Ferrucci: «Un giardino storico è una composizione di architettura il cui materiale è principalmente vegetale, dunque vivente e come tale deteriorabile e rinnovabile. Il suo aspetto risulta così da un perpetuo equilibrio, nell’andamento ciclico delle stagioni, fra lo sviluppo e il deperimento della natura e la volontà d’arte e d’artificio che tende a conservarne perennemente lo stato»; e se dunque «come monumento il giardino storico deve essere salvaguardato secondo lo spirito della Carta di Venezia, tuttavia, in quanto “monumento vivente”, la sua salvaguardia richiede delle regole specifiche.
Con questa definizione la Carta di Firenze, redatta nel 1982 dall’International Council of Monuments and Sites (ICOMOS) e dall’International Federation of Landscape Architects (IFLA), coglie in modo chiaro ed univoco le peculiarità che connotano il giardino storico tratteggiandone i caratteri identificativi: la monumentalità che lo distingue dal giardino che storico non è, la sua predominante componente vegetale che ne disegna la cangiante evoluzione di forme e di cromatismo, quella dinamicità che si contrappone alla staticità del monumento costruito dall’uomo. Il messaggio che la Carta di Firenze ci trasmette è che quel connubio tra natura e “volontà d’arte” invoca l’adozione di specifiche metodologie di co¬noscenza, di intervento conservativo e di restauro, rispettose del suo essere un unicum limitato, peribile, irripetibile. Una sfida intrigante e inquietante per il paesaggista chiamato a cimentarsi con il restauro di un giardino storico: come l’hai vissuta nelle tue molteplici esperienze? Qual è l’orizzonte dal quale si prendono le mosse e quale quello di approdo: la ricostruzione dell’impianto originario o altro?
Giusti: La domanda impone una premessa teorica sul giardino come forma di architettura viva, situata al crocevia tra natura e cultura, tra materia vegetale e materia minerale, e dunque tra due differenti temporalità: quella ciclica e rigenerativa della natura e quella lineare e storica della costruzione. Tale duplicità genera una tensione strutturale che si manifesta nel corso del tempo e che costituisce uno dei principali nodi epistemologici del pensiero paesaggistico contemporaneo. La storia dimostra come in alcuni casi il giardino sia sopravvissuto all’architettura minerale, con un’inversione del paradigma tradizionale – che attribuiva all’edificato una durata superiore a quella della vegetazione considerata più effimera. Porto sempre come esempio l’immagine di fine Ottocento del distrutto castello di Saint Cloud: dalle macerie dell’edificato si vede nitidamente il giardino coi suoi parterre nella lontananza. Questa considerazione porta, a mio avviso, a una prima, cruciale rottura teorica: la resistenza del giardino non è nella permanenza, ma nel mutamento. Il giardino, infatti, si conserva non malgrado il cambiamento, ma attraverso il cambiamento stesso. La sua materia vegetale, lungi dall’essere fragile o instabile, è portatrice di un principio di rigenerazione che sfida la temporalità lineare della storia umana. Si afferma così l’idea del giardino come palinsesto polimaterico, un dispositivo complesso in cui la materia viva e la memoria storica interagiscono in modo costante e reversibile.
Il tempo costituisce il vero denominatore comune della dialettica tra Natura e Storia; agisce come principio strutturante del giardino, in cui si intrecciano elementi opposti: razionale e irrazionale, previsto e imprevisto, controllo umano e spontaneità naturale.
In questa prospettiva, il giardino si configura come un sistema complesso nel senso epistemologico contemporaneo del termine, ossia un organismo dinamico che evolve secondo logiche non lineari, frutto di interazioni multiple e imprevedibili. Tale visione consente di superare la concezione statica e rappresentativa del giardino – erede della classificazione stilistica otto-novecentesca - e di riconoscerlo come entità in divenire.
