Il nome dei vitigni ibridi resistenti alle malattie fungine: un rischio da non sottovalutare per la viticoltura italiana

di Cesare Intrieri
  • 14 May 2019
Dopo la metà dell’800, con la comparsa in Europa di oidio e peronospora, tutte le varietà di vite da vino coltivate in Italia e appartenenti alla Vitis vinifera, che non hanno geni di resistenza a tali malattie, richiedono annualmente un alto numero di trattamenti fitosanitari. Questa situazione è particolarmente sentita dall’opinione pubblica e rappresenta una grande sfida per la viticoltura, che oggi è considerata una delle attività agricole a più alto impatto ambientale. Una soluzione per ridurre l’impiego dei fitofarmaci, esplorata fino dal primo ‘900, è stata quella di realizzare nuovi vitigni ottenuti con incroci complessi tra viti europee e viti americane (Vitis lincecumii, Vitisrupestris, Vitis labrusca, Vitis riparia), che presentano caratteri di resistenza alle malattie fungine.
I frutti di questo lavoro, effettuato soprattutto in Francia, hanno portato alla costituzione di centinaia di ibridi interspecifici, non sempre dotati di resistenza totale a oidio e peronospora e spesso non in grado di produrre vini di qualità. Alcuni hanno avuto ampia diffusione nella stessa Francia, ma in seguito la maggior parte di essi è stata eliminata dalla coltivazione. Alcuni ibridi si diffusero anche in Italia evennero vinificati, ma i risultati furono inferiori alle aspettative e a partire dal 1936 una legge nevietò l’impiego enologico.
Nonostante questi insuccessi, i programmi di incrociocon la Vitis vinifera sono proseguiti fino ai giorni nostri in numerosi istituti di ricerca francesi, tedeschi ed ungheresi, inserendo nell’ibridazione nuovi genotipi (Vitis rotundifolia e Vitis amurensis), ma anche le accessioni migliori, prodotte negli anni ’80-‘90 dal Centro tedesco di Geilweilerhof e battezzate con nomi di fantasia (Pollux, Castor, Phoenix, Silva, Sirius,Orion) non sono state diffuse in Italia.
Solo nel 2009 alcuni ibridi bianchi (B.) e neri (N.) di terza generazione (Bronner B. e Regent N.), prodotti rispettivamente dal Centro di Friburgo e da quello di Geilweilherhof e inseriti nel registro tedesco sono stati iscritti in quello italiano su richiesta della Provincia di Bolzano. Ulteriori immissioni nel nostro registro di ibridi prodotti a Friburgo (Cabernet carbon N., Cabernet cortis N., Helios B., Johanniter B., Solaris B. e Prior N.) sono poi avvenute nel 2013 con il sostegno del FEM di San Michele all’Adige e della Provincia di Trento. Nel 2014, con l’appoggio di Trento e di Bolzano sono stati inseriti nel registro italiano altridue ibridi di Friburgo (Muscaris B. e Sauvignier gris).
Infine, nel 2015, sono stati iscritti al nostro registro altri 10 vitigni ibridi resistenti a oidio e peronospora, prodotti in Italia dall’Università di Udine edi cui parleremo in seguito. E’opportuno ricordare che a norma della nostra legislazione nessun ibrido può concorrere alla produzione di vini DOC e DOCG.
Tutto ciò premesso, si possono fare dueconsiderazioni: la prima è che se un vitigno è omologato nel registro di una nazione UE, può essere iscritto direttamente anche in quello italiano; la seconda è che per la prima volta nel 2013 due ibridi tedeschi con il nome aggettivato del genitore europeo (Cabernet carbon N. e Cabernet cortis N.), furono iscritti con lo stesso nome in Italia; la loro omologazione avvenne praticamente “d’ufficio”, poiché nel 2012 era stato sciolto il “Comitato nazionale per la classificazione delle varietà di vite”, che nell’ambito del nostro Ministero aveva avuto fino allora il compito di controllare le richieste di iscrizione.
Si creò così nel catalogo italiano un precedente non trascurabile,e cioè la possibilità di omologare nuove varietà da incrocio che avevano come parte del nome quello di un parentale. Quando infatti nel 2014 l’Università di Udine presentò al Ministero la richiesta di iscrizione dei 10 vitigni ibridi a cui si è accennato, a 3 di essi i Costitutori avevano attribuito un nome di fantasia (Fleurtai B., Soreli B. e Julius N.), ma agli altri 7 avevano dato il nome del genitore “nobile”europeo integrato da un attributo qualitativo (Petit Cabernet N., Royal Cabernet N., Petit Merlot N., Royal Merlot N., Early Sauvignon B., Petit Sauvignon B. e Sauvignon doré B.) . I nuovi ibrididerivavano infatti da incroci tra le indicate varietà internazionali di Vitis vinifera e ibridi complessi ungheresi e tedeschi ed erano stati selezionati dall’Università di Udine con la collaborazione dell’Istituto di Genomica Applicata e dei Vivai Cooperativi Rauscedo. A detta degli stessi Costitutori, la scelta dei nomi europei per alcuni di essi era motivata da motivi commerciali, in quanto molte indagini avevano evidenziato “l’importanza del richiamo al nome di un vitigno di valore internazionale ai fini della diffusione della varietà”.
