Native o esotiche? Un dibattito ampio e spesso inutile

di Francesco Ferrini
  • 01 June 2016
Il dibattito sulla scelta fra specie esotiche e specie native è sempre piuttosto acceso ma, spesso, risulta eccessivamente semplificato (nativo “buono”, esotico “cattivo”) e, soprattutto, non sorretto da evidenze scientifiche. Questo vale in particolare per il verde nelle aree urbane. Il concetto di nativo stricto sensu in un ambiente alieno quale quello delle nostre città appare inadeguato, per cui risulta opportuno cercare di conciliare posizioni controverse e di avere un approccio oggettivo e razionale anziché soggettivo, empatico ed emozionale come invece spesso accade.
Occorre precisare, innanzitutto, il significato di esotico. Nel nostro senso comune percepiamo tale vocabolo associandolo a paesi tropicali ed equatoriali quando, in realtà, dal punto vista etimologico la parola deriva dal greco: exotikos, derivato a sua volta da exo, fuori, e va quindi riferita a qualsiasi cosa che proviene o che è importata da altre regioni, non necessariamente calde e/o equatoriali.
È indubbio che la diversità urbana richiede un approccio differente poiché l’ambiente urbano è spesso molto eterogeneo. L’immagine mentale legata all’aggettivo urbano ci porta a identificare tale l’ambiente come quello dove la componente “costruito” è prevalente rispetto alle altre. Tuttavia, è urbano il Parco Sempione a Milano, realizzato a fine 1800 su terreni agricoli, ma posto in centro città, così come lo sono il Parco delle Cascine a Firenze (originariamente come tenuta agricola di proprietà di Cosimo I de' Medici) o Villa Borghese a Roma, ambienti nei quali le limitazioni alla crescita delle piante sono poche e sicuramente di gran lunga inferiori a quelle che si trovano nel viale posto a poche decine di metri da essi.
Molte città comprendono anche ecosistemi residui che derivano da paesaggi naturali o paesaggi rurali tradizionali inglobati nel tessuto urbano. Altri spazi verdi sono stati creati dall’uomo nel corso dei secoli, alcuni emergono come nuovi ecosistemi in siti ex industriali (es. Ruhr, Parco del Portello a Milano, Parc André-Citroën a Parigi, ecc.). L'adozione di una sola strategia generale per tutti gli habitat urbani è quindi irragionevole, indipendentemente che si  parli di “usare solo native” o di “le esotiche sono migliori”.
Ma allora le esotiche sono migliori o peggiori? La risposta giusta dipende quasi sempre dal contesto. La Robinia pseudoacacia, specie nordamericana altamente invasiva rappresenta un classico esempio. È noto che tende a sostituire, soprattutto nelle scarpate stradali o nelle aree marginali e in quelle urbane dismesse, le specie autoctone. Eppure la robinia è anche un albero urbano di grande valore, ben adattato ai cambiamenti climatici, rustico, con una bella fioritura e in grado di ospitare una buona biodiversità animale. Altre specie invasive come l’eucalipto possono, invece, disturbare le relazioni ecologiche tra le specie che si sono co-evolute nel corso dei millenni ed è il motivo si dovrebbe evitare di piantare l'eucalipto soprattutto laddove esso ha potenziale invasivo (es. Italia meridionale e zone costiere dell’Italia centrale) e sostituirlo con piante autoctone come querce e altre specie dell’areale Mediterraneo che sostengono più la biodiversità di ogni altro paesaggio.
Riguardo alle aree urbane solo nel caso in cui gli impatti negativi sulle specie native o sugli habitat naturali siano evidenti, le specie esotiche (in questo caso invasive) devono essere gestite e limitate (tuttavia la loro gestione è spesso altamente costosa e, come l'esperienza di molti progetti di gestione mostra, spesso non efficace). Altrimenti, nei casi in cui non ci siano specie native adatte a un particolare contesto e in cui è accertata la non invasività di una specie, è possibile, talvolta addirittura auspicabile, mettere a dimora specie esotiche. Esse sono accettate come parte della continua evoluzione degli ecosistemi e tale differenziazione permette agli ecosistemi stessi di evolvere e consente di risparmiare risorse.
Per chiarire alcuni dei concetti espressi è forse utile un esempio. L’ontano nero ha una diffusione molto ampia in Europa, ma si trova quasi solo sul bordo di fiumi e laghi e anche lungo i tratti urbani dei fiumi nelle nostre città. Ma questo è un ambiente totalmente diverso da quello che possiamo trovare a soli 100-200 metri di distanza dal fiume in una piazza assolata della stessa città. In una situazione del genere è chiaro che l’ontano non potrebbe sopravvivere, mentre alcune specie esotiche, come ad esempio la Gleditsia triacanthos (Originaria del Nord America, introdotta in Europa nel secolo XVII e in Italia nel 1712, a scopo ornamentale e per il consolidamento dei terreni), risultano molto più adatte. La gleditsia (ovviamente utilizzando le cultivar senza spine e anche sterili) ha un rapido ritmo di crescita e tollera avverse condizioni ambientali, come l'inquinamento atmosferico, la siccità estiva, i freddi invernali, gli spazi di crescita limitati e anche l’accumulo di sale. Allora perché non utilizzarla?
Si creano così nuovi ecosistemi, si stabiliscono nuove connessioni tra le specie autoctone ed esotiche. Come suddetto le specie esotiche sono spesso prevalenti negli ecosistemi urbani nuovi e sono alla base di una gamma di servizi ecosistemici. È quindi ragionevole integrare specie non native nelle nuove infrastrutture verdi, soprattutto laddove le specie autoctone non funzionano per creare un mix di specie native e non native. Le nuove “aree naturali” dominate da specie non native sono state integrate con successo in una serie di parchi europei con buoni risultati.
Per concludere sia le specie native che le esotiche sono componenti inscindibili degli ecosistemi urbani. Esse si ritrovano in combinazioni che si formano in risposta ai mutevoli ambienti urbani. Entrambi i gruppi di specie forniscono i servizi ecosistemici dei quali abbiamo bisogno. È vero, le specie non native possono essere una minaccia per la biodiversità autoctona, ma questo è spesso strettamente dipendente dal contesto. È necessario analizzare le diverse situazioni locali prima di agire essendo sempre pronti  a migliorare la biodiversità urbana, bilanciando i rischi e le opportunità delle singole specie nei singoli casi, sia per le specie native, sia per le esotiche. Differenziazione invece di semplificazione è la strategia più efficace per migliorare la biodiversità urbana in un mondo che cambia.

Foto: Gleditsia triacanthos, foglie in autunno

Da: ABOUTPLANTS, 2/05/2016


Native or exotic? A wide and often useless debate
The debate on the choice between exotic and native species has always been rather heated but often excessively simplified (native “good”, exotic “bad”). Above all, it is not supported by scientific evidence. This is in particular true for the parks and gardens in urban areas. Both native and exotic species are inseparable components of urban ecosystems. They are found in combinations that adjust to the various urban environments. Both species groups supply the ecosystem services we need. Non-native species may endanger the indigenous biodiversity, but this often depends very much on the context. It is necessary to analyze the diverse local situations before taking action, being ready to improve urban biodiversity, weighing the risks and opportunities of the single species in the single cases, both for native as well as for exotic species. Differentiation instead of simplification is the most effective strategy for improving urban biodiversity in a changing world.