Un’estate convulsa e tormentata, anche climaticamente, sta per finire e il mondo, confuso, sembra chiedersi se un lungo periodo storico non stia davvero per chiudersi, dopo circa 80 anni di pace relativa e di un considerevole sviluppo economico.
Alcuni avvenimenti sembrano indicare che, al termine di un semestre all’insegna dell’incertezza e, soprattutto, sotto l’influsso di una serie ininterrotta di scossoni di entità incredibile e di portata imprevista, forse alcuni elementi di quello che potrebbe essere il futuro prossimo dell’intero assetto mondiale possano iniziare a prendere consistenza. Questi elementi si riconducono schematicamente ad almeno quattro fatti: 1) l’avvento al potere di Trump per la sua seconda Presidenza, 2) la persistenza, anzi l’espansione, di una crescente serie di conflitti armati con possibili conseguenze devastanti sugli assetti politici del mondo ,3) il formarsi della sensazione del possibile cambiamento degli equilibri di potere nel mondo, 4) la crescente consapevolezza in Europa della necessità che si realizzi e si consolidi una vera Unione politico istituzionale oltre che economica a fronte delle emergenti tendenze alla disgregazione dell’Ue e del legame fra i popoli europei.
La prima metà dell’anno è stata dominata indiscutibilmente dall’irruzione sullo scenario mondiale di Donald Trump dopo l’intervallo della Presidenza più convenzionale di Biden. Tuttavia, con il trascorrere dei giorni e degli eventi, è chiaro che Trump non è il “messia” del mondo futuro e nemmeno, più modestamente, il riedificatore di quell’ America “di nuovo grande” a cui dichiara di voler tornare. La strategia che sembra guidarlo consiste nel combattere imperiosamente per il potere mondiale a colpi di imposizioni agli altri protagonisti, nel tentativo ogni giorno più confuso e velleitario di sovvertire l’ordine nato alla fine della Seconda guerra mondiale senza una reale alternativa e anzi esacerbando le reliquie della Guerra, ampliando vecchi squilibri. Nel giro di una manciata di giorni cadono le speranze di chiudere “per sempre” conflitti pluridecennali, di ricostituire un’economia mondiale allo sbando in preda a sussulti imprevisti e con conseguenze non valutabili, sostituendo quella della globalizzazione che a sua volta si innestava nello scenario della conclusione della Seconda guerra ed era basata sul consenso e sul rispetto di rapporti multilaterali, costruiti e pattuiti con regole faticosamente condivise. Sulla multilateralità e sulla volontà di rispettare il nuovo quadro costruito si reggeva un ordine che ha funzionato nei decenni sino al suo canto del cigno, la trasformazione del Gatt in Wto all’inizio del nuovo millennio. Ma quello che emerge, con crescente evidenza, è il fatto che imporre regole unilateralmente e con la forza non consente una partecipazione convinta e una stabile e condivisa costruzione di un nuovo assetto. Innesca solo le spinte a nuovi conflitti basati sulla forza. Esplode la “guerra dei dazi” forse chiusa dalla dichiarazione congiunta Usa/Ue, ancora da definire in molti dettagli, che ha il solo merito di stabilire per un periodo, non sappiamo quanto lungo, i nuovi dazi, per un periodo incerto perché condizionato dai volubili estri di “The Donald”.
Se a tutto ciò si sommano le sue mosse sul terreno dei conflitti in corso, in particolare di quello russo/ucraino scatenato dall’aggressione russa, si ha l’impressione di un’assenza di strategia comprensibile da parte Usa, ma certamente non dalla Russia. Nemmeno la sua proverbiale abilità nelle trattative ne esce bene, considerandone l’andamento incerto, come la dichiarazione in cui asserisce che venderà armi all’Ucraina, ma che queste devono essere pagate dagli “europei”. Così facendo, le speranze di una conclusione in tempi stretti svaniscono come nebbia al sole. Lo stesso vale per la conduzione del conflitto fra Israele e una parte del mondo arabo che, a parole, dovrebbe essere in via di chiusura.
