L’evoluzione varietale nella viticoltura italiana

*L’Autore è direttore del CREA - Centro di ricerca Viticoltura ed Enologia (Arezzo) ed è curatore assieme a Roberto Bandinelli della Mostra "Uve del Germoplasma Toscano", che resterà aperta nella sede dell'Accademia dei Georgofili fino a giovedì 5 ottobre 2017, con ingresso libero dalle ore 15.00 alle ore 18.00.

di Paolo Storchi*
  • 27 September 2017
Dall’inizio del ‘900 in poi la viticoltura italiana ha vissuto diverse fasi di rinnovo e concentrazione della base ampelografia, per motivi molteplici. Fino alla fine del secolo precedente erano infatti presenti innumerevoli vitigni, propagati direttamente dagli agricoltori in un quadro di coltivazione in gran parte promiscua. Il primo grande ciclo di rinnovamento coincide con l’avvento della fillossera e la necessità di reimpiantare in breve tempo tutte le viti usando i portinnesti, e con i Consorzi antifillosserici che tra prima e seconda guerra mondiale diventano il principale veicolo per la diffusione selettiva dei vitigni. Dalle verifiche condotte sulle varietà coltivate a fine anni ’40 in Italia risultavano comunque ancora utilizzati oltre 350 vitigni da vino, con Sangiovese, Trebbiani e Malvasie ampiamente diffusi. Proprio in quegli anni si verifica un cambiamento epocale con l’avvento della meccanizzazione, accompagnato dallo spopolamento delle campagne e dal declino della gestione a mezzadria, eventi che favoriscono la marcata crescita di una viticoltura specializzata per la quale necessitano impianti omogenei a livello varietale. Tale fenomeno si accompagna alla crescita di un fiorente settore vivaistico specializzato, che in tempi rapidi deve fornire ai viticoltori il materiale di propagazione. Sono gli anni in cui il vino è ancora considerato un alimento e le scelte varietali si affidano a pochi vitigni produttivi, in grado di soddisfare la grande richiesta del mercato, anni in cui si diffondono rapidamente varietà dal sicuro rendimento quali il Trebbiano toscano. Il terzo grande ciclo di reimpianto coincide, a partire dal 1961, con il periodo della cosiddetta “viticoltura incentivata” dai fondi ministeriali e dai successivi nuovi programmi europei (FEOGA). E’ il periodo in cui la legislazione impone le scelte varietali a livello provinciale (con i vitigni autorizzati o raccomandati) ed in cui nascono i primi disciplinari di produzione, che sulla base del DPR 930 del 1963 impongono vincoli ancora più stringenti alle scelte varietali. Inizia successivamente, a partire dal 1975, un lento ma continuo decremento delle superfici, con l’eliminazione in prevalenza dei vigneti più vecchi costituiti spesso da numerose varietà locali. Superfici che solo negli ultimi anni paiono stabilizzarsi attorno ai 600.000 ha. Assieme alla contrazione dei consumi nazionali inizia ad aprirsi in quegli anni il mercato mondiale ed il vino da alimento diviene un prodotto di piacere, soggetto ai gusti ed alle esigenze di consumatori sempre più esperti ed esigenti. Da qui la progressiva diffusione di vini riconoscibili prodotti con varietà considerate “internazionali”, e facilmente riconoscibili, quali Cabernet Sauvignon, Merlot e Chardonnay. Gli anni 2000 sono poi gli anni dei vitigni ad uva rossa di qualità, tra i quali spicca il Sangiovese ampiamente coltivato in tutto il centro Italia. Gli anni più recenti, coincidenti con la progressiva sostituzione degli impianti obsoleti, sono infine caratterizzati da un nuovo fenomeno: l’ampia diffusione, rapida e concentrata in limitate regioni, di pochi vitigni a bacca bianca che non trovano riscontro produttivo in altri Paesi. Si tratta in particolare di Glera (per la produzione del vino Prosecco) e del Pinot grigio, che nell’ultimo decennio hanno fatto registrare incrementi di superficie superiori ai 10.000 ha risultando ormai le due varietà più propagate dai vivaisti, rispettivamente con 11,6 e 9,5 milioni di barbatelle, destinate totalmente ai comprensori del nord est. Di fatto le superfici coltivate con queste varietà hanno invertito lo storico rapporto tra vitigni ad uva nera e bianca, che vede attualmente la prevalenza di quest’ultimi con il 57% della superficie nazionale. In prospettiva un dato su cui riflettere, per il nostro Paese storicamente noto per la grande varietà del germoplasma viticolo (e per i relativi diversi vini prodotti), è relativo alla marcata tendenza alla concentrazione varietale che si sta verificando nei nuovi impianti viticoli, nei quali le prime 10 varietà propagate rappresentano oggi oltre il 45% del totale. Con l’affermarsi di questa tendenza molti dei vitigni già oggi considerati “minori”, se non sorretti da riconosciute produzioni di vini a denominazione d’origine, saranno presto destinati ad un ruolo sempre più marginale nel panorama produttivo nazionale. 

*L’Autore è direttore del CREA - Centro di ricerca Viticoltura ed Enologia (Arezzo) ed è curatore assieme a Roberto Bandinelli della Mostra "Uve del Germoplasma Toscano", che resterà aperta nella sede dell'Accademia dei Georgofili fino a giovedì 5 ottobre 2017, con ingresso libero dalle ore 15.00 alle ore 18.00.