La buona televisione. E il valore aggiunto agricolo

di Carlo Cambi*
  • 20 May 2020

Leggo con un po’ di fastidio data la pochezza di argomentazioni scientifiche un articolo di Donatello Sandroni sul rapporto tra agricoltura e televisione pubblicato da Georgofili INFO (http://www.georgofili.info/contenuti/televisione-e-agricoltura-fra-narrazione-e-realt/15003). Ritengo perciò doveroso esprimere, con tutto il rispetto, un diverso parere. Al di là di un excursus cronologico non si capisce quale sia la tesi di fondo: la televisione, par di capire secondo l’autore, o demonizza o ridicolizza l’agricoltura. Tertium non datur. Mi permetto di notare che l’autore cade in una contraddizione profonda là dove afferma che ci sarebbe una conventio ad excludendum dell’agricoltura intensiva a vantaggio di una rappresentazione bucolica. E ciò a giudizio di Sandroni non fa che aggravare i già deficitari e asfittici fabbisogni alimentari italiani.
Se l’autore avesse dimestichezza con alcune basi sia dell’economia rurale che di marketing comprenderebbe da solo che occuparsi dell’agricoltura intensiva non genera alcun valore aggiunto nel consumatore che è alla fine il decisore del mercato perché è la domanda che sorregge l’offerta. L’agricoltura italiana è ampiamente deficitaria là dove si dà a produrre commodity avendo, per invalicabili ragioni geografiche, dei limiti alla produzione massiva e risultando perdente se si mette a scommettere sui costi. Sfugge a Sandroni che l’agricoltura italiana è ancora oggi quella a maggior valore aggiunto in Europa (quasi 32 miliardi di valore aggiunto su 60 prodotti) non già per le produzioni massive e intensive, ma per le produzioni a più alto valore come quelle vitivinicole, quelle olivicole, quelle frutticole e casearie di alto livello qualitativo. Né sfuggirà – almeno lo spero per lui - a Sandroni che il primo motore dell’agricoltura italiana è la multifunzionalità, l’opzione che ha consentito l’integrazione tra valore delle produzioni agricole e valore del territorio. E’ questa catena del valore che ha fatto da moltiplicatore ad aver riportato in agricoltura un’ imprenditoria fatta di giovani e di donne che diversamente non ci sarebbe stata. Credo che l’autore del saggio su agricoltura e televisione dovrebbe interrogarsi come si potrebbe diversamente contrastare il progressivo invecchiamento della manodopera e dell’imprenditoria agricola e come si potrebbe arginare l’abbandono delle terre marginali se non generando lì nuovi valori con produzioni che certo non possono essere – per oggettivi ostacoli fisici – massive o intensive. Un accenno alla Dop economy ci consente di affermare a esempio che su 60 miliardi di fatturato agricolo ben 15 vengono dalle Dop e che se si guarda all’esportazione l’65% del nostro fatturato estero dipende dalle produzioni a certificazione di origine. Giusto perché l’autore si documenti e comprenda meglio le dinamiche economiche agricole sarà appena il caso di ricordare che  il fatturato della ristorazione italiana è di circa 85 miliardi e che, come ha dimostrato la crisi da Covid, interi comparti agricoli venendo meno il canale Horeca sono entrati in sofferenza: il vino, la filiera lattiero casearia di alto livello, l’ortofrutta di prossimità, la pesca. A ciò dobbiamo aggiungere il miliardo e mezzo del fatturato del comparto agriturismo che in alcuni territori marginali è il vero motore dell’attività agricola.  
Vi è poi da considerare un secondo aspetto che attiene direttamente alle politiche comunitarie. Non sfuggirà che uno degli assi della Pac – anzi il più consistente ormai – è il Feasr (Fondo  europeo agricolo per lo sviluppo rurale) che nell’ultima Pac ha cubato 96 miliardi di euro. Devo – e mi scuso per la lunghezza – qui elencare per chiarezza gli obbiettivi che il Feasr si pone: “promuovere il trasferimento di conoscenze e l’innovazione nel settore agricolo e forestale e nelle zone rurali; potenziare la redditività e la competitività di tutti i tipi di agricoltura e promuovere tecnologie innovative per le aziende agricole e una gestione sostenibile delle foreste; promuovere l’organizzazione della filiera alimentare, il benessere degli animali e la gestione dei rischi nel settore agricolo; incoraggiare l’uso efficiente delle risorse e il passaggio a un’economia a basse emissioni di CO2 e resiliente al clima nel settore agroalimentare e forestale; promuovere l’inclusione sociale, la riduzione della povertà e lo sviluppo economico nelle zone rurali, con particolare riferimento alla creazione e allo sviluppo delle piccole imprese e alla creazione di posti di lavoro”. Mi piacerebbe capire dall’autore del testo “Televisione e agricoltura, fra finzione e realtà” se rappresentare i territori, concentrarsi sulle produzioni in zone marginali esaltando l’unicità delle produzioni, raccontare l’innovazione in agricoltura, illustrare la filiera agroalimentare, occuparsi di tradizioni e del valore della stratificazione antropologica nelle zone rurali, porre l’accento sulla compatibilità ambientale è finzione o realtà e soprattutto se corrisponde o meno al profilo multifunzionale dell’agricoltura italiana e agli indirizzi di politica agricola comune. Non è certo mia intenzione sostenere che non ci si debba occupare anche dell’agricoltura destinata a produrre commodities, né voglio negare che vi siano talvolta delle approssimazioni e delle intenzioni sensazionalistiche, ma da qui ad affermare che si dà in televisione una visione distorta dell’agricoltura ce ne corre. Non voglio entrare nel merito dei contenuti e delle scelte, rispettabilissime, della televisione commerciale. Mi permetto di osservare che la rappresentazione del mondo agricolo e delle produzioni agricole che viene fatta dal servizio pubblico è ampiamente aderente agli indirizzi di sviluppo rurale e del mondo agricolo nel suo complesso.  Anzi, ritengono che ancora di più ci dovremmo soffermare sulla narrazione della valorialità dei territori e delle esperienze agricole oltreché dei valori antropici per esaltare l’indispensabilità dell’agricoltura, per dare sostegno agli agricoltori custodi a maggior ragione in un paese meraviglioso come l’Italia ma fragilissimo. In ultimo mi si consenta una notazione di marketing. Come si fa a pretendere l’etichetta con l’indicazione di origine dei prodotti per giustificare un maggior prezzo e poi affermare che raccontare l’agricoltura lungo la filiera territoriale è fare della finzione? Come percepisce il consumatore finale la differenza di valore e di qualità derivante dall’origine se non attraverso la narrazione dell’origine stessa? Se l’agricoltura italiana è deficitaria è perché i prezzi agricoli sono troppo bassi e sono allineati a quelli delle commodity. E’ solo con una domanda di qualità che l’agricoltura italiana può spuntare una redditività economicamente sostenibile e attrattiva. La costruzione di questo valore passa anche attraverso una narrazione dei valori dei territori intesi come contenitori geoantropici e luoghi di produzione agricola. E’ quello che costantemente, con impegno, con passione e competenza chi opera nell’informazione televisiva sta facendo e continuerà a fare. Certo non avendo la pretesa di piacere a tutti, ma con la missione, quella sì, di essere trasparenti nella narrazione, efficaci nell’informazione e testimoni del tempo.



*Giornalista, autore televisivo, socio corrispondente dell’Accademia dei Georgofili.