Dazi interni, un'invenzione di Trump

di Dario Casati
  • 02 July 2025

Mosse e contro mosse si susseguono fra gli Usa e i partners europei mentre si avvicina il momento in cui dovrebbe prendere forma il nuovo sistema mondiale dei dazi. Non è ancora chiaro se il 9 luglio sarà davvero il primo giorno o se, come non escluderemmo, la scadenza non sarà altro che lo spunto per un nuovo rinvio fra le parti per proseguire in una trattativa che gioverebbe ad entrambe. La guerra dei dazi in atto dimostra scarso buon senso e risente dei confronti politici e militari in atto proseguiti con lo scontro fulmineo con l’Iran. Il modello trumpiano di impostare ogni negoziato cercando di imporre trattative con controparti renitenti e, soprattutto, che non hanno intenzione di accettare imposizioni che sembrano estemporanee e ingiustificate, almeno in campo economico, si dimostra scarsamente efficace. Di fatto, l’esperienza di questi mesi indica che i negoziati avviati baldanzosamente con i pirotecnici colpi di scena dei primi giorni non si concludono nei tempi lampo previsti e lo “ultimative ultimatum” non è quasi mai quello definitivo. Il problema sembra essere proprio creato dall’esasperazione del metodo, in un contesto in cui troppe sono le questioni in campo e mentre mezzo mondo brucia per guerre violente che sembrano sfuggire di mano anche a coloro che le riavviano dopo decenni di attriti già oggetto di conflitti.
Pensare a ricreare un nuovo complesso di regole stabili e condivise per gli scambi internazionali in queste condizioni risulta francamente velleitario in un contesto in cui si stenta a comprendere quali saranno i futuri assetti geopolitici dopo quelli delineati alla fine della Seconda guerra e rimasti in vigore per un’ottantina d’anni prima retti dal GATT e poi dalla WTO. Difficilmente equilibri estremamente delicati e linee rosse faticosamente tracciate potranno essere cambiati senza tragici scontri che, al fondo, nessuno osa davvero scatenare.
Prima che l’estensione dei conflitti in Medio Oriente desse ampio spazio alle armi e riattizzasse antiche questioni irrisolte, peraltro create e governate dal club ristretto dei Cinque Paesi vincitori della Seconda guerra, con dichiarazioni spesso estemporanee e in apparenza quasi casuali, “The Donald” ha imposto all’ordine del giorno mondiale il grande capitolo “Dazi”.
Ha destato un certo clamore il concetto da lui espresso che la maggiorazione dei dazi sulle merci e sui servizi provenienti dall’Europa (con l’equivoco su questo termine fra Ue e Paesi del vecchio continente) e diretti agli Usa sarebbe giustificata dai dazi interni, almeno nell’Ue. Questi sarebbero ben superiori a quelli dichiarati e altrettanto ingiustificati. Da alcune parti si ritiene che questo argomento, assai discutibile, possa essere stato usato per rompere la tremebonda unità Ue con trattative separate. Ma più in generale sul tema Trump ha segnato due autogoal e dimostrato di essere, quanto meno, male informato o in scarsa sintonia con i suoi consiglieri: a) i Paesi Ue e anche quelli legati ad essi senza essere membri, come Svizzera e Paesi dello Spazio Economico Europeo (SEE), sono difficilmente scindibili dal complesso dell’Ue, pena la fine di questa. L’eventuale trattativa, non può che essere unica perché il regime doganale è unico ed è basato sulla tariffa doganale comune. Quindi viene smentito anche il faticoso dibattito politico interno italiano, un chiacchiericcio si potrebbe dire, che attribuiva alla Presidente del Consiglio facoltà e volontà di trattare con gli Usa per la sola Italia. Nei fatti la mossa di “The Donald”, se fosse stata compiuta in quel senso, avrebbe rafforzato quelle intese che voleva indebolire; b): la strada scelta per costringere gli europei a trattare non li ha divisi, come sembrava desiderare, ma anzi ha rinsaldato i legami intra Ue e fra questa e la Gran Bretagna che, non solo sui dazi, si è ravvicinata agli altri Paesi Ue riuscendo persino, nel caos del momento, a stringere con l’Ue un accordo particolare per lo status dei cittadini di Gibilterra. Un risultato storico passato quasi sotto silenzio.
