Dialoghi sul Verde: “Tutelare l’agricoltura per tutelare la natura”

A colloquio con Roberto Nannini, agricoltore.

di Nicoletta Ferrucci e Roberto Nannini
  • 23 July 2025

Ferrucci: Quando è nata la passione per il vino?

Nannini: Nella casa paterna in quel della Maolina sulle colline di Lucca, una zona declamata per la bontà del suo vino, c’era un piccolo vigneto di circa 3000 mq. Nelle migliori annate si riusciva a tirarne fuori circa 25 damigiane ma mio padre si stancò di spendere soldi e tempo per ottenerne così poco frutto; senza mentire diceva che gli sarebbe costato meno comprarlo il vino e di ottimo piuttosto che farlo. Decise di estirpare allora quell’ antico vigneto ricco di uve le più diverse e sconosciute per sostituirlo con un meno impegnativo oliveto.
Io non avevo alcuna passione per il vino ma l’idea che per un mero calcolo economico si perdesse un prezioso, antico scrigno pieno di testimonianze vive (le viti) di una storia antica e famosa e un pezzetto di paesaggio cambiasse mi riempì di malinconia e di rabbia. Decisi allora che me ne sarei occupato personalmente e che per prima cosa una parte di vigna, la più antica e stentata, che i vecchi contadini che venivano a lavorare mi suggerivano di tirar giù e rifar nuova, scommisi l’avrei salvata. La curai con vangature al calcio e concimazione con pattume di stalla e il vigneto rifiorì. Tutto è nato da lì e oggi di quell’ eco il mio lavoro ancora risuona.
Ecco: l’abbandono della campagna, il vederla trascurata, offesa, malata mi suscita disagio, risentimento e più spesso ormai anche sdegnato sgomento.

Ferrucci: Perché non accettare che è nell’ ordine delle cose che le cose cambino, nascano, muoiano e che in fondo la natura sempre si adatta e rinasce indifferente all’ azione dell’uomo?    

Nannini: C’è al fondo del nostro cuore, e probabilmente è un archetipo collettivo, il mito di un paradiso perduto che guarda caso almeno nella cultura giudaico cristiana, o forse in molte culture, coincide con l’immagine di un giardino, il giardino dell’Eden. Un giardino dove magicamente coesistono in perfetto equilibrio animali, piante, l’uomo e ultimo ma non ultimo Dio, il Creatore, che ammira compiaciuto. Io credo che la nostra inclinazione naturale sarebbe quella di riprodurre in terra quel paradiso e mi piacerebbe ora che faccio vino, poter reclamizzare la mia azienda con lo slogan: “nei nostri giardini cresce l’uva”.
Il giardino è il luogo ontologico dell’armonia del creato abitato dall’uomo, si badi bene, non ci fossimo immagineremmo sicuramente un'altra più rustica armonia naturale. Provocatoriamente mi vien da dire che l’eden esiste perché c’è l’uomo e non perché precedette la sua comparsa ossia a prescindere dalla sua creazione. D’altronde i monaci del medioevo, pur lodando Dio e il creato, laboriosi e alacri e pazienti, ricrearono piccoli eden nei monasteri e nelle terre strappate all’ incolta campagna e ai boschi bonificandoli e coltivandoli. Quanti esempi si potrebbero fare di questo ripetersi di situazioni agricole e architettoniche armoniose in cui l’uomo costruisce (ricostruisce?) un giardino perduto, dove manufatto edilizio e natura si sposano esaltandosi in rispettosa e a volte stupefacente simbiosi creando “inspiegabilmente” luoghi di autentica pace.
Come non pensare poi anche all’ utilizzo simbolico dell’immagine del giardino per evocare una armonia interiore raggiunta con dedizione e cura parlando di giardino interiore.

Ferrucci: Cosa poter fare oggi che la natura è sotto assedio, offesa, ferita e porzioni del nostro paesaggio abbandonato rischia di scomparire, e che quell’ Italia talmente bella e varia che fu chiamata il “giardino d’ Europa” non rimanga solo un ricordo?