L’indagine sul giardino si apre quindi a un approccio interdisciplinare, fondato sull’intersezione di fonti storiche, geografiche, iconografiche e topografiche. Tale approccio incrocia l’asse diacronico (storico) con l’asse sincronico (geografico) e sovverte la visione del giardino come “quadro” immobile, restituendolo come processo. Tale impostazione anticipa quella che oggi potremmo definire una geografia storica del paesaggio, in cui lo spazio e il tempo non si oppongono ma si co-determinano. Tale riflessione teorica trova un riscontro concreto nel dibattito europeo degli anni Settanta e Ottanta, culminato nelle Carte di Firenze del 1981, qui a ragione richiamate. Si tratta di documenti che segnano un momento di svolta nel riconoscimento del giardino come monumento storico e come oggetto autonomo di indagine e tutela. Occorre però fare alcune precisazioni: la Carta ICOMOS introduce il concetto di “giardino-monumento”, ma fonda tale definizione sul giardino come composto distinto di materia vegetale e materia minerale, mentre La Carta Italiana, afferma la natura unitaria, peribile e irripetibile del giardino, superando la dicotomia Vegetale/minerale e riconoscendo la continuità vitale tra le sue componenti materiali e immateriali. Questa differenza non è da sottovalutare, perché riflette due diverse visioni del restauro: una di matrice analitica, centrata sulla conservazione delle forme, e una di matrice sistemica, orientata alla conservazione dei processi. È quest’ultima che anticipa la cultura italiana della conservazione integrata, sviluppatasi negli anni Ottanta come risposta alla crisi del restauro tradizionale e alla crescente consapevolezza ecologica.
Su queste premesse, una risposta in termini progettuali può basarsi sull’assunzione di responsabilità culturale da parte del progettista, consapevole che la conservazione si fondi su una conoscenza approfondita del bene e sulla capacità di governarne il processo di trasformazione.
Un giardino, anche quando profondamente alterato, non scompare mai del tutto: permane nella trama delle sue strutture originarie, nelle vie d’acqua e di terra, nei lacerti dei manufatti che possono essere ricomposti attraverso interventi misurati e riconoscibili, evitando la tentazione di un ripristino integrale o mimetico.
Nessuna ricostruzione potrà mai restituire l’“originale”, ammesso che un originale possa esistere in un organismo per sua natura dinamico e mutevole come il giardino. Ciò che resta leggibile e costitutivo è la struttura spaziale e le impronte arboree, mentre le piante erbacee (e talvolta anche le arbustive), soggette a cicli vegetativi, mode e gusti, rappresentano la componente più effimera, le “comparse” del grande teatro della natura, per usare una metafora di ascendenza barocca, quindi sostituibili senza per questo modificare l’impianto storico del giardino.
Ferrucci: Come trovare un punto di equilibrio tra il rispetto delle forme e degli intrecci vegetali che conferiscono ad ogni giardino storico il suo carattere di unicità ed il suo pregio estetico-culturale, con i condizionamenti che le defaillances climatico ambientali, i luoghi della vita, i nostri spazi urbani, suburbani e rurali, operano nella scelta e nelle condizioni di vivibilità delle piante?
Giusti: Il giardino, come organismo vivente e luogo di memoria, impone un ripensamento costante delle categorie di autenticità, permanenza. In un contesto segnato dal cambiamento climatico e dalla trasformazione del paesaggio urbano, la conservazione del giardino deve essere intesa come gestione del mutamento e trasmissione di un equilibrio dinamico tra natura e cultura. L’elemento vegetale, in particolare, costituisce la componente più vulnerabile e mutevole del sistema, soggetta a processi fisiologici, biologici e ambientali che ne determinano la vitalità e la permanenza. Per questo motivo, la conservazione di un giardino non può ridursi alla tutela delle singole specie, ma deve mirare a mantenere l’assetto ecologico e percettivo complessivo, garantendo la continuità delle relazioni tra le componenti.
Le attuali dinamiche climatiche (incremento delle temperature medie, prolungamento dei periodi siccitosi, eventi meteorici estremi, nuove fitopatie e modificazioni dei cicli fenologici) incidono profondamente sulla sopravvivenza e la stabilità delle specie vegetali storiche. Molte piante tradizionalmente impiegate nei giardini storici europei, come Taxus baccata o il Buxus sempervirens, tanto per citare le più diffuse e note, manifestano oggi sofferenze legate allo stress idrico, alla carenza di ossigeno nel suolo, o all’attacco di patogeni emergenti). Parallelamente, specie un tempo marginali o esotiche mostrano oggi una maggiore adattabilità ai nuovi regimi termici e idrici, offrendo spunti per strategie di sostituzione o integrazione compatibili.