In realtà i cosiddetti “dazi interni” dell’Ue non sono, come si è detto, veri e propri dazi ma riguardano i costi connessi all’esercizio del libero scambio di beni e servizi nell’area del Mercato Unico. Essi sono originati dalle pratiche necessarie per rendere compatibili le normative sugli scambi fra i singoli Paesi membri e quelli ad essi collegati nello SEE o con regime speciale come l’U.K. La denominazione, subito fatta propria da “The Donald”, nasce da un’affermazione sintetica di Draghi che la usò per stigmatizzare i limiti della macchina comunitaria basata sulla puntigliosa definizione di una serie infinita di procedure e definizioni comuni che si è originata dalla natura iniziale dell’Ue basata sul concetto di mercato unico.  In realtà fa riferimento ai rilevanti costi di questa omologazione forzata di norme nazionali diverse da omogeneizzare nel nuovo contesto del mercato interno dell’Ue e in seguito conservate. Secondo Draghi, che cita dati del FMI, le barriere interne dell’Ue equivalgono ad una tariffa del 45% per le attività produttive e del 110% per i servizi. In questo senso l’Ue ha aumentato i costi relativi agli scambi al suo interno e ciò ha contribuito a far crescere in maniera significativa il peso dell’interscambio sul Pil più che in Cina o negli Usa. In parallelo, tuttavia, è cresciuta la vulnerabilità dell’Ue in una fase in cui la globalizzazione perdeva di peso poiché le barriere interne sono rimaste elevate mentre quelle esterne diminuivano. L’elevata apertura del suo mercato ha condotto alla crescita del surplus commerciale con l’estero, compresi gli Usa, ed è da ciò che si è prodotta la reazione americana di cui la politica di Trump si è fatta interprete.
Accanto a questa situazione, che dovrà comunque trovare correttivi in nuovi accordi, occorre considerare che l’Ue a sua volta è nella necessità di ridurre la rigidità delle sue regole interne che rendono gravemente fragile il suo sistema economico esponendolo ai rischi di eventi negativi e di crisi che, come abbiamo visto nell’ultimo quinquennio, tendono a verificarsi con accresciuta frequenza.
Limitando il campo di osservazione al sistema agricolo alimentare, è significativo il fatto che uno degli impegni assunti sin dall’inizio dalla nuova Commissione guidata da Ursula von der Leyen riguardi proprio la semplificazione del quadro normativo interno e si esprima con la predisposizione del nuovo progetto del “Pacchetto Semplificazione” che è stato presentato il 14 maggio e che sarà operativo seguendo una road map per il settore agricolo definita già per i restanti mesi del 2025.
Contemporaneamente è iniziato il lavoro per la predisposizione della nuova PAC che inizierà nel 2027 e rimarrà probabilmente in vigore un quinquennio in parallelo con quello relativo al bilancio pluriennale europeo per lo stesso periodo.  Quanto avviene ora in relazione alla questione dei “dazi interni” dell’Ue è un potente campanello d’allarme che non deve essere sottovalutato né relegato a considerazioni generiche sulle questioni economiche in discussione in questo periodo sotto l’incalzare della nuova Presidenza americana. L’obiettivo per affrontare la grande sfida agricola del prossimo futuro sarà proprio quello di rendere più sostenibile non solo la produzione agricola ma anche il sistema di governo dei mercati agricoli nell’Ue per riuscire ad eliminare i pesanti fardelli costituiti dai costi che nei decenni, da quel lontano 1957, i Paesi dell’Ue hanno edificato a spese del sistema agricolo alimentare europeo.
Chiamiamoli pure “dazi interni”, ma auguriamoci una loro pronta e sensibile riduzione.