Uno Spelacchio a Roma

di Dario Casati
  • 10 January 2018
Nei giorni che hanno preceduto le Feste ha tenuto banco nei giornali e sulle televisioni l’immagine di un grande albero di Natale, un abete rosso per la precisione, che l’arguzia dei romani ha prontamente ribattezzato Spelacchio. Per intenderci, e per comodità, lo chiameremo anche noi con questo soprannome di nuova coniazione e indubbia efficacia. La vicenda è nota: un albero di Natale acquistato dal Comune di Roma in una delle più belle e boscose vallate alpine dopo pochi giorni dal trasporto e dall’installazione in piazza Venezia ha iniziato a mostrare vistosi segni di deperimento ed ha assunto un aspetto triste e, appunto, spelacchiato. La caduta della sua chioma ha messo in evidenza i rami su cui spiccavano, un po’ spaesati, i tradizionali addobbi, accentuandone l’immagine fatiscente e di abbandono.
Il fatto è nell’ordine delle cose e può capitare, anche se non dovrebbe per ovvie ragioni, ma ha colpito la grande informazione e smosso il solito circo dei commenti degli esperti, in genere sconosciuti che non “bucano” lo schermo, e dei non esperti, che non sanno letteralmente di che  cosa parlino, ma sono noti per tutt’altre qualità.
È inutile ritornare sul costo dell’operazione, sulle fantasiose ipotesi relative alle presunte cause del collasso di Spelacchio, sulle interpretazioni politiche, sui significati che si sono voluti ricavare dalla caduta del simbolo del Natale: non ne vale la pena. È innegabile l’interesse dell’opinione pubblica nei confronti della natura, delle piante e degli animali che la compongono. Ma lo è ancor di più la strana modalità con cui ciò avviene. Alberi e bestie vengono visti non come esseri viventi, con i pregi e gli ovvi limiti della loro condizione, ma come oggetti di uno strano mondo che scimmiotta quello naturale divenendo, per ciò stesso, il massimo della non naturalità.  Gli incolpevoli esseri viventi come Spelacchio non sono presi per quello che sono, ma come componenti dei nuovi contesti costruiti artificialmente seguendo le idee, le aspirazioni, talvolta i sogni di esseri umani sempre più lontani da un rapporto diretto e semplice con la natura. È così che vengono costruiti strani connubi, come i grattacieli del bosco verticale o la piantumazione di palme e banani nella piazza del Duomo di Milano. È così che si pretende che un cane sia vestito, mangi e si comporti come un essere umano. Ma è anche così che si consumano assurdi sfregi con i ripetuti ed esibiti vandalismi a Napoli su un altro albero di Natale. Spelacchio nel suo contesto naturale è un essere vivente, ma in quello artificiale di Piazza Venezia è morto e perpetua per pochi giorni la sua immagine, come tutti gli alberi di Natale analoghi e come le svariate migliaia di quelli più piccoli che vivono a stento qualche settimana nel clima artificiale delle case.
Spelacchio è vittima, come lo sono gli alberi oggetti di vandalismi urbani o quelli considerati intoccabili e che perciò non vengono curati, potati o rimossi quando la loro struttura inizia a diventare pericolosa perché indebolita dagli anni e dall’incuria intenzionale. Al primo temporale di fine estate cadono, come è prevedibile, ma non si dice che qualsiasi albero, sottoposto allo stesso trattamento farebbe altrettanto.
Il problema non è Spelacchio, ma questo strano modo di intendere la natura, senza accettarla così com’è, ma volendo piegarla ad una condizione di non-natura.
Alberi e animali vengono presi come gli idoli di un assurdo culto che adora un’immagine o un’idea, e trascura la realtà e già si parla di un museo dove conservare Spelacchio. È un incredibile paganesimo di ritorno i cui effetti si fanno sentire in tanti modi nel rapporto col creato, a partire dall’agricoltura e dalle pratiche agro-forestali, ma sempre più lontano dalla realtà.

Questa è la morale della storia di uno Spelacchio a Roma.