In questo contesto, la resilienza diviene la chiave interpretativa e gestionale per conciliare tutela e adattamento.
Nel restauro dei giardini storici, la resilienza rappresenta il principio guida per conciliare tutela e adattamento, garantendo la capacità del sistema-giardino di reagire alle perturbazioni senza perdere la propria identità funzionale e morfologica. L’approccio resiliente si traduce in una serie di strategie operative: analisi ecologica e monitoraggio costante dello stato vegetativo, gestione adattiva delle pratiche colturali per ridurre stress idrici e termici, introduzione di specie compatibili più resistenti ai cambiamenti climatici e creazione di microclimi locali per proteggere le essenze più sensibili.
Tutti gli interventi devono rispettare il principio del minimo intervento compatibile, assicurando sostenibilità e leggibilità storica del giardino.
Ferrucci: Man mano che attraverso le tue parole si svelano le complesse sfaccettature del giardino storico, matura la consapevolezza della imprescindibilità di una specifica formazione, direi alfabetizzazione in saperi diversi, trasversali, imprescindibilmente necessari per comprendere un giardino storico, dialogare con lui e operare su di lui a qualsiasi livello. Quali sono, se ci sono, secondo te, i limiti della formazione universitaria in questa direzione?
Giusti: Agire consapevolmente nel restauro di un giardino storico significa affidarsi a una figura dotata di una solida cultura critica, capace di leggere il testo storico del palinsesto paesaggistico e di individuare le competenze disciplinari necessarie per un dialogo effettivo tra saperi diversi.
Troppo spesso, invece, l’intervento nei giardini storici è affidato a professionisti – in particolare agli architetti del paesaggio – che non sempre possiedono la specifica formazione nel restauro. Si tratta di figure che possono certamente collaborare, ma il restauro di un giardino implica un approccio più complesso e un lungo percorso interdisciplinare, fondato su conoscenze storiche, tecniche e scientifiche integrate. In Italia questo percorso è ancora in fase di consolidamento, ma sta progressivamente crescendo in consapevolezza e qualità. Su questo fronte lavoro da tempo, sia come titolare della cattedra di Restauro dei giardini al Politecnico, dove i laboratori mettono in dialogo competenze di idraulica, botanica e scienze forestali, sia come membro del Comitato scientifico dell’APGI e della Scuola del Patrimonio, che ha promosso per due anni consecutivi corsi specifici dedicati al tema.
Oggi, tuttavia, occorre fare un passo ulteriore. Le nuove opportunità professionali che si stanno aprendo nel settore hanno generato aspettative crescenti e una domanda sempre più alta di competenze specialistiche. È dunque indispensabile essere pronti a rispondere con professionalità esperte, per evitare improvvisazioni che rischiano di compromettere un patrimonio fragile e prezioso, la cui tutela richiede conoscenza, metodo e sensibilità.
Ferrucci: Come valuti l’esperienza formativa finanziata dalle misure ad hoc del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinate ai giardini storici Investimento M1C3 «Programmi per valorizzare l’identità dei luoghi: parchi e giardini storici”? È un’esperienza che merita di essere reiterata sia pure nella sfida improba del reperimento di forme di sostenibilità finanziaria?
Giusti: Accolgo con molto favore l’iniziativa PNRR. Molti giardini attendevano da tempo un intervento strutturale che ne consentisse la riapertura alle visite e la piena valorizzazione all’interno di una filiera culturale capace di diffondere conoscenza ed educazione.
Oggi, tuttavia, la sfida è duplice: da un lato, ampliare le opportunità di finanziamento a quei giardini rimasti esclusi per carenza di risorse o per sfiducia nelle istituzioni; dall’altro, per quelli già restaurati, avviare concreti programmi di gestione e manutenzione.
Senza una cura costante e professionale, infatti, anche il giardino più accuratamente restaurato rischia di degradarsi in breve tempo.
È quindi indispensabile che le istituzioni, a tutti i livelli, investano con maggiore continuità in questi luoghi, riconoscendoli non solo come parte essenziale del nostro patrimonio culturale, ma anche come risorsa di benessere psicofisico per la collettività.