Il suolo è la base della nostra vita: produce cibo, regola il clima, filtra l’acqua e ospita una parte enorme della biodiversità del pianeta. Eppure, in Italia ogni secondo ne perdiamo 2,7 metri quadrati sotto il cemento, l’asfalto o le strutture artificiali. Nel solo 2024, secondo l’ultimo rapporto ISPRA–SNPA, sono stati trasformati in modo irreversibile oltre 83 chilometri quadrati di territorio, un incremento del 15,6% rispetto all’anno precedente. Il consumo netto – cioè la differenza tra nuove superfici artificiali e aree recuperate – è pari a 78,5 km², il valore più alto degli ultimi dodici anni. Anche a causa della flessione demografica, il suolo consumato pro-capite aumenta ancora di quasi 1 m2/ab, raggiungendo i 365,8 m2/ab. Sale anche il consumo di suolo annuale pro-capite, che passa da 1,23 a 1,44 m2 /ab.
La corsa alla costruzione non conosce quindi rallentamenti. Mentre gli edifici e le infrastrutture continuano a crescere, la superficie agricola e naturale arretra. Le infrastrutture, gli edifici e le altre coperture artificiali occupano ormai il 7,17% del territorio italiano. In Europa la media è del 4,4%. Questo significa che più di 21.500 chilometri quadrati del nostro Paese – un’area pari alla somma di Lombardia e Veneto – non sono più in grado di produrre cibo, assorbire acqua piovana, immagazzinare carbonio o regolare la temperatura.
La prima vittima del consumo di suolo è l’agricoltura. I terreni agricoli, in particolare quelli pianeggianti e fertili, sono spesso i primi a essere sacrificati per nuove aree industriali, logistiche, commerciali o residenziali. Negli ultimi anni, secondo le stime ISPRA, oltre il 60% del nuovo suolo consumato proveniva da superfici agricole, soprattutto nella Pianura Padana, e nelle aree periurbane di Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto.
Questa progressiva scomparsa del suolo agricolo riduce la capacità di autosufficienza alimentare del Paese. L’Italia importa ormai quasi il 50% dei cereali e oltre il 30% delle proteine vegetali necessarie alla propria alimentazione animale e umana.
Ogni ettaro perso nella Pianura Padana – una delle aree più produttive d’Europa – rappresenta una perdita potenziale di circa 6 tonnellate di cereali all’anno, pari al fabbisogno di oltre 10 persone. Rapportando questi valori ai quasi 84 km² di nuovo suolo artificiale del 2024, possiamo stimare una perdita teorica di oltre 50.000 tonnellate di cereali all’anno, una quantità sufficiente per alimentare una città delle dimensioni di Bologna.
A lungo termine, il consumo di suolo agricolo significa dipendenza crescente dalle importazioni, un aumento della vulnerabilità alle crisi alimentari globali e l’abbandono del paesaggio rurale, con conseguenze anche culturali e sociali: perdita di identità, degrado estetico, scomparsa di comunità agricole locali. Ma il consumo di suolo produce impatti che vanno oltre la perdita di suolo agricolo, in particolare, riducono la capacità del territorio di drenare le acque, aggravando il rischio di alluvioni. Nel 2024, sempre secondo i dati ISPRA, quasi 2.000 ettari di nuove aree artificiali sono stati realizzati in zone a pericolosità idraulica, e oltre 600 ettari in aree a rischio di frana.
Un altro volto del consumo di suolo è quello che avviene in ambito urbano. Qui la sottrazione di aree verdi ha effetti immediati sulla qualità della vita dei cittadini. Secondo l’analisi ISPRA, quasi il 70% del consumo di suolo netto registrato nel 2024 è avvenuto proprio nelle aree urbane e periurbane. L’obiettivo europeo di “azzerare la perdita netta di verde urbano entro il 2030” appare dunque sempre più difficile da raggiungere: in molte città italiane, le aree verdi per abitante sono già al di sotto della soglia minima raccomandata dall’OMS (9 m²/ab). Le conseguenze sono tangibili. Si misurano differenze di temperatura al suolo tra aree urbane e zone rurali che arrivano a superare i 10 gradi, soprattutto nelle regioni del Nord (+11,3*C) e del Centro (+7,7°C). A Bologna, ad esempio, studi condotti in collaborazione con ISPRA evidenziano che la perdita di verde pubblico nell’area metropolitana tra il 2012 e il 2022 ha comportato un aumento medio delle temperature estive di circa 2°C e un incremento del numero di notti tropicali (oltre 20°C) di più del 30%.
La diminuzione del verde è particolarmente grave quando riduce la presenza degli alberi urbani, nostri alleati fondamentali contro il caldo e l’inquinamento. Le analisi ISPRA mostrano che nelle aree con una copertura arborea di almeno il 50% la temperatura al suolo può risultare fino a 2,2 °C più bassa rispetto alle aree più impermeabilizzate. Inoltre, studi internazionali (FAO, IPCC, EEA) indicano che un albero maturo può assorbire in media da decine a oltre un centinaio di chilogrammi di CO₂ ogni anno, oltre a filtrare una parte significativa delle polveri sottili e degli inquinanti atmosferici.
Invertire la rotta è possibile, ma richiede una visione condivisa.
Le nuove norme europee offrono strumenti importanti. La Direttiva UE sul monitoraggio e la resilienza del suolo recentemente approvata impone un rilevamento sistematico del suolo e misure di mitigazione, mentre il Regolamento sul ripristino della natura obbliga i Paesi membri a recuperare aree verdi e a ripristinare gli ecosistemi degradati.
In definitiva, serve un cambio di mentalità che miri a riusare anziché costruire, a rigenerare invece di espandere. Ogni nuova area edificata deve essere compensata dal recupero di suoli degradati, dalla bonifica di zone dismesse o dall’ampliamento del verde urbano. C’è bisogno di ridurre il processo densificazione, preservando in modo prioritario le aree verdi rimaste nelle aree urbane. Anche le città, se gestite come ecosistemi urbani e periurbani, possono diventare laboratori di rinascita ecologica che ridiano qualità al vivere quotidiano.
Il futuro dell’Italia si fonda sulla risorsa suolo: sul suolo che resta e su quello che potremo ancora rigenerare.