In carenza di un comitato nazionale, il Ministero assegnò ad una ristretta commissione scientifica il compito di esprimere un parere sulla “congruenza” dei dossier relativi a tali ibridi, e nello stesso tempo i Costitutori presentarono le 10 accessioni all’ufficio europeo dei brevetti vegetali (CPVO = Community Plant Variety Office).
Per l’iscrizione al registro italian ola commissione valutò positivamente le caratteristiche enologiche e di resistenza alle malattie fungine dei nuovi ibridi, ma espresse parere negativo per quelli che erano stati battezzati con “nomi di cultivar europee note e conosciute, aggettivate in qualsiasi modo (es. Early Sauvignon)”. La commissione specificò che era necessario modificare tali nomi, in quanto nellacomunità scientifica “l’aggettivazione integrativa al nome di una cultivar già nota ed omologata può essere accettata solo nel caso di un mutante della medesima cultivar, da essa non distinguibile geneticamente, ma distinguibile fenotipicamenteper un importante carattere (es. Pinot meunier, Malvasia rosa, Pinot bianco, ecc.)”.
Il giudizio del CPVO per la registrazione brevettuale delle accessioni in cui figurava la varietà“nobile” fu ugualmente negativo, non per l’uso del nome europeo, quanto per gli aggettivi affiancati ai singoli nomi (Petit, Royal, Early e Doré), poiché le norme per i brevetti delle nuove varietà vietavano l’uso di attributi indicanti particolari requisiti. I Costitutori modificarono quindi le aggettivazioni, aggiungendo una parola di fantasiaai nomi dei genitori “nobili” (Cabernet eidos, N., Cabernet volos N., Merlot kanthus N., Merlot khorus N., Sauvignon kretos B., Sauvignon nepis B. e Sauvignon rytos B.). Nella versione modificata ivitigni furonobrevettati dal CPVOe successivamente, nel 2015,furono iscrittinel registro italiano, con la sola specifica dell’uso limitato ai vini da tavola e IGTe senza ulterioricambiamenti,ignorando il pareredella commissione.
La questione dei nomi ela possibilità di consentire l’impiego degli ibridianche nelle DOC sono ancora oggi problemi non risolti,e stanno suscitando notevoli discussioni nei paesi della Comunità, le cui opinioni rispecchiano spesso le condizioni ambientali in cui potrebbe ulteriormente svilupparsi la coltura della vite.
Dove i climi più umidi accentuano la pressione delle malattie fungine (Svizzera, Austria, Germania, Ungheria, ecc.), è comprensibile che per la diffusione commerciale degli ibridi resistenti sia di estremo vantaggio l’uso di un nome che richiami una nota varietà europea.Gli ibridi sono visti con favore anche per il fatto che molti di essipossono ereditare dai parentali americani ed asiaticiuna buonatolleranza alle basse temperature e minori esigenze termiche per completare il processo di maturazione.Queste caratteristiche sono importanti, perché consentono l’inserimento della vitein aree molto fredde, come sta accadendo già oggioltre il 50° parallelo, che per secoli ha rappresentato nel nostro emisfero il limite geografico per questo tipo di coltura. Non a caso, complice il riscaldamento globale, la Comunità ha riconosciuto la presenza di vigneti in Danimarca, Svezia e Polonia, oltre che in Lussemburgo, Belgio, Olanda, Bulgaria, Irlanda e Inghilterra.
 Per quanto riguarda infine l’uso enologico delle nuove accessioni, la legislazione tedesca è quella più permissiva, poiché consente che gli ibridi diultima generazione possano entrare nelle DOC e nelle DOCG in quanto il loro DNA è simile a quello della Vitis vinifera.
La Francia è contraria all’impiego degli ibridi nei vini AOP (Appellation d’OriginProtegée), corrispondenti ai nostri DOC e DOCG, e non è favorevole alle accessioni che richiamano i nomi di parentali europei. Prova ne sia che nel catalogo ufficiale del Ministero dell’Agricoltura francese sono presenti solo due vecchi ibridi di Friburgo con tali nomi (Cabernet blanc B. e Cabernet cortis N.), e che l’unico ibrido italiano prodotto dall’Università di Udine e registrato nel catalogo francese è il Soreli B., che ha un nome di fantasia. Ciò conferma quanto i nostri vicini d’oltralpe siano ttenti alla protezione delle denominazioni basate sulle varietà nazionali.
