Tempo di tartufi

di Lucia Bigliazzi, Luciana Bigliazzi
  • 10 January 2018
Come da tradizione nei giorni che precedono e seguono il Natale, la “cucina” esplode solleticando il palato con infinite e variegate proposte che indubbiamente richiamano al gusto, ma anche all’olfatto e alla vista; l’”occhio” infatti, così come ci ricorda l’antico adagio, “vuole la sua parte”.
Solo l’imbarazzo della scelta quando ci si sofferma alle vetrine o ci si aggira per scaffali e ripiani dei negozi.
Eccelle e fa quasi da padrone, accanto ad insalata russa, paté di molteplici tipi, stuzzichini vari, il tartufo.
Un genere di fungo dell’ordine Pezizales della famiglia delle Tuberacee, descritto e raffigurato da Pier Antonio Micheli nel suo celebre trattato del 1729 Nova plantarum genera (da cui è tratta l’immagine), ma le cui prime notizie certe sono attestate fin da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia e sulle cui origini non sono mancate fin dall’Antichità classica ipotesi poetiche e magiche, come ad esempio attesta Giovenale che lo vuole originato da un fulmine scagliato dal dio Giove in prossimità di una quercia. E poiché il supremo dio era anche celebre per la sua prodigiosa attività sessuale, anche al tartufo da sempre sono state attribuite virtù capaci di svegliare i sensi e “disporre alla voluttà”: “si pensano, che mangiati con pepe, eccitino gli appetiti venerei” (C. Durante, Herbario nuouo).
Altamente apprezzato soprattutto nelle mense di nobili e di alti prelati, da sempre ne è stato decantato l’aroma, considerato una sorta di “quinta essenza” capace di provocare negli uomini uno straordinario effetto estatico.
Un vero e proprio diletto la sua ricerca alla quale nel tempo si sono dedicati aristocratici, “cittadini in villa”e popolani, una autentica “caccia” al prezioso tubero, chi per gustarlo sulla propria mensa (basta ricordare l’“Atartufolatura”, la celebre “suppa” decantata da Vincenzo Tanara nel suo noto trattato L’economia del cittadino in villa), chi per farne commercio e ricavarne un lucro; “caccia” per la quale se in alcuni luoghi è stato sfruttato lo spiccato olfatto dei porci, si è poi rivelato di somma utilità l’addestramento e l’educazione dei cani.
Di questo tratta un documento, datato 1857, conservato manoscritto nell’Archivio Storico dell’Accademia dei Georgofili (Busta 32.3339). E’ una lettera scritta dal Mugello da Alessandro Magnani, pievano dell’antichissima pieve di San Giovanni Maggiore (pressi di Borgo San Lorenzo, cfr. G. M. Brocchi, Descrizione della provincia del Mugello) a Pietro Betti in cui dà conto di quanto da lui recuperato nei boschi grazie all’aiuto del suo fedele amico a quattro zampe. Più che una missiva, il documento costituisce una sorta di breve Memoria sull’argomento attorno al quale lo scrivente si attarda con competenza e dovizia di particolari e che ha pure in una successiva missiva (Busta 32.3351), una specie di appendice che rettifica ed amplia alcune informazioni.


Scarica qui in PDF la trascrizione del documento (busta 32.3339)