Nannini: Tralasciando di parlare dell’ ovvia necessità di contrastare e vincere il climate change e di impedire che specie aliene di insetti, patogeni e non solo migrando rivoluzionino con aggressività “terroristica” gli equilibri ambientali, temi enormi che richiedono un cambio di mentalità collettiva e una governance mondiale vera, posso testimoniare, perché ne ho ancora vivo il ricordo, che la natura protetta dalla nostra aggressione durante il lockdown restituì a chi la sperimentò come noi lavorando all’ aperto, prodigiosa, abbagliante bellezza sensoriale dimenticata di colori suoni e profumi.
Detto di questa emergenza epocale, che richiede azioni sinergiche al di là delle nostre limitate competenze, mi  piacerebbe, a una scala inferiore, che tutti, ma soprattutto le fortunate amministrazioni locali che si trovano a lavorare su territori paesaggisticamente di indiscussa bellezza, ospiti di testimonianze ancor vive di un passato di meticolosa cura agricola in fazzoletti di terra apparentemente insignificanti per dimensione, ma cammei per concentrata preziosità, ne proteggessimo e ne promuovessimo il recupero.
Questo non è un vaneggiamento sentimentale ma una urgenza concreta nata vedendo mortalmente minacciata la sopravvivenza nel cru storico più famoso di Lucca per il vino, Segale, per mancanza di fondi e per disinteresse del proprietario, di un piccolo vigneto, nascosto, prezioso, evocativo, magico e una pergola che nasconde la fonte perenne che sgorga dalla collina, all’ ombra della quale si andavano a ristorare dalla fatica i contadini per secoli.  Ecco questi due piccoli reperti agricoli per me equivalgono in preziosità: la chiesina della Rosa a Lucca e Santa Maria della Spina a Pisa. Trovo profondamente antropocentrico e anche stucchevolmente narcisistico quanto l’uomo è disposto a spendere per salvare beni architettonici e artistici, le sue opere, e quanto poco o niente di ciò che è naturale/ambientale/agricolo che sia notevole e a volte ahimè addirittura irripetibile.
Pasolini, ne “La forma della città” del 1974, un breve film della Rai, profeticamente, con la sensibilità del rabdomante e la preveggenza del profeta, disperatamente, denunciando la barbarie dei tempi moderni che avevano cambiato antropologicamente gli italiani e il paesaggio, di certo non migliorandoli, parlando del rapporto anche visivo tra città e campagna e prendendo a esempio la città di Orte e della sua skyline ormai deturpata disse “…ora quelle case popolari, cosa vengono a turbare? Vengono a turbare soprattutto il rapporto fra la forma della città e la natura. Ora il problema della forma della città e il problema della salvezza della natura che circonda la città sono un problema unico. Ma sempre si pone il problema di rispettare il confine naturale fra la forma della città e la natura circostante”. E poi, parlando di una stradina pedonale che dà accesso alla città attraverso una porta nella sua cinta muraria, continua: “questa strada per cui camminiamo con questo ciottolato sconnesso e antico non è niente, non è quasi niente, è un umile cosa, non si può nemmen confrontare con certe opere d’ arte d’ autore, stupende della tradizione italiana, eppure io penso che questa stradina dal niente così umile sia da difendere con lo stesso accanimento, la stessa buona volontà,  con lo stesso rigore con cui si difende l’ opera d’arte di un grande autore, esattamente come si deve difendere il patrimonio della poesia popolare anonima e la poesia di Petrarca e di Dante”.
Ecco qui, in queste ultime frasi, visceralmente sento denunciata una profonda verità, ossia che, se non si salvano certe umili testimonianze del passato saremo tutti più poveri, vuoti di ricordi e il nostro eden somiglierà sempre più a un paradiso perduto mai abbastanza rimpianto.