Per gli ibridi, l’Italia è allineata suposizioni analoghe alla Francia e consente la loro vinificazione solo per ivini da tavola per gli IGT. I pareri sono invece discordi sulla possibilità di identificarli con il nome delparentale “noto”: il settore vivaistico è ovviamente favorevole a tale possibilità, ma altre componenti della filiera sono molto caute, per il pericolo di illudere i viticoltori che la varietà “resistente” sia identica a quella “originale”, creando anche confusione tra i consumatori se i vini riportassero in etichetta il nome del genitore “nobile”.
In ogni modo, al di là dei problemi legati al nome, non vi è dubbio che rispetto ad altri ibridi stranieri, quelli dell’Università di Udine stanno avendo in Italia una crescente diffusione, specialmente nelle zone ad alta densità abitativa. Il loro comportamento agronomico-produttivo e le loro qualità enologiche si stanno rivelando di ottimo livello e sistima che nelle regioni in cui sono ammessi alla coltivazione (Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Veneto e Lombardia), ne siano stati impiantati quasi 500 ettari. La loro gestione richiede in media 2-3 trattamenti annui per la difesa fitosanitaria, contro i 12-15 necessariper le varietà di Vitis vinifera.
Il successo degli ibridi italiani con i nomi dei vitigni Cabernet, Merlot e Sauvignon sta suscitando, come già accennato, molte discussioni tra i viticoltori francesi per l’omonimia con le loro varietà classiche, ma tali denominazioni, pur criticabili in termini assoluti, non disturbano la viticoltura italiana, la cui notorietà non è legata alle varietà di origine francese. La nostra viti-enologia ha caratteristiche uniche nel panorama mondiale, in quanto basata su una molteplicità divitigni “locali” che nei secoli si sono adattati a specifici territori e si identificano con i territori stessi. Ad esempio,il nome “Barbera”richiama le colline delle Langhe e del Monferrato e il nome “Sangiovese”si identifica con le colline del Chianti, mentre “Cabernet” o “Sauvignon” non evocano particolari paesaggi. I nomi di varietà internazionali, attribuiti agli ibridi, non sono quindi competitivi per l’immagine della viticoltura italiana.
Ciò premesso, cresce comunquein tutte le aree vitate del nostro paese l’impegno a ridurre l’impiego dei fitofarmaci per rendere le produzioni più sostenibilie cresce in parallelo l’interesse verso le varietà resistenti alle malattie fungine. Oltre al FEM di San Michele all’Adige e all’Università di Udine, altre istituzioni nazionali o regionali, quali i Centri di Ricerca del CREA per la Viticoltura e l’Enologia di Conegliano e di Arezzo e il Centro Ricerche Produzioni Vegetalidell’Emilia-Romagna, hanno già attivato programmi di incrocio tra i vitigni locali ed i migliori ibridi di ultima generazione. Il processo porterà in tempi brevi alla selezione di nuove accessioni, per le quali la scelta dei nomi sarà un problema da non sottovalutare: le varietà resistenti potrebbero infatti essere registrate colnome del genitore “tradizionale” della zona, integrato con una parola di fantasia (Glera YZ, Lambrusco XYZ, Sangiovese XYK,ecc.) o con un nome di pura fantasia (XYZKW). A questo riguardo è opportuno ricordare che per le norme di reciprocità, i vitigni del nostro registropossono essere direttamente iscritti nei registri di una qualsiasi nazione UE. Nel caso della prima ipotesi, un GleraYZ o unSangiovese XYK, in cui la resistenza alle fitopatie si accompagni ad altre caratteristiche interessanti (ad es. forte aumento della fertilità,cicli brevi e minore sensibilitàaigeli invernali), potrebbero essere diffusi e vinificati in uno o più paesi del centro-nord Europa, magari con DOC dedicate. Non sarebbe certo utile per la nostra viticoltura se vini etichettati come Glera o Sangiovese fossero prodotti in Germania, in Danimarca o in Svezia.
I Costitutori avranno quindi il compito impegnativo della scelta dei nomi, ma la responsabilità di proporne l’approvazione sarà del “Gruppo di lavoro permanente per la protezione delle piante”, ricostituito dal Ministero nel 2016 in sostituzione del precedente Comitato.
Un’ultima osservazione, basata sulle esperienze degli ultimi anni è che  “l’importanza del richiamo al nome di un vitigno di valore internazionale ai fini della diffusione della varietà” sia ormai superata dall’effettivo valore agronomico ed enologico delle nuove accessioni. Gli ibridi dell’Università di Udine battezzati con nomi di fantasiasemplicie facili da ricordare (“Fleurtai”, “Soreli” e “Julius”) stanno infatti avendo una diffusione simile da quella delle altre accessioni che hanno il nome del parentale “nobile”. Ben vengano quindigli ulteriori ibridi resistenti prodotti nelle diverse regioni, ma è auspicabile che possano essere battezzati in modo da non creare equivoci e da non intaccare l’immagine della viticoltura italiana e l’identità delle nostre denominazioni di origine.