L’inizio del mandato presidenziale del Presidente Trump si è caratterizzato, in linea con la sua personalità, per la pirotecnica azione di governo costruita con un susseguirsi di “misure bomba” in diverse direzioni e che hanno sorpreso il mondo ed il suo stesso Paese. In gran parte, è giusto ricordarlo, erano state preannunciate in campagna elettorale, ma è un fatto che la valanga dei cento provvedimenti urgenti emanati (ordini esecutivi) con caratteristiche che li fanno assomigliare ai nostri decreti legge per la loro esecuzione immediata ha scosso il mondo e gli stessi Usa che pur conoscono “The Donald” ed il suo modo di agire. Fra le misure che più hanno attirato attenzione vi sono quelle relative ai dazi ed a quella che i mezzi d’informazione hanno subito battezzato “la guerra dei dazi” nei confronti di tutti i partner mondiali degli Usa, amici o nemici, prossimi (molto prossimi) o lontani. Una guerra che colpisce l’attenzione e scatena le fantasie più sorprendenti in un campo in cui si riteneva che non vi fosse più molto da dire essendo una misura antichissima come l’umanità e la sua abitudine, sin dal più remoto passato, a scambiare beni.
Quasi accantonati tornano ora alla ribalta come strumento potenzialmente risolutivo di molte questioni da tempo irrisolte. Sono misure di politica economica antiche e semplici, immediate da applicare e da affrontare, ma capaci secondo Trump di contribuire radicalmente a rendere di nuovo Grande l’America. L’Italia, Paese di recente formazione, gli Stati che nel tempo si sono succeduti, le sue Città Stato, i borghi murati, li conoscono bene, e si ritrovano persino nell’urbanistica e nella toponomastica dove hanno costituito una presenza concreta che ha lasciato i suoi segni, con le vestigia delle Porte, le cinte daziarie, i caselli del dazio. Dazi interni si sono applicati sino a decenni non lontani anche dopo l’Unità. Sono (erano) misure molto pratiche. Quando si varca la “Porta” nelle mura, in entrata o in uscita, si impone il pagamento di un importo, una “dazione”, parola da cui nasce il termine. Il dazio è uno strumento semplice, concreto, tangibile che afferma il potere del Signore locale. Un segno che poi si è esteso ai Comuni.
Uno strumento protezionistico efficace, soprattutto nelle economie semplici, sia per frenare l’uscita di merci che si vogliono trattenere entro le mura, reali o simboliche, sia nelle entrate che si vogliono rendere ardue facendo salire il prezzo d’acquisto gravato dal dazio. Insomma, uno strumento rozzo, tipico di economie chiuse che vogliono aprirsi agli scambi con grande cautela.
L’incoerenza fra il fine e il mezzo nasce con il nostro mondo in cui i rapporti commerciali sono molto più complessi. Nel tempo si sono visti e compresi i vantaggi delle economie aperte che valorizzano i vantaggi competitivi dei singoli Paesi. Esse sono costruite sull’incremento degli scambi che, anziché frenare la ricchezza prodotta, la esalta. È l’economia di scambio, che permette di far crescere insieme il Pil mondiale e quello dei singoli Paesi. Ma rimane, nell’immaginario privato e in quello collettivo, la sensazione che con l’imposizione di dazi l’economia cresca basandosi su un potere solido, quello di poter realizzare e imporre una significativa taglia sull’economia della produzione, che crea ricchezza, e degli scambi, che la moltiplica, mentre, al contrario, è un’economia parassitaria che fa pagare alla collettività ciò che si potrebbe compravendere a meno con maggiori profitti.
Nel disegno di Trump vi è una strategia, consapevole o non, che mira alla costruzione di un sistema mondiale fatto di economie chiuse e basato sul potere degli Stati di imporre la “taglia” dei dazi ad altri, a proprio vantaggio. Ma ciò contiene un errore di fondo, perché in realtà il costo reale è pagato dal Paese che impone i dazi e il vantaggio, se pur si forma inizialmente, è di breve durata. L’economia nazionale non cresce, ma avvizzisce e con essa si contrae anche il totale dell’economia mondiale, impoverita da quella “mano” nascosta che sottrae una parte della ricchezza prodotta. Lo avevano compreso al loro tempo i più grandi commercianti dell’antichità nel segno di un mercato libero, i Fenici. Era così e lo è anche oggi, al tempo di Trump. Si accontenta all’inizio qualche parte della popolazione, ma poi si constata che il Pil mondiale cede insieme a quello interno.
Nel tempo, protezionismo e libero scambio si sono alternati sino al tentativo della globalizzazione ultima che oggi alcuni indicano come la causa della presunta alternativa costituita dallo sbocco protezionistico daziario di Trump. Notiamo che prima di questa fase ve ne sono state altre che, tuttavia, hanno aperto la strada all’insorgere di gravi conflitti provocati non dall’eccesso del volume degli scambi, ma da chi, non riuscendo ad affermarsi con la produzione stimolata dagli incrementi di produttività, pretendeva di poterlo fare con le armi.
La Guerra dei Dazi è cronaca e tutti i giorni introduce nuovi colpi di scena. Saremo costretti ad affrontare un periodo di crisi ripetute che mentre scriviamo hanno già fatto perdere 2 punti percentuali al Pil mondiale semplicemente parlandone, in una fase in cui faticosamente si voleva far crescere il prodotto lordo mondiale dopo le grandi crisi del primo quinquennio degli anni ’20 del 2000 e con sanguinose guerre aperte.
Dovremo perciò affrontare ancora questo tema, a partire, ad esempio, dalla falsa questione dei cosiddetti, ma inesistenti, “dazi interni” all’Ue. Un tema introdotto da “The Donald” a sproposito e a cui un dibattito poco attento, ma ghiotto di sensazionalismo, ha dedicato uno spazio ingiustificato.