L’agricoltura non esiste in natura. Un concetto scontato per chi la pratica, per chi l’assiste, per chi la studia, per chi la innova, per chi ci vive. Non altrettanto per gli altri, siano essi cittadini, policy-makers, consumatori, opinion leaders.
Eppure…
Eppure da quando l’agricoltura è nata nella Mezzaluna Fertile, più o meno 15.000 anni fa, ha cambiato non solo il sistema di approvvigionamento del cibo, ma il modo stesso di essere dei sapiens: del loro stare insieme, della capacità di organizzarsi in comunità, di condividere spazi con altri individui, di “mettere radici” in porzioni di terra che poi chiamarono città. Da quando l’agricoltura è “sorta” nel pensiero dell’uomo (prim’ancora che nelle sue mani), essa ha ribaltato il rapporto con la natura, “inventando” sistemi organizzati e condivisi tra le stesse comunità, capaci di “gestire” gli esseri viventi - piante ed animali - aggiungendo in un certo qual modo alle leggi di natura, le tecniche di coltivazione ed allevamento.
Bene scrive Papa Francesco nella Laudato si’, «‘coltivare’ significa arare o lavorare un terreno, ‘custodire’ vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare». Una distinzione fondamentale che mostra come la coltivazione non sia un processo naturale, ma un atto intenzionale dell’uomo, che aggiunge alla spontaneità della natura la responsabilità della cura.
Quanto questo nuovo rapporto (“nuovo”, almeno rispetto a quanto avvenuto nei precedenti milioni di anni) abbia impattato sulla natura, intesa come insieme di ecosistemi complessi, e ne abbia condizionato le sorti, è ambito di indagine degli studiosi di ecologia. Quanto invece esso abbia rappresentato per lo sviluppo del genere umano, è sotto gli occhi di tutti e circa i 9 miliardi di individui che oggi popolano il pianeta.
Un’evoluzione, anzi una co-evoluzione, in cui uomini, animali, piante, microorganismi, suolo, sottosuolo, atmosfera, acqua, hanno direttamente o indirettamente intrecciato un reciproco e sempre più marcato condizionamento.
Il modello dell’homo agricola, variante culturale (e colturale) dell’homo sapiens, ha visto premiata la sua coevoluzione con la natura, facendo di quest’ultima un formidabile strumento di vita, sussistenza, di sviluppo, di relazione, ma anche di spiritualità, di pensiero. La stessa filosofia, come espressione collettiva di comunità ormai stanziali, è probabilmente uno dei frutti indiretti dell’agricoltura.
E come ricordava San Francesco nel Cantico delle Creature, evocato da Papa Francesco nell’incipit dell’enciclica, la Terra è “madre e sorella”, ci sostiene e ci nutre, ma «protesta per il male che le provochiamo». L’agricoltura diventa allora non solo produzione, ma relazione etica col creato.
Una crescita sorprendente, velocissima (se confrontata con la storia del pianeta), capace di modificare nei suoi co-autori, la struttura stessa del cervello, degli organi, delle abilità, delle arti, della comunicazione, delle relazioni, dei sentimenti.
Durante le migrazioni dei sapiens, l’agricoltura ha accompagnato l’evoluzione degli organismi che incontrava. Così, gli ecosistemi sono diventati “agroecosistemi”: luoghi in cui le leggi della natura e quelle dell’agricoltura si sono influenzate a vicenda, producendo risultati straordinari. Straordinari nel senso più letterale: l’agricoltura, fin dall’inizio, è stata qualcosa di “extra-ordinario”, una deviazione creativa rispetto al semplice fluire spontaneo della vita.
Lo stesso DNA delle specie viventi che da quel momento abbiamo cominciato a chiamare “produzioni agricole”, siano esse vegetali che animali, è cambiato e ha cambiato il DNA degli agricola. Se sentiamo ancora irresistibile l’attrattività degli spazi naturali, dei terreni coltivati, dei paesaggi agricoli, ciò è probabilmente dovuto ai geni co-evoluti, che si “svegliano”, stimolando reazioni di benessere.
Un processo, quello dell’evoluzione agricola, che ha vissuto nel recente passato un’accelerazione anch’essa extra-ordinaria, come del resto tutti i processi a vario titolo imputabili alla volontà e all’azione dell’uomo. Al punto che da più parti si invoca un’agricoltura più “naturale” dimenticando però che - come ricorda ancora Papa Francesco - «la terra ci precede e ci è stata data», e ogni comunità può prendere «ciò di cui ha bisogno» ma con il dovere di «garantire la continuità della sua fertilità», per le generazioni future.
Non è un processo naturale quindi, è un mandato.
Eppure, l’agricoltura non esiste in natura. Un’espressione apparentemente dissonante, forse addirittura impopolare, ma che esprime un concetto necessario, che pone nuovamente al centro del dibattito il ruolo degli agricoltori, dei tecnici agricoli, degli esperti, dei ricercatori. Dire che l’agricoltura “non esiste in natura” esprime la sua verità più potente: è un’arte intenzionale, una costruzione umana, che, proprio perché non naturale, riesce a prendersi cura della natura stessa, trasformandola in paesaggio, vita, futuro. Un atto intenzionale quindi, competente, profondamente umano. E proprio per questo è uno dei suoi migliori custodi.
Vandana Shiva lo esprime con forza, quando denuncia i rischi di un’agricoltura che perde la sua radice culturale: la biodiversità, dice, non nasce spontaneamente dalle logiche del mercato, ma da comunità agricole che hanno saputo custodire la vita per millenni.
L’agricoltore, quindi, non è semplicemente “chi coltiva”: è uno dei migliori custodi della Terra.
Una costruzione culturale quindi, non naturale, ma che permette alla stessa natura di restare viva, produttiva, abitabile.
Eppure…
Eppure l’agricoltura si trova oggi nel mezzo di un cambiamento epocale, spinta da una combinazione rara di pressioni economiche, politiche e ambientali. La graduale apertura dei mercati è ormai acquisita, ma le strategie commerciali aggressive degli Stati Uniti (e non solo) stanno accelerando tensioni e incertezze, mentre l’UE sembra disposta a «sacrificare» il settore agricolo per favorire altri comparti.
A questo scenario si sommano il cambiamento climatico e una narrazione pubblica spesso distorta, che vede l’agricoltura come causa dell’emergenza climatica, mentre essa ne è in realtà la prima vittima. Le rese per ettaro calano, gli eventi estremi aumentano, e l’opinione pubblica chiede al settore nuovi sforzi ambientali proprio mentre la produttività diminuisce.
Mai dal Dopoguerra le imprese agricole hanno vissuto un livello di stress così elevato. E come ogni organismo sotto pressione, anche l’agricoltura può reagire solo cambiando: innovare diventa l’unica strategia possibile. È ciò che gli studi di Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt - premiati con il Nobel - hanno chiarito: la crescita nasce dall’innovazione. Ma l’innovazione premia solo chi ha la volontà e la capacità di integrare nuovi strumenti (DSS, IA, agricoltura di precisione, biosolutions, automazione), con competenze agronomiche raffinate e una moderna capacità organizzativa e imprenditoriale.
Sì, perché in agricoltura, ricordiamolo, “la tradizione è un’innovazione che ce l’ha fatta” …