTO FRANCO, professore a contratto di diritto tributario presso l'Università di Torino 

da: Repubblica.it, 27/9/2019