Negli stessi giorni si verifica il ritorno di Draghi con il suo discorso al Meeting di Rimini. Mario Draghi è una personalità anomala nel ristretto contesto di coloro che hanno operato in questi anni per far crescere l’integrazione fra i diversi Paesi operando sul piano concreto delle cose da fare, degli atti da compiere, degli obiettivi da perseguire per far riprendere la crescita della globalizzazione prima e, poi, una maggiore integrazione dell’economia mondiale su basi multilaterali. Draghi costituisce un’eccezione nel quadro delle personalità mondiali che abbinano ai grandi ideali politici concrete azioni operative. I suoi detrattori lo definiscono “un burocrate”, dimenticandone la precisa volontà politica. Anche il “passaggio” italiano è stato in breve accantonato dalla cieca volontà di una certa politica di tono e livello minore. Ma il suo messaggio ritorna con chiarezza nel momento dello sfascio provocato da Trump. Gli stessi europei sembrano dimenticare che l’unico passo in avanti compiuto dall’Ue, dopo la nascita del mercato unico, è stata la realizzazione di una parte dell’Unione economica monetaria che ha condotto alla moneta unica, dopo anni in cui questa era stata poco più che una complessa unità di conto. Il suo messaggio di Rimini è stato subito osannato, ma altrettanto rapidamente accantonato sotto l’incalzare della sconcertante bizzarria delle azioni di Trump e della ritrosia dei leader europei a compiere passi in avanti sulla strada dell’unità europea, in questo mossi dalla ritrosia delle politiche nazionali a cedere parte della loro sovranità, spesso sciaguratamente gestita. Una crescente unità degli europei è tanto necessaria che nei passaggi più critici delle vicende del primo semestre trumpiano la stessa Gran Bretagna post Brexit si è riavvicinata alla compagine dei 27 Paesi Ue e insieme ad altri ad essa legati come Svizzera e Norvegia.
Un altro segnale positivo, anch’esso sottovalutato, è la posizione assunta negli stessi giorni da Ursula von der Leyen a favore di una maggiore coesione europea e soprattutto di nuovi passi in avanti sulla strada dell’integrazione per recuperare peso e autonomia, pur nel mantenimento di un rapporto stretto con gli Usa che rimangono il più importante partner mondiale, al di là della guerra attualmente scatenata dall’Amministrazione Trump. “Ursula”, ci scusiamo per l’abbreviazione, si dimostra un vero leader, prova ne sia la ben pilotata seconda elezione con un cambio di maggioranza in corsa e con una serie di correzioni di rotta non minori. Ora, però, si attende da Lei un arduo salto in avanti. Le carenze che emergono dall’altra parte dell’Oceano, il cambiamento del quadro politico in molti Paesi Ue, la necessità di occuparsi seriamente del futuro dell’Ue richiedono una convinta accelerazione della costruzione europea. È l’ora di rafforzare l’Ue facendo crescere l’integrazione e impegnando i Paesi a non traccheggiare di fronte alle responsabilità che l’Europa comunitaria inevitabilmente deve assumersi, altrimenti si può solo tornare indietro travolti dai gorghi della storia. Un grande sforzo si impone anche perché, Trump insegna, il grande fratello americano non è lo stesso di sempre, ma per noi e per l’intero mondo l’Occidente rimane un fattore trainante della Società umana.
Vedremo ben presto, con il prossimo bilancio pluriennale dell’Ue, quali saranno le modifiche da adottare per adeguarci alla situazione, a partire dalla necessità stringente di mettere insieme le risorse finanziarie con strumenti di autofinanziamento come gli eurobond che Tremonti, un altro italiano importante e poco ascoltato, invano sostenne in passato e che nelle parole prudenti di Draghi e di “Ursula” sembrano poter essere (necessariamente) adottati.
Un’attenzione di riguardo infine riguarda il destino dell’unica politica veramente unica, quella agraria, e della questione energetica, incluso il green deal. Di tutto ciò è necessario avere il coraggio di parlare con chiarezza in tutta Europa.
Solo così potremo dire finalmente: Buon giorno Europa!